A Naharia, nell'ospedale bombardato da Hezbollah 19/08/2006
Gerusalemme- E’ un vero peccato che il nostro ministro degli esteri Massimo D’Alema sia andato a verificare i danni di guerra solo a Beirut e non abbia fatto altrettanto nel nord di Israele, dove i missili dei suoi amichevoli ospiti libanesi hanno colpito per più di un mese lo Stato ebraico. Se fossa andato a Naharia, la citttà più colpita dopo Kiriat Shmonà, avrebbe potuto rendersi conto di persona come Israele applica il concetto di equivicinanza che lui cita invece, ed applica, in modo del tutto a sproposito. A Naharia c’è l’ospedale Western Galilee (Galil Hamaaravì) – 700 letti- che serve tutta la regione nord con le città di Akko (Acri),Karmiel,Maalot, villaggi e kibbutzim, una regione densamente popolata da arabi. Lo visitiamo accompagnati da Ido, giovane portavoce del ministero della sanità, che ci fa osservare come a sette km. in linea d’aria ci sia il confine libanese. Per questo, pur avendo un servizio di sicurezza di primordine, allo scoppio della guerra, l’ospedale ha trasferito tutti i pazienti e le camere operatorie ( il tutto in mezza giornata) in un reparto sotterraneo di diecimila mq., protetto anche da attacchi chimico-batterici, costruito alla fine degli anni ’90, dopo l’esperienza dei missili Scud lanciati da Saddam Hussein. Saggia decisione. I quattro piani oggi sono vuoti, la spiegazione si trova al piano più alto, dove un missile Katiusha ha sventrato il tetto distruggendo le camere. Sarebbero morti tutti se non fossero scesi per tempo nel sotterraneo. Al Western Galilee, tra medici,infermieri e pazienti, non c’alcuna differenza tra ebrei,arabi,drusi o cristiani, tutti ricevono lo stesso trattamento, persino quando la situazione può essere molto delicata. Come nel caso di un prigioniero Hezbollah ferito, catturato in Libano, ma l’unica misura presa, più che altro a sua protezione, è stata quella di curarlo in una camera singola. Era ferito molto seriamente alla gola e a una spalla, lui era preoccupato di guarire ed i medici di salvargli la vita. Si stupiva che a curarlo ci fosse anche un medico arabo. Chissà cosa avrà pensato quando si è reso conto che era in Israele. Fra i civili ricoverati incontriamo quelli feriti dalle micidiali biglie di acciaio contenute nelle Katiusha, che esplodendo colpiscono a raggio un numero molto alto di persone. Nell’ospedale c’è anche una “ emergency room”, che accoglie chi arriva sotto shock perchè si è trovato vicino ad una esplosione o per la fortissima ansia subita a causa del suono della sirena. A volte arrivano in gruppo, cercando aiuto l’uno con l’altro, e questo aiuta la terapia anti-schock da parte degli psichiatri, che, tranne casi eccezionali, non ricorrono a medicine, ma, con la terapia di gruppo, rassicurano e tranquillizzano evitando così il ricovero. Certo ci sono dei casi terribili, quindici giorni fa è stata ricoverata una donna che ha visto morire il marito davanti ai suoi occhi colpito in pieno da un missile. Non era soltanto sotto shock, era disperata, abbiamo dovuto assisterla studiando un trattamento particolare. C’è anche un kindergarten per i bambini ricoverati, dove ricevono una particolare assistenza psicologica, perchè i disastri della guerra a quell’età, oltre alle ferite, possono lasciare traumi molto seri da curare. Per questo c’è un dipartimento di cure intensive. Soldati feriti in arrivo, famigliari in ansia per le loro condizioni, un intero universo che si muove in un vasto sotterraneo per seguire chi soffre, per curare, senza guardare in faccia o la carta d’identità. Per questo lo suggeriamo a D’Alema nel caso in cui trovasse di suo interesse occuparsi anche del versante israeliano, guardi cosa succede all’ospedale Galil Hamaaravì e ne tragga profitto. Potrebbe persino accorgersi che l’equivicinanza in Israele è un fatto reale, quotidiano, non chiacchiere.