I fallimenti dell'Onu e i rischi mortali delle utopie umanitarie due storie istruttive
Testata: Il Foglio Data: 19 agosto 2006 Pagina: 1 Autore: la redazione Titolo: «L'egida dell'Onu - Così il patto Briand- Kellog impose la pce e favorì la guerra»
Breve storia dei fallimenti, militari , politici e morali delle "missioni di pace" dell'Onu Sulla prima pagina del FOGLIO del 19 agosto 2006:
Milano. L’imboscata alla colonna francese diretta al porto di Beirut ha costretto i legionari a una battaglia senza quartiere con le milizie Morabitun. Mentre i camion della forza multinazionale bruciano, colpiti in pieno in mezzo alla strada, arriva un ufficiale francese con il basco blu dell’Onu nel disperato tentativo di fermare gli scontri. Un razzo lo costringe a buttarsi a terra e quando si rialza ha il volto insanguinato. Non si preoccupa delle ferite, ma dell’impotenza della bandiera bianca che voleva sventolare in nome dell’Onu. Impreca, sbatte a terra il basco blu e sconsolato si stringe la testa fra le mani. Era l’anno 1982, alla vigilia della prima missione italiana in Libano, ma potrebbe facilmente ripetersi nelle prossime settimane se le regole di ingaggio della forza multinazionale (ma poco europea) non fossero abbastanza robuste. Molti pensano che la missione delle Nazioni Unite in Libano dal 1978, l’Unifil, sia fra le più antiche e inutili, ma è superata da quella sulla linea di controllo che divide il Pakistan dall’India, nella contesa regione del Kashmir. La missione Unmogip cominciò nel 1949, alla fine della prima guerra per il controllo del Kashmir e non servì a evitare la seconda nel 1971 e i combattimenti ben più pericolosi del 1999 e del 2002 che fecero temere un conflitto nucleare regionale. Di più. Le cannonate, in alcuni periodi quotidiane fra indiani e pachistani, passavano sopra la testa degli osservatori Onu, ridotti a contabili delle violazioni, come in Libano. Tantomeno i Caschi blu servirono a fermare le infiltrazione dei mujaheddin foraggiati dal Pakistan, che in nome della guerra santa in Kashmir continuano ad attaccare militari e civili nella zona sotto controllo indiano. Le macchie nere sulla coscienza dell’Onu sono tante, ma il genocidio del Ruanda ed i massacri in Bosnia resteranno nei libri di storia. Nel 1994 un disperato contingente di Caschi blu, in gran parte canadesi, era asseragliato nei bunker del proprio quartier generale a Kigali, mentre all’esterno gli hutu, al potere, massacravano 800 mila tutsi, la cui guerriglia si era avvicinata alla capitale. Mostrando le mappe di alcune fosse comuni contenenti 20 mila civili tutsi, molti sepolti vivi, ai Caschi blu, questi ringraziavano e ammettevano a denti stretti “di non poter far niente”. Nella ex Jugoslavia la missione Unprofor fu fra le più fallimentari della storia dell’Onu. In Bosnia i Caschi blu strinsero la mano al generale serbo Ratko Mladic, mentre i suoi uomini, nel luglio del 1995, sterminavano ottomila musulmani delle enclave di Zepa e Srebrenica, considerate “safe area” dal Palazzo di vetro. I parà olandesi che dovevano difenderle, esigui nel numero e senza appoggio aereo, subirono quest’onta e molti si dimisero per protesta. L’indecisione sul Kosovo Ai tempi del Ruanda l’attuale segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, era responsabile delle operazioni africane e ha fatto ammenda per non aver fermato le stragi. Oggi in Darfur, la regione sudanese dove sono morte almeno settantamila persone e due milioni hanno scelto la via dell’esodo, l’Onu sta molto attento a non usare la parola genocidio che provocherebbe automaticamente un intervento. Se parliamo di fallimenti non possiamo dimenticare il disastro della missione in Somalia iniziata nel 1992, con l’obiettivo di consegnare aiuti umanitari e poi ampliata con l’idea di disarmare i signori della guerra e rifondare lo stato somalo sprofondato nel caos. Dopo 14 anni di violenza Mogadiscio e gran parte della Somalia si ritrova sotto il controllo dei fondamentalisti islamici e il governo transitorio, riconosciuto dalla comunità internazionale, è troppo debole per imporsi. Si attende ovviamente una nuova missione di pace, questa volta con truppe africane. Anche gli interventi a Haiti e Timor Est non sono fulgidi esempi di successo nella democratizzazione. A Haiti l’Onu è sbarcato nel 1994, ma ha sempre avuto bisogno di un intervento armato spalleggiato dagli Stati Uniti per riuscire a imporsi sui dittatori locali. Ha portato al potere Jean-Bertrand Aristide, che si è dimostrato inadeguato, e ora i Caschi blu sono sempre sotto attacco. A Timor Est, nel 1999, le Nazioni Unite avevano organizzato un referendum per la nascita della nuova nazione, ma l’applicazione del risultato è sfociata in una carneficina, con i funzionari dell’Onu barricati nei loro alloggi. Soltanto il deciso intervento armato degli australiani e di altri paesi, fra cui l’Italia, è riuscito a fermare la mattanza organizzata dai filoindonesiani. La nuova nazione è ancora sconvolta da ammutinamenti delle neonate forze armate e lotte di potere, che hanno costretto gli australiani a intervenire di nuovo. Anche la guerra in Kosovo, che dal punto di vista militare è stato un successo, trova in difficoltà l’Onu. La Nato, che presidia la provincia “ribelle” è rispettata e temuta, mentre la missione Unmik viene presa a sassate, perché gli albanesi vogliono l’indipendenza, i serbi no e il Palazzo di vetro non sa da che parte stare
A pagina 8 dell'inserto una storia istruttiva , un esempio di come come le utopie umanitarie e pacifiste conducano alla guerra e favoriscano il male:
Firmare un accordo tra stati “per bandire la guerra come strumento delle risoluzioni internazionali” e ottenere, in cambio, l’occupazione nazista della Renania, l’annessione dell’Austria e l’invasione dei Sudeti. La storia del patto Briand-Kellog (dal nome dei promotori, il ministro degli Esteri francese Aristide Briand e quello americano Frank B. Kellog), firmato il 27 agosto del 1928, è il ritratto di come l’umanitarismo, spinto all’estremo, si trasformi in un vero boomerang. Lo spirito di Monaco e l’appeasement di Chamberlain arriveranno dieci anni più tardi ma porteranno in sé la filosofia di fondo di quel patto: via la guerra dalle vicende umane, senza se e senza ma. C’è un passaggio, emblematico del sentire dell’epoca, che i firmatari del patto rivolgono ai paesi non aderenti: “Firmiamo sperando che, incoraggiate dal nostro esempio, tutte le altre nazioni del mondo si assoceranno a questi sforzi umanitari e, accedendo al presente trattato, metteranno i loro popoli in grado di profittare dei benefici delle sue disposizioni, riunendo così le nazioni civili del mondo in una rinunzia comune alla guerra come strumento della loro politica nazionale”. E’ la grande utopia di un mondo senza il male che diventa, con una postilla, azione di governo e apre le strade alla prepotenza dei totalitarismi che hanno insanguinato il XX secolo. L’anno successivo alla ratifica del patto, l’Urss (che non lo aveva sottoscritto) sistema con la forza le beghe al confine con la Cina e il Giappone (che invece l’aveva firmato), invade la Manciuria. Risultato: visto che il Briand-Kellog non prevedeva sanzioni in caso di violazione, non accadde nulla. Ma è nel cuore della vecchia Europa che si materializzano i fantasmi della violenza e dell’antisemitismo che porteranno all’Olocausto e alla Seconda guerra mondiale. Il primo effetto del Briand-Kellog era stato, all’indomani della ratifica, la smilitarizzazione della Renania da parte dei francesi che, dalla fine della Grande guerra, secondo il trattato di Versailles, la occupavano militarmente per prevenire un eventuale revanscismo tedesco sulla regione. Con l’avvento di Hitler al potere, la Renania, senza difese militari, diventerà il primo boccone dell’espansionismo nazista. E’ il gioco delle tre carte: Hitler, fino al 1939, l’anno dell’invasione della Polonia, continuerà a ratificare il trattato per fare come gli pare ed evitare le reazioni militari da parte delle altre nazioni. Nel 1936, in palese violazione dei trattati, invierà l’esercito in Renania. Nessuno dirà nulla. Il Führer interpreterà la passività europea come segno di debolezza e, tanto per gettare fumo negli occhi a Francia e Inghilterra, offrirà un volto fasullo e propagandistico del nazismo “che vuole la pace”. L’occasione saranno le Olimpiadi di Berlino del 1936, col trionfo delle immagini agiografiche della regista Leni Riefenstahl, degli atleti indigeni, degli edifici di Albert Speer. Media, architettura, sport: tutto farà gioco alla volontà hitleriana di rappresentare una Germania buona, magari un po’ frustrata dal trattato di Versailles. L’anno dopo, in luglio, a Buchenwald verrà aperto un campo di concentramento e, da Berlino a Dresda, la persecuzione antiebraica continuerà incessantemente. L’offensiva per la soluzione finale è cominciata e l’Europa dormicchia, speranzosa di cullarsi nel più lungo periodo di pace della sua storia. Nel maggio del 1938, Hitler decreterà l’Anschluss e annetterà l’Austria alla Germania, dopo averla occupata militarmente. Poi alzerà la voce contro la Cecoslovacchia: “I Sudeti sono territorio tedesco”. A settembre, la Conferenza di Monaco sancirà il loro passaggio al Terzo Reich e il primo ministro inglese, Arthur Neville Chamberlain, sarà convinto di aver salvato la pace con l’appeasement.
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