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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
19.08.2006 Il ritiro dalla Cisgiordania metterebbe le città palestinesi nelle mani di Hamas
Israele ferma il piano di convergenza

Testata: Corriere della Sera
Data: 19 agosto 2006
Pagina: 9
Autore: Davide Frattini
Titolo: «Israele congela il ritiro dalla Cisgiordania - La rabbia dei riservisti: «Allo sbaraglio senza ordini né mezzi»»

Dal CORRIERE della SERA del 19 agosto 2006:

GERUSALEMME — Il dossier è stato presentato al ministro degli Esteri Tzipi Livni un paio di mesi fa. Centinaia di pagine messe insieme da un comitato, incaricato di valutare il piano di ritiro unilaterale dalla Cisgiordania. Centinaia di pagine che non davano molte speranze al progetto, messo al centro della campagna elettorale dal premier Ehud Olmert. Livni e il suo consigliere Aharon Abramovitch hanno riassunto le conclusioni del documento in tre incontri con il primo ministro. L'ultimo, a pochi giorni dal 12 luglio, quando il rapimento di due soldati e il bombardamento di katiuscia hanno aperto il conflitto con l'Hezbollah. L'evacuazione della Cisgiordania — avverte la relazione — rischia di lasciare il controllo delle città ad Hamas, che potrebbe usarle come basi di lancio verso Israele. E da un ritiro parziale, lo Stato ebraico non otterrebbe neppure un riconoscimento della comunità internazionale per i nuovi confini (Olmert aveva promesso una frontiera definitiva entro il 2010). Trentaquattro giorni di campagna militare hanno convinto il premier più dei suoi collaboratori. «Per ora il progetto non verrà attuato », avrebbe detto ai ministri e ai deputati del partito Kadima, secondo il quotidiano Haaretz. «Non sarebbe appropriato. Non possiamo dimenticare il problema palestinese, ma in questo momento dobbiamo concentrarci nella ricostruzione del nord». Così il piano di convergenza è rinviato a un «futuro non prossimo», spiega Meir Sheetrit, ministro dei Trasporti. O come dice Assi Shariv, portavoce del premier: «Non è cancellato, ma non è più in calendario». A metà della guerra, il primo ministro era ancora convinto che lo scontro con l'organizzazione sciita avrebbe rafforzato il suo disegno. A metà dell'Operazione Cambio di direzione era ancora convinto che sarebbe finita con una vittoria indubbia di Israele. «L'ultimo chiodo nella bara del ritiro dalla Cisgiordania — dicono fonti di Kadima — è stato piantato dalle dimissioni di Haim Ramon». Il ministro della Giustizia, incriminato con l'accusa di molestie sessuali, aveva lavorato al progetto, fino a diventare uno degli alleati più fedeli di Olmert, dopo il passaggio dai laburisti a Kadima. Congelando il piano di convergenza, il premier spera anche di proteggere l'unità nazionale, messa in dubbio dalle critiche alla gestione della guerra. Il governo resta in allerta per un cessate il fuoco che sembra fragile: ieri notte, secondo fonti libanesi, aerei e droni israeliani avrebbero sorvolato Baalbek, roccaforte dell'Hezbollah.

Di seguito , due opinioni sul ritiro, quella dell'ex capo di stato maggiore isrealiano moshe Yaalon e quella del leader del Meretz Yossi Beilin, che come al solito ignora l'assenza di un interlocutore palestinese di Israele:

L'ex capo di Stato Maggiore Moshe Yaalon si era opposto al ritiro dalla Striscia di Gaza ed è convinto che «gli israeliani non debbano ingannare se stessi». «Viviamo nel Medio Oriente. Non possiamo rinchiuderci dietro a muri e barriere di sicurezza. È per questo che non possono funzionare i piani unilaterali.
Anche quando non c'è dialogo con i nostri vicini, c'è interazione: ogni passo che noi facciamo comporta delle implicazioni per loro. E chiunque mostri debolezza in Medio Oriente è come un animale ferito nella savana: viene attaccato. Se continuassimo la strategia dei ritiri anche in Cisgiordania, daremmo una spinta al terrorismo e al fondamentalismo islamico in tutta la regione. Creeremmo una minaccia strategica contro Gerusalemme, l'aeroporto Ben-Gurion e le città della piana costiera. I Qassam non sarebbero più un problema di Sderot, ma arriverebbero sulla porta di Tel Aviv».

Yossi Beilin, leader di Meretz, che condusse i negoziati per gli accordi di Oslo, è convinto che il prossimo ritiro debba venire solo dopo una trattativa. «Avevo previsto che l'evacuazione di Gaza avrebbe regalato il potere ad Hamas e se non fosse stata seguita da negoziati, avrebbe rilanciato la violenza e avrebbe rafforzato gli estremisti che non vogliono la pace. Ha dimostrato ai fondamentalisti che è possibile raggiungere con il sangue quello che non è possibile ottenere con il dialogo. E nel piano di convergenza che Ehud Olmert ha proposto durante la campagna elettorale non c'è alcuna logica. Sappiamo che non otterremmo il riconoscimento della comunità internazionale per le linee di confine che vorremmo disegnare in Cisgiordania. Il piano di convergenza è peggiore del ritiro da Gaza perché l'obiettivo è mantenere il 10 per cento degli insediamenti: significa lasciare 70 mila israeliani dall'altra parte della Linea Verde».

Infine, riportiamo un articolo di Davide Frattini sulle proteste dei riservisti israeliani per la conduzione della guerra:

GERUSALEMME — Il cecchino della Squadra 3 ha lo sguardo angosciato. Nascosto in una casa sulle colline che controllano Tiro, sa che a giorni gli potrebbe arrivare la lettera di licenziamento. E' stato via dal nuovo lavoro per un mese, lui come gli altri riservisti chiamati a combattere da una telefonata che ha un nome in codice (Tzav 8) e un solo significato: mobilitazione d'emergenza.
Il medico, il caposquadra e il ragazzo che si occupa del lanciagranate sono preoccupati per gli esami che hanno perso nel finale del semestre. Gli altri pensano alle mogli rimaste sole, e insonni, con i bambini. «I single si preparano a volare via da questo Paese», commenta sarcastico il sergente Ori Berzak. Che sulla prima pagina di
Haaretz scrive di una nuova guerra, non quella asimmetrica combattuta nel sud del Libano e dibattuta dagli strateghi, una guerra di classe che spezza l'unità delle forze armate e divide l'«esercito della gente» tra vincitori e perdenti. «Sulla mappa, i movimenti della nostra compagnia sono evidenziati da una freccia verde. Sulle mappe dei generali, è solo un'altra promessa di incrementare il bilancio della Difesa, gli stipendi per i militari di carriera e accrescere il valore delle stock option della loro personale, folle industria, che si chiama "prossimo conflitto". I soldati, gli sconfitti, possono solo perdere tutto quello che dà forza: cameratismo, etica e responsabilità per la sicurezza della nazione».
L'amarezza del sergente Berzak racconta la disillusione di migliaia di altri veterani, «gli anziani» ai quali lo Stato Maggiore «non può raccontare favole», come spiega su Yedioth Ahronoth l'analista militare Alex Fishman. «Sono arrivati di corsa, dopo la chiamata, con il senso della missione, dell'emergenza. Se gli ordini sono confusi, la strategia indecisa, i miluimnik
penseranno che la prossima volta non ci sarà bisogno di loro».
Ed è quello che un gruppo di riservisti della Brigata Alexandroni ha urlato al colonnello Shlomi Cohen, a un raduno poche ore dopo essersi ritirati dal Libano. I militari hanno protestato per essere stati mandati in prima linea alla luce del giorno, sotto i flash dei fotografi, per la mancanza di cibo e acqua, per l'equipaggiamento rabberciato. «Ho lasciato la mia casa, mia moglie e i mie figli — ha gridato Yair Levy all'ufficiale — e adesso mi dici che a me manca la motivazione, che sono arrogante perché ho chiesto da mangiare e un binocolo a infrarossi. Se queste sono le risposte, non verremo più».
E' quello che i compagni di Ehud Goldwasser ed Eldad Regev, i riservisti rapiti il 12 luglio al confine con il Libano, hanno scritto al premier Ehud Olmert in una petizione, la seconda che sta girando tra i veterani. «Si è aperta una crisi di fiducia tra i combattenti e il governo. Siamo sconcertati dal fatto che i politici abbiano accettato la risoluzione dell'Onu senza che i nostri commilitoni siano stati rilasciati. Siamo partiti per fare il nostro dovere con la certezza che tutti gli israeliani condividessero lo stesso principio, quello che ogni soldato impara nel primo giorno di addestramento: gli amici non si lasciano mai indietro».
Un altro appello, firmato da riservisti delle unità di élites, attacca la decisione di lanciare un'offensiva, quando ormai era chiaro che si sarebbe arrivati a un cessate il fuoco: 60 ore di scontri che sono costate la vita a 33 militari. «Battaglie senza scopo, che dovevano solo dimostrare la determinazione delle forze armate. Le nostre critiche hanno l'obiettivo di preparare l'esercito alla prossima guerra. Perché non succeda più che i soldati debbano confrontarsi con piani vaghi e ordini che cambiano da un minuto all'altro».



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