Sulla guerra contro Hezbollah Filippo Landi racconta il dibattito nella democrazia israeliana, Fulvio Scaglione esemplifica la non comprensione delle ragioni di un paese aggredito
Testata: Famiglia Cristiana Data: 18 agosto 2006 Pagina: 0 Autore: Filippo Landi - Fulvio Scaglione Titolo: «L’inutile strage»
Nel numero 34 on line di Famiglia Cristiana è pubblicato un articolo di Filippo Landi intitolato “L’inutile strage” Dall’articolo emerge chiaramente come la società israeliana sia democratica e pluralista, una società dove trovano spazio tutte le opinioni politiche anche quelle in disaccordo con l’operato del governo. Lo iato con la realtà palestinese è ancor più eclatante se si pensa al recente episodio di linciaggio del ragazzo, accusato senza processo e senza prove, di essere un “collaborazionista” e filmato in modo cinico dai palestinesi presenti!. Un episodio che purtroppo non ha ricevuto il giusto risalto dai media italiani, troppo impegnati a demonizzare Israele e il suo intervento in Libano, come risulta anche dal secondo articolo che riportiamo a firma Fulvio Scaglione: non sono le ragioni di Israele alla legittima difesa dei propri cittadini dagli attacchi dei guerriglieri Hezbollah ad essere evidenziate, ma la negatività della guerra, della quale peraltro gli stessi soldati israeliani farebbero volentieri a meno. Si può dire lo stesso dei seguaci di Nasrallah? Scrive Fulvio Scaglione:
Se poi qualcuno crede che la guerra sia più facile e costi meno, lasci la poltrona imbottita e faccia una passeggiata a Beirut o a Baghdad
Le stesse anime belle potrebbero fare la medesima passeggiata in Galilea, nelle città di Kiriat Shemona, al kibbutz Sasa come pure in tutte le cittadine al confine con il Libano e forse alla vista delle distruzioni perpetrate dalle milizia finanziate dall’Iran, alla vista dei bimbi terrorizzati e rinchiusi da settimane nei rifugi, dei soldati uccisi, …..forse non sarebbero così critiche sulle motivazioni che hanno indotto Israele a difendersi.
La domanda è retorica ma necessaria: cosa farebbe l’Italia se venisse attaccata, se i suoi soldati venissero uccisi ed altri fatti prigionieri? Di seguito, l'articolo di Filippo Landi:
C'è una via tortuosa che ha portato in Israele a riflettere sui limiti della forza militare. E a pensare che, forse, anche la diplomazia continua ad avere un suo ruolo. Una riflessione che ha toccato gente semplice, strateghi militari e politici.
È successo anche a Judit. Nella sua casa di Gerusalemme, il pomeriggio, non sente quasi mai alla radio quel famoso programma di telefonate degli ascoltatori. Ma quando il Governo aveva dato ai militari il via libera per invadere tutto il Libano meridionale, Judit si era detta: «Stavolta voglio proprio sentire cosa sostengono quelli che chiamano solo per dire che sono d’accordo con il Governo».
Nulla di cambiato, all’inizio del programma. «Bisogna distruggerli», asserisce il giovane riservista appena arrivato al fronte, «solo così la guerra finirà». Quante volte Judit ha sentito in questi giorni quelle parole. E lei stessa, che pure detesta le armi, non aveva forse pensato che era giusto rispondere a chi ci aveva attaccato? Quale colpa avevano quegli otto soldati uccisi dagli Hezbollah? Sul tavolo della cucina c’è la prima pagina di Ma’ariv, con la foto di due soldati: un ferito, che si appoggia a un compagno. Il titolo ricorda i 15 soldati uccisi.
Le voci alla radio sembrano sempre più note stonate. Nessuno che ricordi quei militari. «Bisognerebbe andare fino a Beirut e catturare i capi di Hezbollah», dice un giovane. Possibile, si chiede Judit, che nessuno abbia il coraggio di fare "quella" domanda? E allora telefona alla radio: «Ma che cosa otterremmo avanzando in Libano, occupando il Sud del Paese come abbiamo già fatto per 18 anni? Avete pensato a quanti morti ci potrà costare questo attacco?». Judit aveva messo in conto le risposte, una, due, tre telefonate solo per dirle: «E allora come fermare i razzi katiuscia che ammazzano la nostra gente?».
Eppure le domande di Judit sono le stesse di tutti gli israeliani. Anche di quelli che erano favorevoli ai bombardamenti e ai soldati israeliani fino nel cuore del Libano. Si dice che anche il premier Olmert le abbia poste al generale Halutz, comandante dell’esercito. Le risposte devono aver convinto, all’inizio, il primo ministro. Quelle tecniche, e forse anche quelle più politiche.
«Le basi di lancio dei katiuscia sono nascoste nel Sud del Libano, bisogna costringere gli Hezbollah ad abbandonare il terreno», ha asserito il generale. E ha aggiunto: «Questa guerra dobbiamo chiuderla in modo diverso». Voleva dire che l’immagine dell’esercito israeliano non deve uscire appannata dalla fine di una guerra che ha provocato distruzioni e morti, ma non ha impedito a Hezbollah di continuare a lanciare i razzi? Quindi le armi o la diplomazia dovevano dare a Israele, se non la vittoria per ko, almeno quella ai punti.
E così è stato dato l’annuncio dell’invasione del Libano del Sud, con la determinazione e la rabbia di costringere il Governo libanese e gli Hezbollah a un cessate il fuoco a condizioni gradite a Israele. Il numero crescente di morti tra i propri soldati faceva, però, intuire che anche agli israeliani la fine del conflitto per vie diplomatiche poteva essere accettabile. Qualche voce in verità aveva già consigliato militari e politici a riconoscere una nuova, amara verità.
Nahum Barnea, un noto giornalista, sulla prima pagina del giornale più diffuso in Israele, Yedioth Ahronoth, aveva scritto cose forse vere, ma sgradevoli.
Quella con gli Hezbollah è una guerra diversa; gli Hezbollah non sono un esercito tradizionale e possono infliggere agli israeliani pesanti perdite: questa la sua premessa, e poi l’invito, direttamente a Olmert, «che Israele con l’aiuto americano utilizzi le possibilità per uscire da questa guerra in modo onorevole». Insomma, prendiamo quanto ci viene offerto al tavolo della diplomazia e andiamo via dal Libano.
Le parole di Nahum Barnea, però, si sono dovute fare largo in un coro di voci diverse. Sul suo stesso giornale e su molti altri, giornalisti ed esperti militari hanno scritto, spiegato, cercato di convincere semplici lettori e perfino i vertici militari che la via era un’altra.
«Colpire gli Hezbollah senza imporre restrizioni ai propri soldati»; e così le case dei villaggi libanesi di confine dovevano essere distrutte, perché concreti o potenziali rifugi degli Hezbollah. È stato questo uno dei messaggi rilanciati, quando sul confine i soldati israeliani erano sotto tiro e in difficoltà. E ancora: «Il Governo permetta all’esercito di muoversi subito per espandere le operazioni militari nel Sud del Libano».
Questo era un altro messaggio, tutto in chiave militare, e veniva dopo giorni di bombardamenti aerei sul Libano e di razzi katiuscia, che nonostante tutto continuavano a essere lanciati contro il Nord di Israele. E poi il messaggio più inquietante: «Se gli Hezbollah sono tanto difficili da colpire, allora che si colpisca la Siria, loro protettore. Questo è un Paese e ha un vero esercito che può essere ben più facilmente colpito».
Nessuna remora, dunque, a estendere ancor più la guerra. A rileggere questi messaggi, lanciati dai cosiddetti "esperti", è facile trovare la frustrazione verso un conflitto in cui il nemico è sfuggente. E, nel contempo, trovare la pericolosa convinzione che comunque, pur a un prezzo sempre più alto, una soluzione militare si può trovare. Non deve far sorridere, ma a Gerusalemme una vecchietta in un negozio ha detto: «Ma se abbiamo tante difficoltà a sconfiggere gli Hezbollah, perché non usiamo la bomba atomica, dato che la possediamo?». I sorrisi del proprietario e delle persone in fila alla cassa hanno considerato soprattutto l’età molto avanzata della vecchietta. Insomma, troppo vecchia e un po’ rimbambita per poter, lei, parlare di bomba atomica.
Eppure, militari, politici e gente comune, in tanti in Israele continuano a pensare che solo la forza militare sia la forza della pace, il deterrente contro i nemici. Per questo, pochi si sono chiesti se c’era una proporzione tra la forza distruttiva usata dall’esercito di Israele contro il Libano e gli attacchi subiti da soldati e civili israeliani.
Chi si è posto la domanda, spesso ha risposto che era giusto andare avanti così. Con qualche eccezione. Sette anni fa Aaron Barnea aveva un figlio, Noam, militare nel Libano del Sud. Il 12 aprile 1999 Noam fu ucciso da una bomba attivata dagli Hezbollah. In una lettera al presidente libanese, Aaron rivelò che il figlio aveva indosso un bottone, datogli dalla madre; c’era scritto: «Lasciamo il Libano pacificamente».
Adesso Barnea ha scritto al primo ministro israeliano e a quello libanese per dire: «Come cittadino israeliano, io capisco la reazione militare del mio Governo a un atto di aggressione, ma non approvo la dimensione di questa reazione. (…) Fermare il fuoco certamente richiede molto più coraggio, da parte dei leader, che continuarlo». Poi, la conclusione: «Questo, per voi, è il momento di parlare».
E quello di Fulvio Scaglione:
Molti giornali cercano di farci credere che la guerra tra Israele e Libano sia come un derby Inter-Milan, dove ciò che davvero conta è stabilire per chi si fa il tifo, a prescindere dal risultato. Ma fateci caso: quelli che esaltano questa guerra (e trattano da complice dei terroristi chi, Benedetto XVI tra gli altri, chiede almeno una tregua) sono gli stessi che volevano convincerci che la guerra in Irak era una buona idea, un’impresa che (lo diceva allora George Bush e lo ripete ora il premier israeliano Ehud Olmert) avrebbe cambiato il volto del Medio Oriente. Lo ha cambiato, infatti: ci sono più guerra, terrorismo e instabilità di prima. In Irak, nel solo mese di luglio, sono state uccise 1.800 persone e i generali statunitensi dicono, con delicato eufemismo, che "il Paese è sull’orlo della guerra civile".
Il Libano non è l’Irak e neppure gli somiglia. Ma una cosa evidente fin d’ora è che anche questa guerra produrrà risultati simili a quella del 2003: più instabilità (il Libano semidistrutto sarà preda più facile delle lotte tra fazioni e della penetrazione di Siria e Iran), più morte, più terrorismo. L’errore di fondo, al di là delle ragioni particolari (che Hezbollah abbia provocato la crisi è indubbio, ma il Governo di Israele la gestisce assai male), è credere che la guerra possa portare a una soluzione.
I Paesi arabi un tempo, la dirigenza palestinese sempre, gli Usa e Israele di tanto in tanto, la Siria e l’Iran sono incapaci di rinunciare a un dogma che produce solo disastri. Dopo decine di guerre si è arrivati a un solo risultato: scambiare i palestinesi con gli ebrei, esuli questi fino al 1948, esuli quelli oggi.
Null’altro è cambiato, la violenza continua. La pace e l’economia sono rivoluzionarie e definitive, la guerra è reazionaria e provvisoria. Se poi qualcuno crede che la guerra sia più facile e costi meno, lasci la poltrona imbottita e faccia una passeggiata a Beirut o a Baghdad.
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