Un editoriale di Gainni Riotta, sulla prima pagina del CORRIERE della SERA ipotizza che la "scommessa" di D'Alema volta a ottenere la pace attraverso il dialogo con Hezbollah.
Riotta, come D'Alema, dimentica che los copo di Hezbollah è la distruzione di Israele. Quale negoziato è possibile su questo programma ?
Ecco il testo:
La guerra d’estate è finita, ma la pace d’autunno richiederà drammatiche fatiche per durare almeno fino all’inverno. Hezbollah, il Partito di Dio dello sceicco Nasrallah, ritiene di aver vinto la battaglia, piegando l’orgoglioso esercito di Israele. Le sue bandiere gialle garriscono sul fiume Litani, che l’esercito libanese di Fouad Siniora attraversa su vetusti blindati. Le sue armi sono custodite in depositi sicuri, i suoi ministri hanno votato per il dispiegamento delle truppe, ma a patto che gli arsenali non vengano toccati.
Siniora vede con ansia il Partito di Dio atteggiarsi a patrono della ricostruzione, con l’offerta a chi ha perduto la casa sotto le bombe israeliane, di un anno di affitto e coupons per i mobili, sponsor l’Iran. Walid Jumblatt, leader druso, teme che l’Onu arrivi tardi. I cristiani maroniti sperano che Hezbollah deponga le armi, non solo al confine, ma in tutto il Libano.
Ma chi, quando e come disarmerà Hezbollah? La risoluzione 1701 è più morbida di un piatto di hummus sul tema. Non prescrive che il Partito di Dio debba trasformarsi in formazione civile. Ma poiché 1701 si fonda sulla risoluzione 1559 e sugli accordi di pace di Taif 1989, si può sostenere con legittimità che il mandato di neutralizzare i missili di Nasrallah, resta la missione cruciale dei Caschi Blu.
La confusione rende i vertici militari cauti. I nostri generali, in servizio e in pensione, con nome e cognome o con discrezione, confermano che schierarsi tra Israele ed Hezbollah senza regole chiare, conduce a disastro o impotenza. I 15.000 Caschi Blu, osserva il veterano diplomatico americano Dennis Ross, dovrebbero in poche settimane bloccare il traffico di armi da Teheran e Damasco, ma come se non hanno potere di ispezione e non sono mobilitati lungo il confine con la Siria? Potranno intervenire nei campi militari Hezbollah? O prevenire la ricostruzione della ragnatela di bunker? Non ci vuole l’esperienza di Ross per capire che la forza di pace non riuscirà, da sola, a risolvere il problema. 1701 e cessate il fuoco di agosto sono un punto di partenza, non «la pace». Ma, in Medio Oriente, in Europa e in America, troppi non resistono al gioco di cantar vittoria.
Ora, mentre Nasrallah medita come investire il successo tattico, Siniora come spingerlo nell’angolo tra gli elogi, Israele mette sotto inchiesta il primo capo di stato maggiore ufficiale dell’Aeronautica, Dan Halutz, persuaso che bastassero i blitz dei bombardieri per vincere. L’Iran ritiene di aver guadagnato tempo per il suo disegno nucleare e la Siria sa che senza Damasco non ci sarà pace. Come nel 1993 e nel 1996, quando apparirà conveniente, i razzi di Hezbollah, katiusha se i più micidiali Fajr e Zilzal saranno indisponibili, rimetteranno Israele sul piede di guerra.
La Francia, che aveva offerto con il presidente Chirac di assumere il comando dei Caschi Blu, per ora, si limita a raddoppiare, da 200 a 400, i «vigili urbani» della missione Unifil. Bene, ma non basteranno quei flic in armi a impedire un nuovo conflitto. Che fare allora? Hanno ragione il premier Prodi e ilministro Parisi a chiedere all’Onu più chiarezza di quanto la fumosa 1701 garantisce. Ma Kofi Annan non ha fretta, appuntamento alla prossima settimana. E Rutelli e Berlusconi fanno bene a ricordare che, con Hezbollah in armi, nulla cambierà.
Quanto a D’Alema la sua visione di Hezbollah inquadrato nell’esercito regolare libanese è scommessa che, come negoziare con Hamas a Gaza e discutere con la Siria, potrebbe rivelarsi alla fine inevitabile, pur dopo un lungo percorso, non scevro di pericoli. Hezbollah è ritenuta, in Europa e in America, un gruppo terrorista e la metamorfosi non sarà facile. In Israele il dilemma strategico di discutere con il nemico si chiama «a cena con il diavolo». Ha funzionato in Irlanda e, secondo D’Alema, potrebbe funzionare in Libano. Nessuna strada va tralasciata, ricorda il New York Times a proposito di Siria, a patto di chiarire a Nasrallah che l’alternativa alla carota del negoziato è la forza di un contingente Onu non imbelle come quello di Srebrenica.
Le forze democratiche della primavera libanese sanno che, finché la Legione Straniera sciita resta in armi, Beirut sarà feudo di Siria e Iran. La guerra d’estate è finita, l’artiglieria tacerà per poco tempo, ma solo attraverso un disegno politico di negoziati sarà possibile guadagnare qualche posizione, verso una pace stabile, per ora miraggio di una stagione a venire.
Altre illusioni, non più libanesi, ma palestinesi, nell'editoriale di Antonio Ferrari dedicato ai negoziati per la creazione di un governo di unità nazionale tra Hamas e Al Fatah.
Ferrari non spiega per quale motivo un governo di unità nazionale dovrebbe veder prevalere le più moderate posizioni di Abu Mazen e non quelle oltranziste di Hamas che non ha mai accettato l'esistenza di Israele e che ben difficilmente potrà farlo in futuro, dato che la sua opposizione ha una base religiosa.
Nell'articolo c'è anche un passaggio del tutto ingannevole: quello nel quale Ferrari sostiene che Hamas intende ripristinare la tregua interrotta dopo le "rappresaglie" seguite al rapimento di Gilad Shalit.
In realtà Hamas lanciava razzi katyusha contro Israele ben prima del rapimento di Shalit ed è reponsabile anche di quest'ultimo atto terroristico.
La tregua, dunque, era rotta ben prima della risposta israeliana.
Ecco il testo:
Nella terra dei miracoli, anche una guerra che ha infiammato Israele e il Libano e che ha oscurato per oltre un mese le quotidiane sofferenze del popolo palestinese, può produrre qualcosa che ha la parvenza di un evento positivo fuori dall'ordinario. Come la decisione congiunta del presidente dell'Anp Abu Mazen e del suo primo ministro, il leader di Hamas Ismail Haniye, di negoziare, da subito, la creazione di un governo di unità nazionale.
Un governo che metta insieme i laici del Fatah e gli integralisti del movimento che ha vinto le elezioni, e possa aprire uno spiraglio alla speranza di far ricomparire all'orizzonte il tavolo della trattativa con il premier israeliano Ehud Olmert. Un passo importante cui è seguita, nelle ultime ore, la decisione di riattivare la tregua, sospesa dopo le rappresaglie che hanno accompagnato la cattura del caporale israeliano Gilad, tuttora nelle mani degli estremisti.
Tutti, in questa estate di violenza, di passione, di errori, di devastazioni e di morte hanno perduto qualcosa. Ha perso anche Hezbollah, che pur cantando vittoria e avendo conseguito un indubbio successo d'immagine in tutto il mondo musulmano, è costretto a cedere il controllo di quel Sud libanese che aveva trasformato in un intollerabile Stato nello Stato. Israele è frastornato e diviso dalle polemiche sull'assai dubbia utilità della guerra intrapresa; Abu Mazen, ridotto alla caricatura di se stesso, aveva persino minacciato di andarsene e di sciogliere l'Anp; anche l'ala dialogante di Hamas, pur simpatizzando con i guerriglieri sciiti libanesi, si sta ora rendendo conto d'essere terribilmente fragile. Continuare a praticare violenze e attentati contro Israele (che si rifiuta di riconoscere) sarebbe disastroso, non soltanto per le inevitabili rappresaglie militari, ma perché la gente è allo stremo. L'embargo internazionale non si allenta, e i rapporti delle organizzazioni umanitarie descrivono un popolo prostrato e affamato.
Israele diceva e dice che l'unico partner possibile è Abu Mazen, tuttavia il presidente, almeno fino a tre giorni fa, sembrava apatico, rinunciatario, sordo a qualsiasi sollecitazione. Incapace di mantenere le redini del comando e umiliato dalla continua erosione dei suoi poteri che gli integralisti gli sottraevano, giorno dopo giorno. Frustrato da una contraddizione aggiuntiva: la consapevolezza che la maggioranza dei palestinesi voglia comunque un equo accordo con Israele. Per questa ragione, meno di due mesi fa, aveva alzato la testa, promuovendo coraggiosamente un referendum, da tenersi lo scorso 26 luglio. Quesito complicato nella forma ma semplice e lapidario nella sostanza: o me o Hamas. Era stato questo colpo di reni a produrre il primo risultato.
Dividere gli avversari politici e provocare una frattura tra i possibilisti (a cominciare da Haniye) e gli intransigenti, guidati dall'esule Khaled Meshal. Ma la riaffiorata speranza è durata poco. Il tempo necessario agli estremisti per sabotarla. Sono riprese le violenze culminate con la cattura del caporale a Gaza, le dure rappresaglie israeliane, l'attacco di Hezbollah dal sud del Libano, la guerra, la distruzione. I mass media, dopo aver abbandonato l'Iraq, si sono disinteressati anche della Palestina per concentrarsi sul nuovo evento drammatico.
In un mondo dominato dall'immagine, anche i conflitti non si sottraggono a una regola micidiale: «guerra mangia guerra». Ora che in Libano le armi tacciono, e che dal ministro della Difesa israeliano Amir Peretz (in caduta libera nei sondaggi) giungono segnali concilianti, il redivivo Abu Mazen, dimostrando di non aver esaurito le sue doti di consumato politico, riconquista la curiosità del mondo dell'informazione, con l'annuncio della trattativa per la formazione di un governo di coalizione tra Hamas e Fatah. Ciò che a gennaio avrebbe digerito con riluttanza, che ad aprile aveva respinto quasi con sdegno, che a giugno pareva l'obiettivo di un disperato ricatto, oggi sembra una vittoria. Haniye più disponibile. Abu Mazen sorridente. Israele meno intransigente. Ma durerà?
Si lavora per un esecutivo che metta insieme i laici e gli integralisti Ora che al confine le armi tacciono, Gaza ritorna centrale
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