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La Repubblica Rassegna Stampa
18.08.2006 Israele si interroga sugli esiti della guerra
un reportage di Bernard Guetta

Testata: La Repubblica
Data: 18 agosto 2006
Pagina: 1
Autore: Bernard Guetta
Titolo: «Nelle strade di Gerusalemme "Abbiamo perso?"»
Da La REPUBBLICA del 18 agosto 2006:

Non che si sia arrabbiato, ma ha fatto presto a scaldarsi quando gli ho parlato senza preamboli di una «sconfitta di Israele» e di una «vittoria dell´Iran», destinate a radicalizzare la regione, mettendo in difficoltà l´Occidente e aprendo una nuova era in cui la perennità del suo paese sarebbe divenuta più che mai aleatoria.
Il professor Kleinberg mi ha dunque spiegato che mi sbagliavo di grosso, e che le cose non stavano affatto così. Mancavano tre giorni al cessate il fuoco. Intorno a noi gli avventori della "Brasserie", intellettuali di Tel Aviv, cenavano con specialità francesi in un´atmosfera viennese. Tutto respirava l´Europa, un´Europa americanizzata inventata a Berlino.
Nulla in quell´ambiente rifletteva un pericolo esistenziale – né la chiacchiera dei giovanotti intraprendenti, occhiali scuri e teste rasate, né l´arte delle israeliane di agghindarsi come duchesse in mini-short e micro-magliette.
Tutto questo aveva un´aria di grande solidità, come tutto del resto in Israele - la gente, le strade, i grattacieli, la determinazione di essere, la pietra delle colonie che inesorabilmente estendono la Gerusalemme israeliana. «Eppure - ho incominciato - il mito….
«Lo so» ha detto concludendo la mia frase. «Il mito dell´invincibilità israeliana si è spezzato». Aveva assunto un tono di voce volutamente lagnoso, staccando le sillabe per meglio canzonare gli europei che hanno paura del loro dito mignolo e non sanno più cosa sia la guerra. Ero punto sul vivo. «Sì, quel mito è ormai caduto. E se fossi in voi me ne preoccuperei». «Ah, davvero?» Certamente! Gli sciiti, l´Iran e Hezbollah hanno dimostrato ai palestinesi e a tutta la gioventù araba che è possibile mettervi sotto scacco. Per voi tutto è cambiato.
«Non è cambiato nulla», mi ha risposto. «Nessuna battaglia è decisiva. Siamo in guerra da sessant´anni. È un po´ come la lotta contro la criminalità: una lotta permanente, sempre da ricominciare, con i suoi successi e i suoi arretramenti... - Allora è un arretramento? - Avevamo fatto di meglio, ma crede davvero che i sunniti saltino di gioia davanti a questo risveglio degli sciiti? - I governi no, ma è pur vero che il capo di una milizia sciita libanese è diventato l´eroe delle popolazioni sunnite … - No. - «Sì».
«No!» - ribatte il mio interlocutore. «In quale paese sunnita si sono viste manifestazioni di massa, milioni o anche solo centinaia di migliaia di persone riunite per acclamare Nasrallah?». Da nessuna parte, ma gli islamisti non potevano correre questo rischio. Dovunque poteva essere un bagno di sangue. «Ecco qua! Lo ha appena detto: i regimi arabi hanno ancora in mano i loro paesi. Hanno eserciti forti, e la prospettiva di un Islam unificato dall´Iran contro Israele non è per domani tanto più che noi abbiamo la bomba e loro lo sanno».
Ero perplesso. Mi chiedevo se lo storico che avevo davanti volesse rassicurare se stesso rifiutandosi di ammettere la debolezza di Israele, o se credesse davvero a quanto stava dicendo. Dopo una serie di colloqui avrei compreso meglio. Inutile intanto girare intorno alla questione. Passando a parlare di politica interna, il professor Kleinberg ha affermato categoricamente: «Questo governo cadrà entro sei mesi. Nessun governo può sopravvivere a una sconfitta militare».
A una «sconfitta»? Ha usato questo termine senza neppure rendersene conto, trascinato dalla rabbia di tutti gli israeliani contro la squadra che guida il paese. Gli intellettuali di sinistra le rimproverano la brutalità dei bombardamenti contro il Libano. La destra batte con insistenza sulla debolezza che Israele avrebbe dimostrato con il ritiro dal Libano e poi dalla Striscia di Gaza. «L´avevamo detto!», martellano, e né la destra né la sinistra accettano il sacrificio di quei soldati i cui giovanissimi volti riempiono le pagine dei giornali, solo perché Hezbollah possa lanciare su Israele altri 250 obici alla vigilia del cessate il fuoco.
Non tutti parlano di «sconfitta», ma nessuno dice «vittoria», e tutto il paese s´interroga.
«Lo so io cosa non ha funzionato», dice un droghiere che sta seguendo una trasmissione da New York in lingua russa. «Sono troppi anni che l´esercito fa servizio di polizia nei territori. Ormai non è più preparato alle battaglie». Gli avventori non lasciano la bottega: la conversazione - in russo, francese, inglese - è ormai generale. «Ma no, ribatte uno. Noi siamo solo una pedina nella guerra dell´Islam contro l´Occidente. E voi in Europa non volete rendervene conto. Negoziate con l´Iran, ma quando avranno la bomba ne vedrete delle belle!»
Un altro: «Bisognava restituire il Golan alla Siria in cambio dell´impegno a non permettere più il transito delle armi iraniane per Hezbollah. Stiamo pagando un grave errore». Un altro ancora: «Sei impazzito?!! Se gli avessimo restituito il Golan le bombe oggi non cadrebbero sul Nord, ma su Tel Aviv!» Un quarto: «Pazzo sarai tu! Con i missili le frontiere non contano più. Possono lanciarli dall´Iran quando vogliono».
Grig Davidovitz è appena tornato dal Nord. Vice-redattore capo di Haaretz, è venuto dalla Romania dopo la caduta del muro. Circola solo in bicicletta e parla con franchezza a rettitudine, pesando ogni parola. Stiamo in uno di quegli immensi ristoranti tutti vetro, legno e musica, ricavati dalle fabbriche dismesse di Tel Aviv.
«Guardi com´è cambiato questo paese, dice indicando i tavoli intorno a noi. Avevamo incominciato con l´agricoltura e il socialismo. Tutti volevano servire nelle unità più esposte al rischio. Avevamo un´etica dello sforzo e del sacrificio, del bene comune. Oggi siamo un paese della globalizzazione, dell´alta tecnologia, della finanza e dell´individualismo».
Mi spiega in poche frasi che Ariel Sharon aveva compreso la profondità di questo cambiamento, l´aspirazione degli israeliani a non sentir più parlare dei palestinesi e del Medio Oriente, il loro desiderio di voltare le spalle alla regione per proiettarsi verso il mondo, al riparo di una «barriera di sicurezza». Per questo aveva deciso di abbandonare i territori occupati. Per questo, rompendo con il Likud, aveva fondato il partito centrista Kadima, e vinto le elezioni della primavera scorsa.
E allora? Ritiene oggi che quella politica di «disimpegno» fosse sbagliata? Che sia stato un errore ritirarsi da Gaza? «Assolutamente no, mi risponde. Nessun israeliano vorrebbe stare nei territori occupati, con il contrasto che si vive lì tra chi fruisce delle comodità moderne e chi sopravvive con un dollaro al giorno. Io quella situazione l´ho vista. È insopportabile, insostenibile».
Grig si perde nei suoi pensieri; e io rammento quanto mi aveva detto poco prima Nissim Zvili, ex ambasciatore israeliano a Parigi, già segretario generale del partito laburista. «Non solo, mi aveva detto, abbiamo sottovalutato Hezbollah, l´addestramento dei suoi uomini, il grado di sofisticazione dei suoi armamenti e dei suoi sistemi di disturbo; ma abbiamo anche scoperto che combattono come noi in passato, con l´audacia dei commando, contando non sulla burocrazia ma sull´iniziativa individuale».
Grig esce dal suo silenzio: «Se ci invadessero non sarebbe solo la fine di Israele. Sarebbe un massacro, un nuovo Olocausto. Pensi al modo in cui trattiamo i palestinesi. Noi, una democrazia, con una stampa che protesta, i militanti dei diritti umani che si interpongono, una giustizia cui si può fare appello. C´è da immaginare cosa farebbe di noi una dittatura, cosa farebbero i fanatici senza nessuno dei limiti che noi ci imponiamo».
Dopo aver sciolto la grossa catena plastificata Grig inforca la sua bicicletta, mentre io chiamo un taxi per Gerusalemme. L´autista, attaccato alla sua radio, è un laburista che parla un ottimo inglese, una testa politica. «Ci siamo. Stanno votando a New York, mi annuncia. Altri due giorni ed è finita. - Contento? - Fino alla prossima volta. Ricominceranno. - A cosa vi è servito dichiarare questa guerra?»
Mi sembra di veder venire la mia ultima ora. Per l´indignazione l´autista ha staccato le mani dal volante e mi apostrofa: «Sono stati loro a dichiarare la guerra, non noi… - Il volante! Guardi la strada!» Riprende il controllo della sua Skoda con una mano sola. «Come fate a parlare così voialtri in Europa?! Sono penetrati in Israele, non nei Territori, in I-sra-e-le! Hanno ucciso otto soldati, ne hanno rapiti altri due … - D´accordo, non si arrabbi, ma vedendo i risultati, ci sarebbe stato un modo migliore per reagire … - Ma quale? Erano sei anni che bersagliavano il Nord. E per fortuna abbiamo deciso di rispondere! Con tutto quello che si è scoperto - i bunker, i missili … ancora un po´ e sarebbe stato troppo tardi. Forse che la Francia si lascerebbe bombardare senza far nulla? - Ma perché bombardare tutto il Libano e non soltanto gli hezbollah, nel Sud? - Come, non lo sa? - Me lo dica. - Ma perché bisognava tagliare gli approvvigionamenti di Hezbollah, e mostrare ai libanesi che non se la potevano cavare tanto a buon mercato lasciando le mani libere a quelle carogne. Siamo in guerra, e se ci fanno la pelle, non darei un soldo neanche per la sua».
Eravamo già a Gerusalemme, la città che più detesto al mondo - mistica, turismo di massa e un concentrato di odio, e in più le legioni di religiosi melliflui con tanto di barbe, zucchetti e sottane. Al confine col Libano, Kiryat Shmona è una città artificiale costruita per accogliere i primi immigrati dal Nordafrica: un luogo di miseria, privo di tutto. E regolarmente preso di mira dagli hezbollah («due o tre volte l´anno - è quello che chiamano calma», ironizza la moglie del rabbino). Ma stavolta c´è stato il diluvio, una pioggia di proiettili, con un terzo degli abitanti che non uscivano più dai rifugi e gli altri dispersi ai quattro angoli del paese, come questa famiglia.
Il rabbino di Kiryat Shmona è ottimista: «Sia il governo libanese che i cristiani, i sunniti, i drusi sognano solo di sbarazzarsi di Hezbollah. Faranno la pace di Israele e la nostra città diventerà un grande centro di passaggio verso Beirut, la Turchia, l´Europa… Si svilupperà magnificamente, e noi avremo infine di che vivere. - Signor rabbino, non crede piuttosto che i cristiani continueranno a emigrare dal Libano, che presto gli sciiti saranno maggioritari, che Hezbollah controllerà il paese e avrete l´Iran sotto le vostre finestre? - No, no. Adesso c´è la guerra, i libanesi non osano dir nulla, ma vogliono la pace» E´ una persona squisita, e più ancora sua moglie. Dove si colloca sullo scacchiere politico? «Siamo di destra», risponde lei. - Votate per il Likud? - No, per i partiti religiosi. Ora le spiego: questa terra ci appartiene …»
Avevamo appena parlato di Freud, di Storia, di teologia comparata. A un tratto, eccoci alla promessa biblica, all´assoluta negazione del fatto nazionale palestinese, e nei toni più affabili e miti, all´idea che non si debba cedere neppure di un palmo. «Tanto, un chilometro quadrato in più o in meno non cambia nulla, perché per i musulmani come per noi, il problema è di chi abbia diritto a questa terra». Ma che vorreste fare dei palestinesi?
«Fintanto che non fanno esplodere bombe, mi rispondono, possono vivere in Israele. Sono i benvenuti. Ma se preferiscono la Giordania o altri paesi arabi, la scelta sta a loro. Noi non li cacciamo. - Ma in qualche misura … - No, nient´affatto. - Non comprendete che vogliono uno Stato proprio, esattamente come voi? - Ma loro non sono un popolo! Sono rifugiati, gente che non è stata perseguitata per duemila anni, dalla quale abbiamo comprato il 70% di queste terre; se ne sono andati perché pensavano che gli eserciti arabi ci avrebbero cacciato».
Via di corsa! A Tel Aviv, coi suoi bar, la sua depravazione - una città dove «si fatica a trovare un ristorante kosher». Il miglior regista israeliano, Amos Gitai, un grande del cinema mondiale, sceglie un ristorante coi tavoli all´aperto, in un cortile ombreggiato. Il suo talento mi intimidisce. Trinchiamo. Poi mi annuncia che il figlio di David Grossmann, lo scrittore suo amico, uomo di dialogo e di pace, è stato appena ucciso sul fronte. «Anche mio figlio è là», mi dice con voce neutra.
Lui non è né da una parte né dall´altra. Solo un´immensa tristezza, e al tempo stesso la speranza che questo momento possa condurre a una ripresa del dialogo con i palestinesi. E anche la certezza - la ritrovo tra le mie note - che «senza il ritiro da Gaza e dal Sud del Libano non avremmo trovato tanto sostegno internazionale contro Hezbollah».
Piano! Attenzione! Rileggo, decriptandola nella sua concisione, questa frase scarabocchiata, che decisamente vale più di una citazione. E´ il caso di soffermarsi su queste parole che riassumono molte cose. Tra l´annessione del Golan siriano nel 1981, l´occupazione del Sud del Libano, quella dei Territori e la repressione della seconda Intifada, Israele si era alienato molte simpatie, ponendosi al di fuori della legge internazionale.
Col suo ritiro, nella primavera del 2000, dal sud del Libano, e soprattutto con l´avvio di una politica di disimpegno, Tel Aviv ha ritrovato il sostegno diplomatico dell´Europa, e in particolare della Francia; ha migliorato i suoi rapporti con le capitali arabe, ma al tempo stesso ha permesso che il Sud del Libano e Gaza si trasformassero in rampe di lancio contro il territorio israeliano.
In un caso, avrebbe perso in termini diplomatici, nell´altro in termini militari. In realtà, ha perduto sui due versanti. Vuol dire allora che può soltanto perdere?
Il buon senso, così come le cancellerie europee e tutta una parte della sinistra israeliana, rispondono di no: l´errore commesso tanto Gaza quanto nel Sud del Libano è stato quello di organizzare il ritiro in maniera unilaterale, senza un negoziato per iscrivere queste operazioni in una dinamica di pace e di sicurezza.
Certo. Anch´io, come tanti, ho insistito molto su questo. Ma c´è anche il fatto che i negoziati con i siriani e i palestinesi non sono mai stati facili, e ogni passo avanti è finito nel nulla nel corso degli anni, quando non è fallito prima ancora di esser stato concluso. Ci si chiederà: «Di chi la colpa?»
In larga misura degli israeliani, risponde l´Europa. Perché dopo Oslo hanno proseguito la loro politica di colonizzazione, per non scontentare la destra interna e riservarsi un margine nelle trattative future. Gli europei hanno ragione. I torti degli israeliani sono molti e gravi. Ma anche più numerosi sono stati i loro tentativi di pace, che si sono sempre scontrati con l´ambiguità di Arafat.
Nel momento della verità, nel dicembre 2000, quando Clinton mise sul tappeto un progetto di risoluzione equilibrato, accettato da Ehud Barak, Arafat non volle mai dire il suo «sì». Quella rimane la grande occasione perduta.
Israele non può dimenticare il Medio Oriente. Non solo: al di là del manicheismo che vorrebbe sempre designare i buoni e i cattivi in questo conflitto, quello che ora gli sta alle costole è un nuovo Medio Oriente, galvanizzato dai successi militari di Hezbollah, senza più un gendarme alle spalle, da quando gli Stati Uniti, contro ogni raziocinio, sono andati a impantanarsi in Iraq.
C´è in Medio Oriente una rivoluzione rampante. Che sta salendo. Il peso dell´islamismo e dell´Iran è oggi decuplicato. Il timore di nuovi attentati di vasta portata è più giustificato che mai. Un´ombra incombe sulla sicurezza degli approvvigionamenti petroliferi. Non è solo Israele a dover far fronte a questo nuovi ribollimenti, e alle ambizioni nucleari iraniane. Dovranno fronteggiarli anche l´Europa e l´America, ma come?
Gerusalemme. Il ministro israeliano degli Affari esteri. Qui questo sconvolgimento regionale non viene preso alla leggera. Ci si lavora sette giorni su sette. Ma la soluzione, quella buona, vera e indiscutibile, si fa attendere.
Cercare un modus vivendi con l´Iran, il primo avversario, ma anche un paese, persiano e non arabo, che aveva accettato l´appoggio di Israele contro l´Iraq ed era stato suo alleato ai tempi dello scià? Risposta: «Coglieremo ogni apertura da parte iraniana, ma non ci sembra prevedibile, se non a lungo termine, la loro uscita dalla spirale messianica; e questa è anche l´analisi degli americani».
Un accordo con la Siria? Ancora domenica scorsa era questa la prima opzione della diplomazia israeliana, e aveva anche i favori della stampa e della sinistra; ma nel frattempo il presidente siriano ha gettato una doccia fredda su queste speranze, con un discorso che non potrebbe essere più radicale.
Allora una ripresa dei colloqui con i palestinesi - «ineludibili» secondo Nissim Zvili, l´ex ambasciatore a Parigi, vicino a Shimon Peres, tanto auspicati da Amos Gitai, che tutto sembra imporre? Sì …. Ci si sta pensando, anche intensamente - ma come rivolgersi ai palestinesi proprio nel momento - mi si fa comprendere - in cui sanno Israele nella posizione di chi chiede, in una posizione di debolezza?
Qui più che altrove lo sconcerto israeliano è palpabile. I diplomatici di Tel Aviv hanno due sole certezze. Innanzitutto: «Tra settant´anni, nell´era del dopo - petrolio, il mondo arabo sarà senza denti, come la Spagna del dopo-impero». E poi: «Se affrontiamo un pericolo regionale più grande che mai, non abbiamo mai avuto tanti alleati». Dunque: tenere.
Tenere, e puntare sull´inquietudine dell´Europa, dell´India, dell´America, certo - e soprattutto delle capitali sunnite. E´ questo che aveva voluto farmi comprendere, alla Brasserie, il professor Kleinberg. Resta però un problema.
Basterà? Con la «tenuta», appoggiandosi a regimi arabi vacillanti, si riuscirà ad arginare una rivoluzione che ha appena riportato la sua prima vittoria?
(Trad. di Elisabetta Horvat)

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