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La Stampa Rassegna Stampa
18.08.2006 D'Alema "antisemita per scherzo"
rivelazioni in un'intervista a Gad Lerner

Testata: La Stampa
Data: 18 agosto 2006
Pagina: 0
Autore: Mattia Feltri
Titolo: «Lerner: Massimo, antisemita per scherzo»

Si stenta a credere alle dichiarazioni rilasciate da Gad Lerner a Mattia Feltri nell'intervista pubblicata il 18 agosto 2006 dalla STAMPA.
Non per le critiche, condivisibili ma tardive, alla politica di Massimo D'Alema, "Andreotti dilettante".
Piuttosto per una rivelazione sul fatto che in "numerosi colloqui" tra Lerner e il ministro degli Esteri italiano quest'ultimo, non ancora in carica, trovava appropriato "esordire dicendo quello che non andava negli ebrei, magari riferendosi alla sua esperienza personale: il padre della prima moglie era un rabbino".
Di recente, continua Lerner, sarebbe stato lo stesso D'Alema, ormai approdato al suo alto incarico, a ricordargli queste circostanze. 

Ecco il testo:



ROMA
Lerner, lei è un ebreo nato a Beirut ed è un giornalista di sinistra. Che pensa di D’Alema a braccetto col deputato di Hezbollah?
«Mi è dispiaciuto sul piano personale, e doppiamente. Perché conosco e stimo D’Alema da anni e perché ho considerato del tutto impropria l’opposizione dalla comunità ebraica all’ipotesi di D’Alema agli Esteri».
Pentito?
«Mi è sembrato di vedere in azione un Andreotti dilettante. D’Alema è stato impacchettato da Hezbollah anche a sua insaputa, ma se dico “Andreotti dilettante” intendo che Giulio, nella sua visione della politica, incontrava il diavolo, se necessario. Ma di notte, e passando dall’ingresso secondario».
Qualcuno ora dubita dell’equidistanza di D’Alema.
«Con lui ne ho discusso spesso, anche in incontri pubblici. E’ convinto che la nostra politica estera non possa avere collocazione che nel solco di Andreotti, che implica un rapporto privilegiato col mondo arabo. Ma dubito che la riproposizione dell’andreottismo, in una realtà mediterranea completamente mutata, sia efficace per restituire all’Italia un ruolo di mediazione. Che ci viene chiesto con forza anche dal governo israeliano. E che, messo in soffitta l’andreottismo, è un ruolo corrispondente ai nostri interessi».
Dilettantismo, ingenuità. Non c’è altro in D’Alema?
«Dietro c’è anche una sofferenza aperta e di lungo periodo tra D’Alema e Israele e tra D’Alema e il mondo ebraico. E qui manifesta i suoi danni».
Che cosa intende con «sofferenza»?
«E’ un terreno delicato. Dobbiamo misurare le parole. Possiamo dire che D’Alema è un antisemita per scherzo».
Che vuol dire?
«Ricordo numerosi colloqui fra me e lui. Aveva un’inclinazione a esordire dicendo quello che non andava negli ebrei, magari riferendosi alla sua esperienza personale: il padre della prima moglie era un rabbino. Non ne parlerei se non lo avesse ricordato di recente lui stesso».
E che cosa diceva?
«Mi spiegava che cosa non andava negli ebrei, con tono scherzoso, paradossale ma compiaciuto, con quel gusto nel mettere in difficoltà l’interlocutore. Aveva un accento di incomprensione e distanza, sprezzante, che non lo aiuta a cancellare la caricatura che si fa di lui nel suo rapporto con gli ebrei. Al punto da farmi pensare che quella caricatura non gli dispiaccia».
Certi sentimenti nella sinistra italiana non la mettono a disagio?
«No. Non riconosco a D’Alema la titolarità del pensiero della sinistra italiana sulla questione ebraica. Nel Pci c’era Umberto Terracini. Il fratello di Emilio Sereni è morto combattendo nella guerra d’indipendenza d’Israele. Non riconosco a D’Alema la titolarità che riconosco a Vittorio Foa, e so che ci sono eredi di questa sensibilità».
Ci sono però antisionisti dichiarati, a sinistra.
«Cito con insistenza l’andreottismo perché non è una questione di sinistra. Certo, esiste un antisemitismo di sinistra in tutto il mondo e quindi anche in Italia. Ci sono aperte ostilità, penso a Diliberto, che però accentua i suoi slogan urticanti in competizione con il Bertinotti che va al Congresso degli ebrei d’Italia. Piccolezze tattiche. C’è un antisemitismo diffuso, le bandiere bruciate, l’esaltazione dei kamikaze. Ma non è di D’Alema».
Furio Colombo, sull’Unità, ha denunciato l’antisemitismo della Rai.
«Non credo che il giornalismo italiano sia diverso da quello inglese, tedesco o francese. Riflette anche passivamente la sconfitta mediatica di Israele. Quando prevedi di distruggere per via aerea le postazioni missilistiche metti nel conto la morte dei civili. E’ inevitabile».
Ci sono direttori che non riescono a far capire che la capitale di Israele è Gerusalemme, e non Tel Aviv...
«Non drammatizziamo, è la solita storia. Grazie alla lottizzazione sappiamo chi c’è in Rai, ed escono gli stereotipi cattolici, di sinistra. C’è ignoranza e pregiudizio a negare l’ebraicità di Gerusalemme. Alcuni giornalisti non lo ammettono ma credono che nella cupola del giornalismo italiano ci sia una lobby ebraica dei direttori che reagisce processando i colleghi».
Quanto le dispiace che le cose non cambino mai?
«Cambiano, invece, e in peggio. Lo dimostra il fatto che mi intervistano sempre più spesso, in quanto ebreo, a parlare di antisemitismo».

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