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Il Foglio Rassegna Stampa
18.08.2006 "Arrendersi all'islamismo terrorista"
la dottrina D'Alema sintetizzata da Giuliano Ferrara

Testata: Il Foglio
Data: 18 agosto 2006
Pagina: 1
Autore: Giuliano Ferrara
Titolo: «Il bardo della resa»

Di seguito il commento siglato dall'Elefantino, pubblicato sulla prima pagina del FOGLIO del 18 agosto 2006, alle dichiarazioni rilasciate dal ministro degli Esteri italiano Massimo D'Alema all'Espresso.
Ecco il testo:

Pubblichiamo di seguito estratti dell’intervista- manifesto del ministro degli Esteri D’Alema all’Espresso, oggi in edicola. E’ un testo interessante, punteggiato di fughe in avanti e gesti verbali da capoclasse. Massimo D’Alema si sente strategicamente sicuro e una punta allegro, perché Israele ha perduto parte della sua deterrenza, non ha militarmente disarmato Hezbollah, ha accettato una internazionalizzazione della crisi alle sue frontiere sotto l’egida di una ambigua e pasticciata risoluzione dell’Onu, e il risultato è che il mondo deve aspettarsi dai caschi blu e dalla benevolenza e ragionevolezza di Mahmoud Ahmadinejad, che non può essere sfidato né sanzionato né isolato (sono metodi da cow boy), la rinuncia al nucleare militare iraniano. Il ministro è particolarmente asseverativo e paternalista, e impartisce lezioni: al governo di Gerusalemme, alla Casa Bianca e al Dipartimento di Stato, che però ha la bontà di mettere sotto la sua ala protettiva perché Condoleezza Rice comincia a capire le ragioni strategiche degli europei, che le sono state spiegate dal ministro in persona nella storica conferenza di Roma, madre e regina della pace come la questione palestinese è madre di tutte le guerre. Gli unilateralismi sono sempre e tutti censurabili, il muro accettabile è solo quello di Padova, non quello di Gaza, e Olmert saprà correggersi dopo un rapido stage alla Farnesina. Intanto il progetto italiano è chiaro: andare in Libano, anche se non si sa ancora con quali regole d’ingaggio e con quale effettivo scopo politico, per integrare Hezbollah nell’esercito libanese, cioè per cannibalizzare un’armata da operetta nelle fauci di una rete guerrigliera e terrorista che ha lo scopo, in quanto organizzazione politica islamista, di cancellare Israele dalla carta geografica e combattere gli infedeli. Il titolo dell’intervista c’è già, è “pace per il nostro tempo”, la famosa frase con cui Neville Chamberlain commentò l’accordo di Monaco. D’Alema dovrebbe essere più prudente, anche intellettualmente. Nella politica, in diplomazia, nella storia non si può mai escludere nulla. Nixon andò a Pechino in piena guerra vietnamita, e chissà che non si arrivi a un accordo di stabilizzazione con l’Iran, puntando come sempre su una convergenza di interessi ben calcolata, di cui la partita irachena e la questione sciita, a proposito della quale D’Alema è male informato, potrebbero far parte. Ma c’è una frase stupefacente, pronunciata con tono professorale da questo ministro degli Esteri in tirocinio che viaggia molto in medioriente e non sempre incontra le persone giuste al momento giusto. La frase sembra fatta apposta per impedire ogni alternativa alla guerra: “Di fronte a una guerriglia motivata dal fanatismo religioso nessun esercito può spuntarla. Il terrorismo che scaturisce dal fanatismo religioso non si sconfigge con le guerre, ma con la politica, la cultura, l’economia. Tempi lunghi, insomma”. Nessuno ha mai vinto una pace escludendo per principio l’opzione militare a proprio vantaggio. D’Alema dovrebbe aggrapparsi ai suoi ricordi universitari, quando era studente e non professore, e capirebbe che da frasi come queste non nasce la pace, ma la resa. Che è un’altra cosa.

Di seguito, un articolo sui motivi per i quali la Francia probabilmente parteciperà in modo ridotto alla missione Onu in Libano e sulle critiche dei vertici militari , anche italiani, a una missione mal definita e pericolosa:

Roma. Le indiscrezioni fornite al Monde da fonti vicine all’Eliseo hanno anticipato un rapido disimpegno di Parigi dalla forza dell’Onu attesa in Libano. Già mercoledì il ministro della Difesa, Michèle Alliot-Marie, stava per annunciare la partecipazione soltanto simbolica della Francia (dieci osservatori e appena 200 genieri) all’operazione. Poi il Palazzo di vetro avrebbe chiesto un rinvio della sua apparizione televisiva nel timore che anche gli altri paesi ritirassero l’offerta di contribuire all’invio di truppe.
In Francia le riserve espresse dai militari circa una missione che si annuncia confusa sembrano aver consigliato il governo a fare un mezzo passo indietro e a ipotizzare di schierare piuttosto una forza navale di pronto intervento, esterna al comando dell’Onu. Il ministro della Difesa l’aveva anticipato: la Francia vuole “regole d’ingaggio chiare” prima di muovere i militari. “Quando si manda una forza e la missione non è abbastanza precisa, le sue risorse non sono adatte o abbastanza ampie, può finire in catastrofe, incluso per i soldati che manderemo”. Il mandato lacunoso non convince Parigi. Ieri in serata il presidente, Jacques Chirac, ha annunciato il rafforzamento immediato della missione dell’Unifil con altri 200 militari, portando così a 400 il numero di soldati francesi coinvolti, ma per il resto attende regole chiare dal Consiglio di sicurezza. I rischi sul campo accentuano l’esigenza che il comando sia affidato a un organismo militare collaudato, non certo al burocratizzato dipartimento per il Peacekeeping del Palazzo di vetro, già responsabile delle inefficaci – e a volte disastrose – missioni in Africa e nei Balcani. Parigi preferirebbe una guida europea della missione, anche avvalendosi di supporti logistici e di comando della Nato previsti dagli accordi Berlin Plus.
Preoccupazioni simili sono state sollevate dagli ambienti militari anche in Italia, dove il governo sembra però soprattutto intento a non irritare Hezbollah sul disarmo. Il presidente del Consiglio, Romano Prodi, si augura che, sulla questione, si possa arrivare “a una soluzione politica” e dice che non saranno gli italiani a disarmare il Partito di Dio. Il dibattito sul mandato atteso per oggi nelle commissioni Esteri e Difesa congiunte non ha però all’ordine del giorno il disarmo dei miliziani. Chirac ha detto di voler assumere il controllo dell’operazione, ma l’impressione è che la Francia non intenda partecipare a una missione pericolosamente inutile; l’Italia vi entrerà soltanto se non vi saranno rischi di contrasto con le milizie sciite, la cui accettazione della risoluzione 1.701 è ritenuta da una nota di Palazzo Chigi “elemento fondamentale della decisione italiana di partecipare all’Unifil”.

Quale uso della forza e con chi
Ieri, però, il ministro della Difesa, Arturo Parisi, ha fatto eco alla collega francese: prima di inviare un contingente, il governo deve avere risposte: “Innanzitutto sul mandato della missione, il concetto operativo così come dedotto dalla risoluzione. Poi sulle regole d’ingaggio che sono connesse direttamente al mandato stesso. Infine sulla catena di comando”. E non è escluso “l’uso della forza”. “Il livello d’impiego della forza dipenderà dal mandato finale che il contingente riceve”, ha spiegato al Foglio Carlo Cabigiosu; il generale ritiene improbabile che sarà permesso alla forza d’intervenire contro le parti se le ostilità riprendessero, e “qualora il Consiglio di sicurezza formulasse un mandato più determinato non è detto che il nostro governo sia disposto a partecipare alla missione”. La Francia, invece, tramite il generale Alain Pellegrini, al comando dell’Unifil, ha chiesto che le truppe possano intervenire con “maniere forti” nell’area. Per l’ambasciatore Sergio Romano la Francia ha assunto un ruolo direttivo fin da subito nella crisi. “Il paese candidato a guidare la missione deve porsi il problema delle regole d’ingaggio anche per salvaguardare la propria credibilità: non si va a guidare una missione destinata a fallire. Parigi è quindi divisa tra la sua volontà di comando dell’operazione e tutti i rischi che comporta una missione senza regole precise”. Ma, dice Romano, anche tirarsi indietro adesso darebbe un colpo alla credibilità francese. Il Consiglio di sicurezza si è riunito ieri sera per discutere mandato e regole d’ingaggio. “Alliot-Marie ha messo ben avanti il problema – ha detto al Foglio il presidente delllo Iai, Stefano Silvestri – Mandare ora 200 uomini potrebbe essere giusto, in vista di un più largo dispiegamento”. Non è soltanto la Francia ad avere dubbi: “Nessuno è disposto ad assumersi un compito così – spiega al Foglio il generale Carlo Jean – il problema fondamentale sono mandato e regole d’ingaggio”. Perché “le missioni di pace servono solo quando la pace c’è, altrimenti falliscono”.

(17/08/2006)
 

Infine, l'analisi "Chi disarma chi"  spiega perché l'esercito libanese e l'Onu non potranno disarmare Hezbollah.
Ecco il testo:

Roma. Romano Prodi, nel corso di una lunga telefonata di ieri pomeriggio col premier libanese Fouad Siniora, ha avuto rassicurazioni su due punti apparentemente risolutivi: Hezbollah accetta la collaborazione con il contingente militare dell’Onu e accetta anche il dispositivo della risoluzione 1.701. La prima rassicurazione non stupisce: l’Onu, su istanza francese, ha ricondotto il contingente internazionale alla struttura dell’Unifil, che da sei anni assiste senza nulla dire e senza nulla fare alla ciclopica opera degli uomini di Nasrallah, che hanno costruito bunker, cunicoli fortificati, rampe di missili, depositi d’armi sotto gli occhi distratti dei Caschi blu. Naturalmente questa militarizzazione del sud del Libano violava decine di risoluzioni Onu dal 1948 in poi, come il protocollo di Cipro sul cessate il fuoco tra Israele e Libano del 1949, ma Unifil ha lasciato fare. Ottimo precedente per Hezbollah. La seconda rassicurazione fornita da Siniora a Prodi è invece un bluff. Nasrallah ha dichiarato esplicitamente e chiaramente che accetta – come sempre – soltanto la parte della risoluzione che gli fa comodo – il cessate il fuoco – e che non vuol neanche sentire parlare della seconda: il disarmo delle sue milizie. La rassicurazione di Siniora a Prodi non è dunque credibile. Di questa idea, peraltro, è probabilmente anche Arturo Parisi che ha ieri ribadito che il “compito di disarmare Hezbollah è soltanto dell’esercito libanese”, non delle truppe Onu. In realtà, dall’attività degli ultimi giorni del premier e del ministro della Difesa emerge una crescente preoccupazione circa l’impegno militare italiano e una presa di distanze netta dalle troppo precipitose assicurazioni di Massimo D’Alema. I generali hanno fatto presente al loro ministro un particolare di cui lui pare non rendersi conto: l’esercito libanese – che dovrebbe essere il fulcro dell’intervento – non esiste, né sotto il profilo militare né sotto quello politico. I 60 mila uomini che ne indossano la divisa non costituiscono un’armata nazionale, ma soltanto una finzione: non sono addestrati, non sono armati e non hanno alcuna coesione interna. Pensare che possano disarmare Hezbollah è irrealistico. In realtà le Forze armate libanesi sono definitivamente scomparse nel 1975, disintegrate dalla logica della guerra civile. Per quattordici anni sono state sostituite, anche formalmente dalle forze delle singole fazioni: le “Forze speciali” dei cristiani del clan Gemayel, l’“Esercito del Libano libero”, alleato con Israele, la milizia drusa e tante altre. Gli accordi di Taef del 1989 hanno messo fine alla guerra civile assegnando una specie di mandato neocoloniale alla Siria, tanto che il ruolo di esercito nazionale è stato riconosciuto da tutte le forze politiche libanesi all’esercito di Damasco presente in Libano con 30 mila uomini perfettamente armati, una divisione corazzata, forze aeree), i singoli eserciti si sono sciolti soltanto formalmente (trasformandosi in milizie di difesa dell’incolumità dei vari capoclan) e si è ricostruito un esercito libanese (a maggioranza sciita, che costituisce il 40 per cento dell’armata) solo di facciata. Un esercito che non deve essere tale, proprio quale garanzia dell’equilibrio interno faticosamente raggiunto. Perché prima tanto se ne occupava Damasco Non può esservi esercito nazionale se non vi è un patto costituzionale nazionale, ma appunto questo è il problema del Libano. Fallito nel 1975 il patto costituzionale siglato con l’indipendenza del 1943, nel 1989 c’è stata una cessione di nazionalità alla Siria e a Hezbollah, che rappresenta visivamente questa patologia: è un partito che è anche un esercito e che applica una politica estera (contro Israele) al di fuori del controllo dello stesso governo libanese. “In questa situazione – ha detto un generale a Parisi – ha poco senso anche ottenere, ammesso che Kofi Annan lo sappia fare, regole d’ingaggio precise; se dobbiamo aiutare un esercito che però non esiste, rischiamo di mandare in Libano 3.500 ostaggi”. Al ministero della Difesa non sono dunque in pochi a sospettare che proprio per questa ragione Ehud Olmert ha deciso la svolta e ha accettato che – per la prima volta nella storia – la sicurezza di Israele sia garantita da truppe Onu.

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