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Il Foglio Rassegna Stampa
17.08.2006 In attesa del secondo round
le analisi di Charles Krauthammer e Giannandrea Gaiani

Testata: Il Foglio
Data: 17 agosto 2006
Pagina: 1
Autore: Amy Rosenthal - Gianandrea Gaiani
Titolo: «Vincere le guerre»
Dal FOGLIO del 17 agosto 2006, un'intervista di Amy Rosenthal a Charles Krauthammer:

Gerusalemme. “Il problema è che la risoluzione dell’Onu lascia Hezbollah intatto”, così com’è, senza pressioni. Charles Krauthammer, noto columnist del Washington Post, non risparmia le critiche all’esito delle discussioni al Palazzo di vetro. “La nuova risoluzione 1.701 – dice al Foglio – afferma che il partito di Dio deve essere disarmato, ma la stessa cosa era prevista anche nella risoluzione 1.559. Ma non è chiaro chi debba operare lo smantellamento della milizia sciita. Visto che Israele non è riuscito a farlo, è difficile immaginare che ce la facciano l’esercito libanese o l’Unifil, il che significa che ci sarà presto un’altra guerra”. Secco e senza troppi fronzoli, Krauthammer dice che anzi la missione d’interposizione delle Nazioni Unite potrebbe essere persino dannosa, perché se Hezbollah dovesse provocare ancora nuove ostilità, “potrebbe essere molto difficile per Israele reagire senza uccidere anche soldati dell’Unifil o dell’esercito libanese. E’ facile che anzi questi diventino scudi di Hezbollah, come già lo sono stati i civili nella guerra appena finita”. La comunità internazionale deve ancora decidere le regole d’ingaggio della forza dell’Onu e già Hezbollah sta tornando, gridando vittoria, verso sud, come testimoniano più fonti. Ma secondo Krauthammer la situazione resterà “relativamente calma” nelle prossime settimane, le milizie “ci metteranno un anno o due a riarmarsi e, quando anche l’Iran sarà d’accordo, cominceranno un’altra guerra”. A prima vista, i tempi sembrano molto più brevi, soprattutto quando risuonano le urla da Teheran che dichiara di aver battuto Israele. E Krauthammer è d’accordo, “l’Iran è il grande vittorioso di questa guerra, perché ha mandato avanti il suo protetto Hezbollah, ma non ha subito alcuna perdita. In questo universo orwelliano, Damasco e Teheran sono i grandi vincitori”. Per questo, secondo il commentatore americano, sono grandi le responsabilità del governo di Gerusalemme, dal premier Ehud Olmert, “un piccolo uomo in un grande compito”, ai suoi ministri. Il ministro della Difesa israeliano, Amir Peretz, è secondo Charles Krauthammer “un dilettante”, anzi, un “putz”, qualcosa che assomiglia a “idiota”, e Tzipi Livni, ministro degli Esteri, è “del tutto inefficace”: timidezza, indecisione e incompetenza hanno portato il governo di Israele a una pessima “war performance”. Come già molti altri commentatori sui quotidiani di Gerusalemme, anche Krauthammer è convinto che questo esecutivo non possa sopravvivere alla crisi, “penso che gli israeliani presto lo licenzieranno – dice – anche se, per quel che riguarda questo round, ormai è tardi”. Così come è tardi anche per gli Stati Uniti: “Israele ha avuto l’opportunità di dimostrare l’utilità di un’alleanza con l’America e l’ha sprecata. Come americani, avremmo potuto colpire l’Iran attraverso il nostro ‘delegato’ Israele, ma non è andata così”. E’ un problema di deterrenza, anche. La reazione di Israele al rapimento dei suoi soldati avrebbe dovuto convincere Hezbollah a non farlo mai più, ma questo risultato non è stato raggiunto, ripete Krauthammer, con un tono deluso e arrabbiato. “Ma ci sarà un altro round – spiega – e allora Gerusalemme riuscirà a dare un colpo a Hezbollah e probabilmente anche alla Siria, che in questa occasione è stata stupidamente lasciata stare. Bashar el Assad avrebbe dovuto tremare invece che sentirsi a suo agio. E adesso vedremo il regime siriano rafforzato, e in grado di rifornire Hezbollah”. Le ripercussioni all’interno di Israele di questi 34 giorni di combattimenti, con la guerra delle immagini persa fin dal primo giorno, saranno forti. L’avanzamento del piano di ritiro è “molto improbabile”, perché i disimpegni non sono stati accompagnati da una politica di deterrenza efficace: i Qassam sono atterrati in territorio israeliano senza tregua già dal giorno successivo al ritiro dalla Striscia di Gaza. Per questo anche la soluzione del conflitto con i palestinesi è, secondo Krauthammer, sospesa: “Israele deve affrontare la guerra contro il fondamentalismo islamico come ha fatto anche l’America, e finché la guerra non sarà finita non ci saranno due stati vicini in pace”. La variabile religiosa ha invaso il conflitto e complicato la situazione: “In via di principio, ci possono essere compromessi sulla componente nazionale, due stati in una terra, ma non ci possono essere compromessi con una componente religiosa che non riconosce nulla al di fuori dell’islam”. Prima bisogna distruggere il fondamentalismo. Ci possono volere anni, “generazioni”, ma soltanto quando il fondamentalismo che si propaga con forza da Teheran contagiando Hezbollah e Hamas sarà battuto, si potrà parlare di uno stato palestinese.

Di seguito, l'analisi di Giannandrea Gaiani:

Roma. L’occidente è ancora in grado di combattere guerre “vere”? Guerre nelle quali il conseguimento degli obiettivi ha la priorità sulle altre considerazioni, anche di carattere morale e umanitario, e nelle quali la forza impiegata non è “proporzionale” alle capacità di offesa del nemico, ma è concentrata per ottenere una superiorità tesa a conseguire nel più breve tempo possibile la vittoria? Il fallimento della campagna israeliana nel Libano meridionale conferma il paradosso di un occidente che dispone di una potenza militare senza precedenti, ma è incapace di vincere guerre contro avversari più deboli. Le guerre aeree condotte dalla Nato in Bosnia e in Kosovo ci avevano illuso che la vittoria potesse essere conseguita solo dall’aria con raid di precisione su centri di comando e controllo, infrastrutture e difese antiaeree, sufficienti a indurre il nemico a ritirarsi, arrendersi, firmare la pace. Illusioni nate da vittorie in realtà parziali, considerato che per evitare che i conflitti etnici tornino a esplodere la Nato e l’Unione europea mantengono truppe in Bosnia da undici anni e in Kosovo da sette. Illusioni tramontate nelle campagne post 11 settembre, caratterizzate da brevi fasi simmetriche, seguite da lunghe fasi asimmetriche che richiederebbero strumenti militari simili a quelli dell’epoca coloniale, protesi al presidio del territorio con l’ausilio di forze locali. La “guerra umanitaria” degli anglo-americani in Afghanistan e in Iraq ha inferto danni limitati alle forze avversarie, che hanno avuto la possibilità di disperdersi, riorganizzarsi e riprendere l’iniziativa, dopo la caduta dei regimi del mullah Omar e di Saddam, e l’impiego massiccio della forza è ostacolato da considerazioni umanitarie, dalla necessità di non colpire i civili in mezzo ai quali si nascondono e si rafforzano i guerriglieri. La conquista di “cuori e menti” nei paesi occupati è sempre stato un obiettivo post bellico, oggi è una priorità durante la guerra, ma annientare il nemico e incutere timore per ottenere rispetto e fiaccare ogni resistenza hanno sempre costituito strumenti indispensabili per conseguire la vittoria, anticamera della pacificazione. L’occidente ha perso la percezione del concetto stesso di guerra, come evidenziò già nel 1999 un sondaggio della SWG: il 51 per cento degli oltre mille intervistati era favorevole a una guerra contro la Serbia a “costo zero”, cioè senza vittime da entrambe le parti. L’ossessione di una pace intesa come valore assoluto, e non più come condizione mutevole della storia, ha determinato l’effetto paradossale e perverso che impone l’uso della parola “pace” per definire tutte le tipologie di guerra (dagli internazionali peacekeeping e peace enforcing all’italiana “missione di pace”). I mass media (non sempre onesti e imparziali) ingigantiscono l’impatto delle vittime civili, delle perdite militari, dei danni collaterali e del fuoco amico, che in realtà la tecnologia ha ridotto ai minimi termini rispetto alle guerre del passato. Il risultato di tutto questo è che oggi si discute su chi abbia vinto in Iraq, in Afghanistan o in Libano perché non vi sono vittorie certe ed evidenti. Per l’occidente è giunta l’ora di preoccuparsi se neppure Israele, che pure sa accettare perdite elevate e combatte con ampio consenso popolare, è più capace di mettere da parte tentennamenti e ricatti moralistici per vincere una guerra nella quale è in gioco la difesa del territorio nazionale. Anche se la guerra è fatta di atrocità, è certo giusto limitare i danni tra i civili, risparmiare per quanto possibile vite innocenti (caratteristiche che tra l’altro ci differenziano dai nostri nemici che dei civili si fanno scudo), ma occorre essere consapevoli che il nemico considera queste attenzioni umanitarie utili debolezze da utilizzare in battaglia. Lanciare volantini sui villaggi, annunciando che entro poche ore saranno attaccati, bombardati od occupati significa anche dare tempo a Hezbollah di nascondersi, ritirarsi o prepararsi al meglio a combattere. Evitare di colpire le moschee, per non irritare la sensibilità islamica, quando al loro interno vengono depositate armi e munizioni, non aiuta a sconfiggere i miliziani né scoraggia la popolazione che li aiuta. Scatenando l’offensiva terrestre, peraltro limitata, molti giorni dopo l’inizio dei raid aerei, Israele ha consentito a Hezbollah di riprendersi dalla sorpresa iniziale e di far affluire rinforzi nel sud, dove per snidarli dai bunker Tsahal ha dovuto perdere un centinaio di soldati e 25 carri armati. Dopo oltre un mese di guerra, Israele non ha raggiunto nessuno dei suoi obiettivi: non ha liberato i soldati catturati, non ha scongiurato il lancio di razzi sulle sue città e non ha annientato militarmente Hezbollah, che né il governo libanese né la forza dell’Onu osano disarmare, mentre in tutto il mondo islamico i miliziani di Nasrallah sono diventati esempi da imitare. Come in Iraq e in Afghanistan, anche in Libano le perdite tra militari e civili sono state limitate, ma la guerra non è finita e neppure vinta.

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