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Europa Rassegna Stampa
17.08.2006 Nella maggioranza qualcuno dissente dalla linea antisraeliana di D'Alema
un editoriale di Antonio Polito

Testata: Europa
Data: 17 agosto 2006
Pagina: 1
Autore: Antonio Polito
Titolo: «Sia chiaro: sosteniamo Israele»

EUROPA del 17 agosto 2006 pubblica in prima pagina un articolo del deputato della Margherita ed ex direttore del RIFORMISTA  Antonio Polito, che esprime una linea politica di sostegno a Israele che purtroppo molto difficilmente prevarrà nell' Unione.
Ecco il testo:


L’altro giorno il senatore Mele, capogruppo dell’Ulivo in commissione esteri del senato, ha dichiarato al Corriere: «Sia chiaro, l’Onu non può andare a sostenere Israele». «Sostenere Israele» è una frase impronunciabile in alcuni settori della maggioranza di governo. Che in queste ore fanno a gara per attribuire un significato il più possibile anti-israeliano alla missione Onu in Libano. Come sempre avviene da noi, la politica interna afferra per la coda la politica estera, e tenta un po’ provincialmente di piegarla alle sue esigenze.
Ma siccome faccio parte anch’io di quella commissione del senato che sarà chiamata domani ad esprimersi con un voto sulla missione, mi sono andato a rileggere la risoluzione Onu 1701, sulla cui base partono i nostri soldati.
Essa «sostiene » Israele.
Perché indica come obiettivo finale esattamente ciò che chiede Israele: «Nessun uomo in armi che non appartenga all’esercito libanese dovrà più operare nel sud del Libano, tra la Linea Blu e il fiume Litani».
Non saranno i caschi blu a dover disarmare Hezbollah ma, «agendo a richiesta del governo del Libano», dovranno «assisterlo ad esercitare la sua autorità su tutto il territorio dello stato».
La missione Unifil dovrà dunque «assistere le forze armate libanesi a creare un’area » libera da milizie private in armi, ciò che l’Onu aveva chiesto già due anni fa con la risoluzione 1559 e che era rimasto lettera morta. Null’altro a pretendere ha Israele nei confronti del Libano, se non questa garanzia per la sua sicurezza. E anzi, per la prima volta nella sua storia, Israele ha messo nelle mani della comunità internazionale (e in particolare dell’Europa) il compito di proteggerla, anche sfruttando i suoi buoni rapporti con i paesi arabi. È un fatto storico.
Chi ripudia la guerra, Italia in primo luogo, ha dunque oggi una grande responsabilità: non tradire la fiducia di Israele. Perché se falliamo, se l’Onu fallisce, l’unica alternativa è un’altra guerra. Per questo la risoluzione 1701 afferma «il bisogno di affrontare le cause che hanno provocato la crisi, incluso il rilascio senza condizioni dei soldati israeliani rapiti».
Naturalmente, sull’efficacia militare, politica e propagandistica della guerra di Israele contro gli Hezbollah, si possono avere diverse opinioni. Ieri D’Alema l’ha giudicata «disgraziata», e si è aggiunto al coro dei commentatori che non vi vedono nessun altro risultato se non il rafforzamento politico di Hezbollah nel mondo arabo. Ma noi non siamo commentatori, rivestiamo tutti a vario grado una responsabilità politica. E se anche l’effetto della guerra fosse quello che dice D’Alema, la nostra responsabilità di indebolire Hezbollah, un gruppo che condensa il suo programma politico nella distruzione dello stato di Israele, ne risulterebbe oggi solo più grande e più urgente. Mi auguro che sia questo ciò che andiamo a fare in Libano. E, visto che ci sono interpretazioni diverse e varie anche dentro la maggioranza, reputo essenziale che nel documento che il governo italiano presenterà alle camere sia scritto con chiarezza l’obiettivo finale del disarmo di Hezbollah.
  Sono del resto certo che il ministro D’Alema abbia approfittato della prossimità fisica di cui ha goduto a Beirut con un deputato di Hezbollah per ricordargli quanto l’Onu richiede a quella organizzazione, e quanto il premier Prodi ha detto nella sua telefonata con Bush: «Il nostro paese è impegnato a tutelare il legittimo diritto di Israele a vivere in pace e in sicurezza ».
Disinnescare la mina Hezbollah non giova del resto solo a Israele, e non dovrebbe essere dunque l’obiettivo solo di chi si ritiene un amico di Israele. Serve alla pace, serve al Libano, e serve ai palestinesi, la cui causa è stata sequestrata in questi giorni dalle milizie sciite di Nasrallah. Serve al Libano, il cui esercito rimette piede dopo vent’anni in una parte del suo territorio su cui non esercitava più alcuna sovranità, provocando non a caso l’ira del siriano Assad. E serve ai palestinesi. Perché l’unica speranza che il progetto Olmert di ritiro dai territori della Cisgiordania possa realizzarsi sta nella sicurezza di Israele che da quelle terre, molto più vicine a Tel Aviv e a Gerusalemme di quanto non lo sia il sud del Libano, non partano un giorno i missili di Hezbollah che sono piovuti in queste settimane su Haifa.
È vero, Israele non ha vinto la guerra sul terreno, anche se è curioso che a rinfacciargli oggi un’indecisione militare siano proprio quei commentatori che ieri gli rinfacciavano una reazione militare esagerata.
Alla fine Israele ha scelto la via diplomatica, per debolezza militare o per calcolo politico si vedrà. Ma adesso che facciamo? Dimostriamo agli israeliani che hanno sbagliato ad affidarsi alla diplomazia e all’Europa, o proviamo a convincerli che la via della diplomazia paga un dividendo di pace? Vogliamo usare questa opportunità che il nostro paese si è conquistata, almeno questa, per «sostenere Israele»?

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