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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
17.08.2006 La missione in Libano non servirà a disarmare Hezbollah
lo spiega D'Alema e Diliberto applaude

Testata: Corriere della Sera
Data: 17 agosto 2006
Pagina: 2
Autore: Maurizio Caprara - un giornalista - Monica Guerzoni - Sergio Romano
Titolo: «D'Alema: cresciuta la popolarità di Hezbollah - La comunità ebraica: siamo amareggiati Accuse dal Polo e dai riformisti dell'Unione - Diliberto: pazzia pura andare a disarmare le milizie - Chi disarmerà Hezbollah»

Dal CORRIERE della SERA del 17 agosto 2006:

IL CAIRO — Nel palazzo del presidente Hosni Mubarak, il ministro degli Esteri egiziano Abul Gheit è stato categorico su quello che dovrà succedere nel Sud del Paese dei cedri: «Anche se la risoluzione 1701 dell'Onu prevede la presenza di Unifil e dell'esercito del Libano, disarmare Hezbollah è una questione nettamente libanese. È un tema che riguarda gli affari interni libanesi». Era la mattina di Ferragosto, è successo in un'auletta appartata tra sale con lampadari giganteschi. Massimo D'Alema, al fianco di Gheit, non ha mosso obiezioni. Anzi, più tardi, ha aggiunto: «Deve essere chiaro che qui non si vuole imporre una soluzione esterna, una imposizione dall'esterno, ma aiutare il Libano a realizzare ciò che i libanesi vogliono e hanno sottoscritto per il progresso civile...».
Non è un dettaglio. Nel governo italiano si ritiene che i guerriglieri sciiti di Hezbollah non rinunceranno alle armi. Tanto meno verranno disarmati dai caschi blu dell'Onu, dalla nuova versione dell'Unifil con circa 15 mila soldati.
L'intenzione è favorire l'integrazione delle milizie del Partito di Dio, che hanno appena combattuto contro Israele, nell'esercito libanese del governo di Fouad Siniora. L'unica entità, sottolinea il ministro degli Esteri italiano, che dovrebbe avere in Libano «il monopolio della forza».
«Dopo questa disgraziata guerra, la popolarità di Hezbollah in tutto il mondo arabo è enormemente cresciuta», ha affermato D'Alema al Cairo. Mubarak, in un incontro a porte chiuse, gli aveva elencato quanti sciiti ci sono in ciascun Paese del Medio Oriente per spiegare le sue preoccupazioni su approcci bruschi verso l'Iran, capace di infiammarli. «Siamo in un Paese che ha fatto la pace con Israele, ma basta sfogliare i giornali egiziani per rendersi conto di quale disastro politico ha fatto la guerra: inneggiano a Hezbollah», ha dichiarato D'Alema. Su The Egyptian gazette, sotto al titolo «La vittoria del Partito di Dio è evidente», aveva notato una vignetta con il cameriere rivolto al premier israeliano Ehud Olmert: «Preferisce... carne libanese o palestinese?».
D'Alema è convinto che Olmert abbia sbagliato a respingere le sue obiezioni sulla lunghezza dell'offensiva. Ecco la sua tesi: «Se si vuole minare questo disastro politico, purtroppo previsto, ma non si è tenuto conto delle previsioni, credo che sarà compito del governo libanese quello di ricondurre Hezbollah nella logica di un accordo nazionale».
La tesi non entusiasmerà gli ebrei italiani rimasti male nel vedere che a Beirut, lunedì, D'Alema era stato a colazione anche con un ministro di Hezbollah e accompagnato sulle macerie di zone sciite da un deputato dello stesso partito. Secondo una nota diffusa ieri dalla Farnesina, su quella visita sono state «costruite» delle «polemiche strumentali», tali da suscitare «sconcerto», «palesemente infondate e fuorvianti»: D'Alema, accompagnato dal collega Faouzi Salloukh, «ha inteso esprimere la solidarietà del popolo italiano per le vittime civili» e «con lo stesso spirito con cui aveva incontrato a Gerusalemme i familiari dei soldati israeliani rapiti e i rappresentanti della comunità italiana residenti nei luoghi più colpiti nel Nord». La nota non lo ribadiva, ma al Cairo D'Alema ha detto che i soldati, catturati da Hezbollah, erano «stati rapiti nel corso di un'azione militare».

Di seguito, un articolo sulle reazioni alle dichiarzioni di D'Alema, tra cui quelle delle communità ebraiche italiane:

ROMA — Sullo sfondo palazzi sventrati di Beirut, in primo piano Massimo D'Alema a braccetto con il deputato di Hezbollah Hussein Haji Hassan. Quella foto del 14 agosto ha indignato la comunità ebraica, che vi ha visto la prova di una linea filoaraba del governo. Ma certo non è solo un'immagine a turbare gli ebrei italiani, la Cdl e non pochi riformisti della maggioranza: sono le parole di D'Alema dal Medioriente, è il giudizio sull'attacco di Israele al Libano, che il titolare della Farnesina ha definito «una disgraziata guerra» che avrebbe accresciuto la forza di Hezbollah.
Riccardo Pacifici, portavoce e vicepresidente della comunità di Roma, è il primo a rilevare la «preoccupazione» e l'«indignazione» con cui gli ebrei italiani guardano alle dichiarazioni di D'Alema: perché «non ha mai messo in evidenza che il nemico della libertà e della democrazia è Nasrallah»? Che amarezza, conclude Pacifici, aver appreso che per D'Alema sia stato «un onore» pranzare con i ministri di Hezbollah... A quella tavola non si sarebbe seduto nemmeno Emanuele Fiano,
deputato ebreo dell'Ulivo che pure guarda con rispetto e attenzione alla mediazione di D'Alema: «Ha compreso il diritto inalienabile alla sicurezza di Israele ed è volato a Gerusalemme in un momento cruento della guerra, ma andare a pranzo con Olmert o con un Hezbollah non è la stessa cosa». Nessuna simmetria è pensabile, ragiona Fiano: «Israele è l'unica democrazia del Medioriente, Hezbollah invece è una organizzazione terroristica che ha come scopo primario la distruzione di Israele».
«Perplesso» e «stupefatto» il vicepresidente dell'Unione dell'Ucei Claudio Morpurgo:
«Come si fa ad applicare il principio dell'equivicinanza a una forza terrorista e a uno Stato come Israele, che ha legittimamente agito per tutelare la sua sicurezza?». Ancor più aspro il commento del portavoce e vicepresidente della comunità ebraica di Milano, Yasha Reibman. «L'abbraccio tattico e imbarazzante tra D'Alema e Hassan fa paura». Se però l'abbraccio porterà al disarmo di Hezbollah, Reibman sarà il primo ad applaudire D'Alema.
Per il radicale Daniele Capezzone,
«dell'equivicinanza di D'Alema è rimasta solo la vicinanza». E Francesco Cossiga
lo dice con una parola: «Antiebreo». Patrizia Sentinelli,
viceministro agli Esteri, invece difende il capo della diplomazia: «Attacchi fuori luogo, D'Alema è uomo di pace». Ma tanti, anche tra i riformisti, sono critici. «Quella foto è stata un pugno nello stomaco» per il Ds Peppino Caldarola, sorpreso che D'Alema possa aver scambiato l'aggressore con l'aggredito: «È una vecchia storia che mi lascia sgomento, le parole di D'Alema confermano quanto indulgente sia l'occhio con cui alcuni governi guardano al fanatismo arabo».
Antonio Polito avverte il rischio di una «deriva anti-israeliana» dell'Unione e medita di non votare l'invio dei soldati in Libano «se non sarà chiaro che i soldati partono per disarmare Hezbollah». Il Furio Colombo
che risponde dagli Usa è disorientato: «Se qualcuno pensa che il Libano sia la Svizzera, cioè un Paese che nulla ha a che fare con Hezbollah, ne deriva una politica estera molto stravagante». Il presidente della commissione Esteri della Camera Umberto Ranieri invita a «non smarrire il senso della misura» e il vicepresidente dell'Ulivo al Senato, Nicola Latorre, si dice «esterrefatto» per gli attacchi. D'Alema, ricorda, è «protagonista di una iniziativa straordinaria che ha restituito al nostro Paese un ruolo fondamentale per far cessare le ostilità e riavviare il processo di pace».

Infine, l'intervista all'entusiasta Oliviero Diliberto, segretario del comunisti italiani che precedette D'Alema sulla strada dei cordiali rapporti con i terroristi antisemiti di Hezbollah.
Ecco il testo:
 

ROMA — «Temo di arrecargli un danno dicendolo, ma il ministro degli Esteri sta facendo proprio bene...».
Presidente Oliviero Diliberto, D'Alema parla dell'attacco di Israele al Libano come di una "guerra disgraziata" che ha accresciuto la popolarità di Hezbollah. Condivide?
«Sono molto contento di questa diagnosi di D'Alema, la condivido in pieno. Chiunque conosca il mondo arabo sa che fino a un mese fa Hezbollah rappresentava una parte del popolo libanese. Chi ha difeso il Libano dall'invasione di Israele? Le milizie di Nashrallah, non certo l'esercito libanese, quindi gli Hezbollah rappresentano i libanesi molto più di prima e ora sono popolarissimi anche fuori dal Libano. Israele ha fatto un bel regalo a Hezbollah. Peggio di un crimine, è un errore».
Quindi pensa anche lei, come D'Alema, che «l'uso della forza dà nuova forza al terrorismo»?
«L'uso della forza fatto da apprendisti stregoni... Gli israeliani erano convinti di entrare in Libano e risolvere rapidamente la questione con Hezbollah, invece hanno causato più morti tra i civili che tra i militari e lo dice uno neutrale come Kofi Annan. Non hanno risolto nulla se non aumentare il prestigio di Nasrallah, un errore simmetrico a quello commesso con l'Olp, quando non concedendo nulla ad Arafat, Israele ha favorito la vittoria di Hamas».
La comunità ebraica è sdegnata per quella foto di D'Alema a braccetto con un deputato di Hezbollah. Lei che ne pensa?
«Comprendo l'ipersensibilità della comunità ebraica, ma non la giustifico. Bisogna trattare con tutti se si vuole la pace, soprattutto con chi rappresenta pezzi significativi di questo mondo ed Hezbollah, che piaccia o no, li rappresenta. Rabin ripeteva che la pace si fa tra nemici e non tra amici. Fino agli anni 70 Arafat era considerato un terrorista internazionale, poi ha vinto il premio Nobel per la pace».
Non vorrà mica proporre il Nobel per Nasrallah...
«Non credo lo prenderà mai, ma voglio dire quanto relativo possa essere il giudizio che si dà in un certo momento storico. L'Italia sta riprendendo una politica da protagonista nell'area del Mediterraneo, che è una vocazione naturale del nostro Paese. È la famosa equivicinanza, mentre con Berlusconi c'era il più totale allineamento con l'amministrazione Bush e quindi con Israele».
La Cdl accusa D'Alema si essere più vicino agli arabi che agli israeliani.
«No, credo che si possa parlare davvero di equivicinanza».
Non è vero che la sinistra radicale tifa per Hezbollah?
«Non lo so, perché io non vi appartengo. Io sono sinistra e tifo per la pace».
Una pace che passa attraverso un partito armato che persegue la distruzione di Israele?
«La pace passa attraverso tutti, anche attraverso forze che oggi possono non piacerci.
La pace unilaterale è la sottomissione, quindi è una pace precaria. Infatti inevitabilmente la risoluzione Onu è un compromesso che tiene conto di tutte le parti in causa, ha margini di ambiguità, ma nelle condizioni attuali è il punto più avanzato possibile».
Il Pdci voterà l'invio delle truppe senza imbarazzi?
«Sì, voteremo con convinzione. E chiederò al governo di spostare i nostri soldati dall'Afghanistan al Sud del Libano e arrivare così anche alla soluzione di quel problema. Che diavolo ci facciamo a Kabul? Dio solo lo sa».
L'Italia va in Libano per disarmare Hezbollah?

«Sarebbe pazzia pura, significherebbe andare a fare la guerra a Hezbollah e non è questo il mandato Onu. Credo che ci sia una soluzione in grado di tenere insieme il disarmo, come previsto dalla precedente risoluzione dell'Onu (la 1559, ndr), con la possibilità di non aprire un nuovo conflitto ».
Quale soluzione, presidente?
«Inquadrare le milizie Hezbollah nell'esercito regolare dello Stato del Libano».
Lei che conosce bene quelle zone, cosa suggerisce ai ministri degli Esteri e della Difesa?
«Il Libano è un coacervo di etnie e religioni, sono trent'anni che è impegnato in operazioni belliche. Io di suggerimenti ne avrei due. I soldati da soli non bastano, la missione di pace deve essere coadiuvata da una missione diplomatica. Servono uomini che abbiano già una esperienza diretta del Libano e relazioni tali da poter parlare con tutti e D'Alema alla Farnesina ne conosce di bravissimi».
Secondo suggerimento?
«Che ci sia un presenza di intelligence adeguata a difendere i soldati italiani. Il Sismi ha già dimostrato a Beirut di essere attrezzatissimo, nell'82 la missione italiana fu l'unica non essere attaccata...».
Vuol dire che quando D'Alema prende sottobraccio il deputato Hezbollah protegge i nostri soldati?
«Esatto, l'equivicinanza ci mette al riparo. Con una politica estera come questa non vedo come la sinistra possa avere dei maldipancia».
Auspica un voto parlamentare bipartisan?
«Non me ne può importare di meno. La maggioranza è autosufficiente».

D'accordo con D'Alema e Diliberto è anche Sergio Romano, che nell'editoriale in prima pagina teorizza che né l'Onu e le truppe sotto il suo comando, né il Libano , hanno la la responsabilità di disarmare Hezbollah.

È inutile cercare nella risoluzione 1701 una risposta alla domanda — chi disarmerà gli Hezbollah? — che domina le discussioni politiche, non soltanto italiane, delle ultime ore. La risoluzione è un documento diplomatico, negoziato ad nauseam,
stiracchiato di qui e di là come una coperta stretta, pieno di inviti, esortazioni, considerazioni, constatazioni e riferimenti ad altre risoluzioni che languono da anni negli archivi del Palazzo di vetro. Paradossalmente la vaghezza, in alcuni dei passaggi essenziali, non è il suo difetto. È la dimostrazione della straordinaria abilità con cui i suoi redattori hanno deliberatamente inserito nel testo le vie d'uscita e gli argomenti a cui potrà appellarsi chiunque voglia indirizzare la risoluzione nel senso desiderato.
Esiste la possibilità di evitare che anche la risoluzione 1701, come tante altre, resti lettera morta? In linea di principio, sì. Basterebbe che tra Unifil e le Nazioni Unite esistessero gli stessi rapporti che intercorrono, durante una guerra, fra un esercito nazionale e le autorità politico-militari da cui dipende. Basterebbe che esistesse a New York un organo autorizzato ad affrontare situazioni impreviste, valutare i rischi, dare istruzioni. Il problema non è nuovo. Nel 1992, quando un vertice del Consiglio di Sicurezza gli chiese un documento sul funzionamento dell'organizzazione dopo la fine della guerra fredda, il segretario generale Boutros Boutros-Ghali presentò una «Agenda della pace» con cui propose, tra l'altro, la creazione di una forza permanente alle dipendenze dell'Onu. Più recentemente uno storico americano, Paul Kennedy, ha indicato il numero dei soldati che dovrebbero farne parte (100 mila) e ha fatto due proposte specifiche: la rinascita del Comitato militare (Military Staff Committee), previsto dalla Carta ma in letargo dal luglio del 1948, e la creazione di un Servizio d'Intelligence. Se l'Onu disponesse di un cervello militare e non dovesse chiedere ai servizi segreti dei suoi membri le informazioni di cui ha bisogno, la risoluzione 1701 avrebbe un diverso valore. Ma questo accadrebbe soltanto se le grandi potenze (e in primo luogo gli Stati Uniti) acconsentissero a perdere una parte della loro sovranità: una ipotesi che nessuno, oggi, è disposto a prendere in considerazione.
È inutile quindi rimproverare l'Onu per la sua impotenza. Nelle grandi crisi la maggiore organizzazione internazionale dispone dei poteri che i suoi membri sono pronti ad accordarle. Agisce bene nei rari casi in cui esiste un accordo sugli obiettivi da raggiungere. Si muove con molte ambiguità ogniqualvolta il suo mandato è intenzionalmente impreciso. Non avremmo il diritto di sorprenderci e di indignarci, quindi, se constatassimo nelle prossime settimane che le milizie Hezbollah conservano i loro arsenali, che l'esercito libanese non può o non vuole disarmarle e che Unifil preferisce guardare dall'altra parte. Qualcuno osserverebbe allora che un tale compito, del resto, non è facile nemmeno per chi può agire con maggiore forza e autonomia. Anche in Iraq esistono milizie armate affiliate a partiti politici. E anche in Iraq, come in Libano, è stato ripetutamente chiesto al governo di sciogliere e disarmare queste bande militari. Ma il governo di Bagdad teme di dare un colpo mortale ai traballanti equilibri del Paese e gli Stati Uniti, potenza vincitrice e occupante, sanno che l'operazione comporta molti rischi. Non è giusto pretendere da Unifil e dal governo di Beirut più di quanto possono fare gli americani e il governo iracheno.

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