Cessate il fuoco? bilanci senza illusioni della guerra contro Hezbollah e della risoluzione dell'Onu 1701
Testata: Il Foglio Data: 15 agosto 2006 Pagina: 1 Autore: la redazione - Alessandro Schwed - Giorgio Israel Titolo: «Ora a essere sproporzionata è la speranza nello slogan dei caschi blu - Tutto come prima. Perché la risoluzione 1.701 difende solo lo status quo -»
Hezbollah sta cantando troppo presto vittoria. Un editoriale dal FOGLIO del 15 agosto 2006:
La cessazione delle operazioni militari nel sud del Libano porta naturalmente a cercare di rispondere alla domanda: chi ha vinto la guerra? Le parti in causa, Hezbollah in particolare, si proclamano vittoriose, ma in realtà una risposta per ora non c’è e non ci può essere. La reazione israeliana all’offensiva del Partito di dio, ai suoi attacchi missilistici e al rapimento di soldati è un aspetto di un conflitto più vasto, in cui si confrontano la capacità di resistenza di Gerusalemme e la volontà ripetutamente affermata dal governo e dalla teocrazia iraniana di distruggere quella che chiamano “entità sionista”. Ovviamente contano anche gli aspetti tattici, e in questo senso si potrà capire qual è stato l’esito della battaglia se gli Hezbollah riusciranno o no a ricostruire una presenza militare organizzata e minacciosa nel sud del Libano. Su questo aspetto influirà il carattere della missione internazionale che l’Onu sta organizzando (molto importanti sono il preciso mandato e le regole d’ingaggio che saranno date alle truppe) e l’atteggiamento del governo e dell’esercito regolare libanese. Israele ha fatto capire che concedere ospitalità e il controllo di una parte del territorio a formazioni terroristiche non è gratis. Toccherà ora ai libanesi decidere che prezzo sono disposti a pagare per restaurare l’autorità dello stato su tutto il loro territorio. L’esame, peraltro ancora incerto, del risultato degli scontri sul terreno, però, resta solo una partita del bilancio che bisognerà tracciare. L’offensiva di Hezbollah aveva come obiettivo strategico quello d’indurre la comunità internazionale a transigere sul nucleare iraniano, perché Teheran diventava lo snodo decisivo per ottenere una stabilizzazione parziale e temporanea nella zona di confine tra Israele e Libano. Qualche diplomazia, a cominciare da quella francese, ha in effetti indicato quella via, ma alla fine la determinazione israeliana e l’atteggiamento manovriero ma sostanzialmente fermo degli anglosassoni hanno impedito alla trappola iraniana di funzionare. D’altra parte, se è vero che Teheran non ha ottenuto i vantaggi su cui puntava, è altrettanto vero che sulla partita della sua dotazione di tecnologia nucleare l’Onu continua a palleggiarsi le responsabilità. Una volta messo il piede sul terreno, a diretto contatto con le formazioni terroriste sciite, armate e pagate da Teheran, per l’Onu sarà sempre più difficile fingere di non vedere. Su questo punta Israele, che scommette, per la prima volta dal 1948, su un ruolo non ostile dell’Onu.
Sempre dal FOGLIO, un editoriale del Wall Street Journal, ripreso da Milano Finanza:
Di seguito, un articolo di Alessandro Schwed spiega perché Israele è ben consapevole che la "pace" dell'attuale cessate il fuoco è illusoria:
N ella parte del mondo che si chiama Israele, la frase “cessate il fuoco” dovrebbe essere scritta con un punto interro-gativo alla fine: “Cessate il fuoco?”, oppure riproposta in modi spirituali: “E’ mai cessa-to il fuoco?”. Dalla fondazione dello stato ebraico, “pace” è parola astratta dato che in-torno alla terra d’Israele nessuno vuole la terra d’Israele. Eppure, accade che in ebrai-co e in arabo per salutare sia uso comune dirsi shalom e salam, espressione dalla stes-sa radice, che vuol dire pace. Può darsi che questa parola, “pace”, sia destinata a descri-vere una condizione assoluta dello spirito, sovrumana, e che la sua irrealizzabilità nel mondo, o per meglio dire, nel secolo, intro-duca all’idea che la pace esiste solo in un re-gno che non è qui, e che per l’uso quotidiano che facciamo dei giorni e delle ore, sarebbe esatto chiamare la pace “non-guerra”. Non c’è parità tra la concretezza della guerra e la sgusciante pace. David Grossmann per la pace spende la vita, eppure l’altro giorno, in Libano, la guerra gli ha tolto il figlio Uri – e adesso chi può immaginare il dissidio nel cuore di quest’uomo, questo Giobbe? Con lui, l’ingannevole pace è stata più crudele della guerra, lo ha illuso. Poetare in quel modo non lo ha protetto. Uri è morto e viene in mente Orfeo il cui canto sublime non basta a riportare indietro Euridice. Nessuno sa dove abiti la pace; di sicuro la bestia della guerra si nutre dei cuori degli orfani e dei rimasti soli; la bestia della guer-ra ha il suo indirizzo sulle scritte cimiteriali, alla pietra dove nessuno viene mai ad aprire la porta. Ma alla fabbrica dei sentimenti estemporanei, la tv, per un mese ha venduto bene lo spot della guerra, e ora vende bene lo spot della pace. C’è sempre uno slogan da porgere. Prima era la risposta “sproporzio-nata”, fabbricata presso il nostro ministero degli Esteri, ora che a essere sproporzionata è la speranza e nessuno lo dice, lo stesso copyright propone i “Caschi blu”, come l’ad-ditivo di certi detersivi. Dalle sette del mat-tino di ieri, pace in tv, è ferragosto. Pace. C’è la bozza dell’Onu. Pace. E nelle regioni con la bandiera arcobaleno alla finestra, pace doppia. Come il brodo. Infine, una meritata pace sulla famosa barca a vela in multipro-prietà: che si cazzi la randa. In Israele nes-suno corre per le strade e grida “pace”, le persone si telefonano che è finita – e inten-dono per ora la morte. Ma nel mondo c’è la pace, lo ha detto la tv che glielo ha detto l’O-nu, che glielo ha sussurrato D’Alema. Cerco la pace nella notte di sabato, per le vie della Toscana dove vivo. Guardo da una piazza la collina che porta il paese in spalla e si alza un rincorrersi di canti. Domani c’è il palio dell’arco. Da una parte all’altra del buio il ritornello “cazzotto sul groppone” sbatte nei muri, torna indietro e ricomincia. La pa-ce è fatta di ragazzi vivi che cantano prima di tirare con l’arco, poi tornano a casa e vanno a dormire. La guerra è per finta. Eppure que-st’anno sono sordo, non sento la bellezza. In Israele la pace è quando finiscono di volare i katiuscia e si sente il ronzio essenziale dei cellulari. Ti amo, sono vivo, pronto, è passato vicino, mi sposi? il signor Gold ha smesso di parlare, sono bruciati tutti i libri dei nonni. Un mese di guerra al microfono del pc. Dia-loghi serrati con i miei nipoti a Haifa. Punti interrogativi, faccine, parolacce, baci. Tutto è sparso sulla scrivania virtuale del computer, come se lo schermo fosse il muro di una stra-da e per un mese una mano invisibile dall’al-tra parte del mare vi avesse tracciato parole. La mia speranza è che Moshe e Yossi abbia-no preso una confidenza pelosa con i katiu-scia e che facciano i maleducati con la morte – le diano le spalle e le dicano: “Puttana, vai con tutti”. A casa troviamo nel pc un vecchio messaggio di Yossi – non lo avevamo letto. “Ciao Erina, Sandrow & Jovi, sono Yossi. (Mo-she my ha chiesto di dirvi, che tutto bene (vi-viamo)”. E’ una mail dell’inizio, prima che la vita diventasse rimanere illesi, quando in cie-lo si sono presentati ordigni e non nuvole; non normali aeroplani, con sopra la gente, che sotto si vede un litorale da Beirut a Hai-fa, al Cairo, alle Colonne d’Ercole, tutta una spiaggia se magari il mondo fosse un altro, e allora a Haifa un ragazzo uscirebbe di casa, e direbbe: “Vado al mare alle Colonne d’Erco-le. A stasera”. Invece no. “Pronto, vi amo, so-no vivo. Sì, è passato vicino. Guardo le vostre foto”, e forse la pace ebraica è questo, guar-dare le foto dei propri cari quando c’era la guerra. La pace in Israele è il fatto che ogni famiglia, ogni generazione di genitori e figli, di David, Uri e Mikhal Grossmann, deve abi-tuarsi alla guerra. Scoprire come si masche-ra questa volta e chi morrà. Si tratta solo di mettere la cotenna ebraica. Reggere. Subire la mutazione, e mentre passano quei cazzodi-razzidimerda, vivere sdraiati sul pavimento, al riparo di una fortezza di rimpianti. “Dite a mio cugino Giovanni che l’amo”. “Ciao Erina, Sandrow & Jovi, sono Yossi. (Moshe my ha chiesto di dirvi, che tutto bene (viviamo)”. Mi piace tanto la fine del messaggio di mio ni-pote Yossi: “Viviamo”. E’ meglio di “siamo vi-vi”. Contiene tutto il necessario: che il cuore batte, che la mente funziona, e che dunque ci rivedremo. E’ una lingua pratica, essenziale, dunque è ebraico; e se volete sapere quale sia la soglia della speranza d’Israele, è l’allu-cinazione di quando viene in mente che An- na Frank non aveva Internet, e adesso le co-se sono molto migliorate. Dunque, sulla Rete, Moshe mi manda in allegato vecchie foto collassate, scatti in bianco e nero o a colori spenti, direi dei pri-mi anni Settanta. Volti e occhi che lui riscri-ve. Rabbini dentro una Russia che pare dei tempi dello zar e che Moshe riporta all’es-senza – a un punto che forse non era visibile neanche prima, e adesso lo è – dato che per natura i fotografi scrivono nella luce. O se preferite, la rivelano. Vi racconto tre di que-ste foto. In una si vede il primissimo piano, canuto di rav Ashlag, figlio del più grande kabbalista degli ultimi secoli, Baal Asulam. Questo Ashlag era il maestro del rav Lait-man, l’uomo che la notte alle tre fa lezione a Moshe. Sulla fronte del rav Ashlag spiove qualcosa di nero, direi un capello. Il suo vol-to è una miscela blu e argento, come di uno che viva da secoli nello spazio. La barba e i grandi occhiali rifulgono, e la foto ha una lu-ce rinnovata. Nella seconda foto, i colori so-no stinti. Il rav Ashlag è vecchissimo, piega-to in due su un avulso tavolo di formica mar-rone. Non si sa se sieda o stia in piedi; il cor-po è una foglia secca accartocciata. La testa prosegue dentro un libro – oppure no, è co-me se dal libro uscisse il tronco nodoso del maestro. Alle sue spalle, una grande porta semiaperta. La luce della foto viene da lì. Ciao Erina, tutto bene (viviamo) Nella terza immagine, Ashlag è attorniato da un piccolo gruppo di allievi di ogni età e riccioli, le teste coperte da colbacchi. Ognu-no è una curiosa figura, un tipo del mondo a zonzo spirituale, e fissa chissà che per l’aria. II rav è davanti a tutti, una lunga barba bian-ca e il colbacco. La mano sinistra tiene il ca-lice della benedizione del vino; nella destra, una lunga candela gialla getta luce sui cap-potti neri. Non è un cero, è una fiaccola. Gli occhi del rav sono serrati, la bocca aperta in un canto. Più che una preghiera, è una lotta severa. L’inizio di un’avventura dove sta per essere esplorato il centro dell’universo. Noi guardiamo la foto ed è come essere vivi nel momento in cui fu inventato il tempo. Credo che sia finalmente questo l’epos della pace. Strapparsi dall’idea che tutto stia tra la na-scita e la morte, con la fiaccola trovare la stra-da buona e salire cantando. Certe paure, in realtà, sono belle canzoni. “Ciao Erina, San-drow & Jovi, sono Yossi. (Moshe my ha chiesto di dirvi, che tutto bene (viviamo)”. Di seguito, una lettera di Giorgio Israel risponde a Emma Bonino, per la quale il progetto politico di Israele dovrebbe essere l'ingresso nella Nato o nell'Unione europea. Ecco il testo:
Al direttore - Dispiace dissentire da una per-sona come Emma Bonino, che è una delle po-che ben lontane da quell’impazzimento di una parte dell’occidente di cui ha parlato Giuliano Ferrara. Tuttavia, ci si chiede che senso abbia criticare Gerusalemme per non avere un progetto politico di sopravvivenza, ovvero l’unico possibile secondo Bonino: l’inclusione nella Nato o nell’Unione europea. Sarebbe bellissimo, ma per sposarsi bisogna essere in due, e non si vede proprio come questa Europa, infestata di quinte colonne di al Qaida che sognano soltan-to la dissoluzione dello stato d’Israele, potrebbe essere aperta a un’inclusione di Israele. Non si avvede Bonino che la realtà in cui vive e opera è ben lontana dai propri desideri? Non si avve-de dell’atmosfera dominante nel governo di cui fa parte, e il cui ministro degli Esteri esercita va-cui sarcasmi contro i cretini che non capirebbe-ro che Hezbollah non è soltanto un movimento terrorista ma una componente importante del-la società libanese? Il che è anche vero. Pure il partito nazista lo era della società tedesca. Ma ciò non bastava a considerare come un interlocutore ragionevole chi era portatore di un progetto analogo a quello che la televisione di Hez-bollah al Manar proclamava su sottofondo cantato (“Morte a Israele, fine di questo ascesso purulento. Il maledetto Sion sarà sterminato”) mentre il segretario di un partito dell’attuale governo si intratteneva cordialmente con lo sceicco Nasrallah. Emma Bonino è una delle persone con cui è più facile trovarsi d’accordo ma, per favore, apra gli occhi sulla realtà che la circonda. Giorgio Israel Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione del Foglio lettere@ilfoglio.it