Israele sotto l'attacco di Hezbollah un corretto reportage pubblicato dal settimanale cattolico
Testata: Famiglia Cristiana Data: 11 agosto 2006 Pagina: 1 Autore: Filippo Landi Titolo: «Colpo su colpo»
Famiglia Cristiana nel n. 33 on line del 13 agosto pubblica un articolo intitolato “Colpo su colpo”a firma Filippo Landi. L’articolo delinea in maniera obiettiva le emozioni, i sentimenti di paura, ansia e angoscia che albergano nell’animo della popolazione israeliana da quando la guerra contro i ripetuti attacchi degli Hezbollah è diventata ancor più cruenta. La strage di Kfar Gladi del 6 agosto è solo l’ultimo episodio di una strategia di terrore che non accenna a fermarsi.
Sono le 12 del mattino, le 11 in Italia. È domenica, il primo giorno di lavoro. Da alcune settimane, il televisore dell’ufficio è sempre acceso. Il volume basso, ma sufficiente per capire i nomi delle località citate. E poi c’è quella scritta in rosso, che appare sulle immagini quando accade qualcosa di grave: "Kfar Giladi".
Quel nome è come una fitta nel corpo di Noa. Le prime notizie sono già drammatiche: «Poco fa, a Kfar Giladi, è caduto un razzo, ci sono feriti, alcuni in condizioni critiche». Questa espressione, "condizioni critiche", in Israele da sempre prepara chi assiste alla morte di qualcuno. E Kfar Giladi è il luogo dove Gideon, riservista, uno dei due fratelli di Noa, sta tornando dopo una brevissima licenza. Adesso è lì, a pochi chilometri dal confine libanese
Noa prende il telefonino, ma il numero che chiama è fuori servizio. Uno, due, tre tentativi. Poi si ferma. Un’amica che ha capito tutto fa finta di domandare: «Cosa succede?». E poi le parole, scontate, ma che in quel momento si desidera sentirsi dire: «Non preoccuparti, non pensare al peggio...».
Molti israeliani vivono così questi giorni di guerra. Per un telefono che squilla, altri tacciono. Alla fine, Gideon è vivo. Quasi per miracolo. Il parcheggio dove 12 suoi compagni sono morti, lui lo aveva lasciato mezz’ora prima
Per gli israeliani, la Tv è divenuta la compagna, come anche la radio, del vivere quotidiano. Ti dice subito dove l’allarme sta suonando. L’allarme che precede, ma più spesso segue, l’arrivo dei razzi Katiuscia. Al Nord le sirene si sentono, altrove si ascoltano attraverso le dirette televisive. E poi c’è l’allarme antifurto delle case. Alle otto del mattino si è messo a suonare a casa di Amir, all’estrema periferia di Haifa. Non c’è nessuno in casa perché Amir venerdì sera ha raggiunto Ruth, Emanuel e Odelia a casa della suocera, vicino a Tel Aviv. Loro sono lì da una settimana, per prudenza. Ma l’allarme dice che qualcosa è successo. Il telefono dei vicini non squilla. I telefonini sono fuori servizio. La radio interviene e cita anche il quartiere di Haifa dove c’è la sua casa. Andiamo a vedere, con la speranza che i razzi abbiano fatto impazzire solo antifurti e telefono. Non è così.
La villetta è in piedi, ma dentro è un disastro. Mezzo tetto è venuto giù. Il salone, la camera da letto, la cucina, un ammasso di polvere bianca che copre i calcinacci, e i mobili a pezzi. «Sono un uomo senza più una casa, ma sono vivo», dice Amir a chi lo vuole consolare.
Gli Hezbollah hanno pagato caro l’ultimo lancio che hanno fatto. Non il razzo Katiuscia che ha semidistrutto la casa di Amir, ma l’altro missile, il Kaibar, molto più potente, che ha raggiunto nella notte la periferia di Hadera, caduto in un campo. Gli aerei hanno individuato e colpito, in Libano, il luogo da dove il missile è partito. È stata fatta terra bruciata. Yoav, mentre pranza con i colleghi, racconta di Hadera, del missile che fa paura perché ha superato di 80 chilometri il confine libanese scendendo verso Sud, ma anche dell’immediata risposta dell’aviazione. «E tu ci credi?». La domanda di Rachel, sembra spezzare un incantesimo. «Quante volte ci hanno già detto di aver distrutto le loro postazioni e invece continuano a sparare!». Yoav risponde: «Hanno distrutto la postazione di lancio del missile, che è molto più facile da individuare di quelle dei Katiuscia…».
I giornali pubblicano le foto delle vittime. I soldati caduti in battaglia, i civili morti nelle loro case. Volti spesso di giovani, e i nomi non sono tutti ebraici. Mohammed e Sultana erano due arabi israeliani. Sono morti anche loro. Ma la stampa è piena anche di cronache e di dettagli tecnici sulla guerra, assai più delle dichiarazioni dei politici.
Anche la strage di Cana, la strage dei bambini, vi ha fatto irruzione. Qualche israeliano, anzi più di qualcuno, è sceso in strada a Tel Aviv con lo slogan: Stop the war, "Fermate la guerra". Indirizzato a tutti, agli Hezbollah, ma anche ai politici e ai militari israeliani. Davanti a quei cartelli altri israeliani sono andati a sventolare la bandiera d’Israele e contro i pacifisti sono volati insulti. Ma la maggior parte della gente è rimasta in casa. Di Cana si è parlato un po’ con il cuore, ma di più con le parole di chi sul villaggio libanese le bombe le ha gettate. Con le parole dei piloti degli aerei. Ogni giorno i loro comandanti li autorizzano a rilasciare interviste. I piloti sono sempre stati gli eroi di Israele. Oggi, sono anche il puntello delle coscienze.
Spiegano le ragioni degli attacchi; parlano della possibilità di uccidere civili; affermano che la colpa delle vittime innocenti ricade sugli Hezbollah; ammettono qualche errore. Soprattutto, dicono che la difesa dei cittadini israeliani ha la priorità. Parole che rafforzano chi la pensa così, e vengono ascoltate con attenzione da chi continua a chiedersi perché affidare la sicurezza di Israele ai militari, che promettono, innanzitutto, la precisione delle bombe.
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