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La Stampa Rassegna Stampa
11.08.2006 La "scontata enfasi" di Bush e le colpe di Israele
di fronte al terrorismo islamista Igor Man sa solo riproporre pericolosi luoghi comuni

Testata: La Stampa
Data: 11 agosto 2006
Pagina: 1
Autore: Igor Man
Titolo: «L'ombra di Beirut»

Ogni occasione è buona per diffondere antiamericanismo. Anche l'attentato previsto per l'11 agosto fortunatamente sventato a Londra.
Così nelle prime righe dell'editoriale di Igor Man pubblicato da La STAMPA dell'11 agosto 2006 viene immediatamente inserito un riferimento malevolo a George W. Bush, colpevole questa volta di una "scontata enfasi" riguardo all'esistenza di un' aggressione islamista.

Una denigrazione che serve a continuare a non ascoltare l'allarme lanciato dal presidente americano circa la guerra dichiarata degli islamo-fascisti agli Stati Uniti e all'Occidente.

Il resto dell'articolo, infatti, offre un'ennesima variazione dei più erronei e pericolosi luoghi comuni circa il terrorismo islamico.
Invoca, per fermarlo, il cessate il fuoco in Libano e la "soluzione del problema palestinese", adossando a Israele la responsabilità di una crisi internazionale che è il prodotto della diffusione di un'ideologia dell'odio.

Ecco il testo:

Il blitz del mitico MI5 in tandem con l’epico Scotland Yard è motivo di conforto ma altresì di preoccupazione. Dalle prime scarne notizie, dalle successive rivelazioni (col contagocce), lasciando da parte la scontata enfasi del presidente Bush, risulta chiaro come il radicalismo islamico sia ostinatamente all’offensiva.

Quelli che Bush definisce «fascisti islamici» avevano messo in piedi uno spaventoso apparato terroristico sul modulo, moltiplicato, della strage di Lockerbie. Non sembra che codesto attentato spento nel giusto momento sia stato concepito, organizzato durante l’attuale crisi mediorientale. Viene da lontano non fosse altro perché un delitto di tanta magnitudine ha bisogno di tempo per prender forma e infine farsi compiuto strumento di apocalittica strage. Dieci aerei di altrettante compagnie americane sarebbero esplosi in volo forse a breve: una catastrofe davvero senza precedenti. Ancorché sventata just in time, come ha ammesso un portavoce dei Servizi britannici, è motivo di non poco turbamento. E’ un brutto momento, proprio «un momentaccio» per dirla in gergo, questo che stiamo vivendo. In Libano la guerra continua ma non per consolidare il «garantito» ripulisti del Sud del già felice paese dei cedri, bensì in conseguenza del fallimento dell’azione punitiva di Tsahal. Uno dei più forti eserciti del mondo potrebbe rischiare la fine di Laocoonte ad opera d’una armata brancaleone islamica che mostra d’aver studiato la guerra, sotterranea e in superficie, dei Vietcong applicandola egregiamente, ahimé: coi debiti adattamenti. Non potendo lasciare, Israele raddoppia, ma quella ch’era stata proposta come una operazione relativamente rapida e certamente risolutiva, segna il passo. In teoria codesta pausa diremo logistica potrebbe aprire la strada al ritorno della politica. Urge una rapida ma approfondita rivisitazione del progetto-caschi blu: oggi come oggi appare impraticabile la presenza d’una forza (multinazionale) di interdizione nel Sud del Libano, volta a separare l’esercito israeliano dalle spericolate formazioni dei guerriglieri di Hezbollah, il determinato Partito di Dio nato, nel 1983, dalla costola di Khomeini. Appare impraticabile perché nessun paese vuol rischiare lo straniamento d’una forza (pacifica) di interdizione sul format di quella che nel lontano 1956 l’Onu di Hammarskjöld schierò fra egiziani e angloamericani, senza colpo ferire.

Si fa, per tanto, sempre più urgente la tregua che un po’ tutti invocano, giustappunto per accantonare il carro armato in favore della concertazione politica. L’opinione pubblica mondiale chiede a Israele una pausa di riflessione. Dolorosa, difficile ma ineludibile. Il governo di Gerusalemme sa benissimo di poter contare sulla tenuta del fronte interno. «Nessuno pensi di intimorirci, non ci fa paura tornare al pane e cipolla»: la invero storica proclamazione di Golda Meir è radicata nella memoria orgogliosa d’Israele, paese di pionieri, di sabra. Ma se il pane non manca, ad abbondare sono i katiuscia che violano la terra di Israele, i suoi villaggi, le sue città più emblematiche, frutto di sacrifici, di duro lavoro e di non facili guerre. I fatti di queste ultime settimane hanno brutalmente dimostrato ai politici più esperti e agli improvvisati centurioni che il potente esercito israeliano rischia di impantanarsi in un perverso vietnam mediorientale.

Se è vero che soltanto col ritorno alla politica (che implica l’entrata in scena, per la prima volta nella Storia ultima, dell’Europa mediterranea) si può pensare di uscire dal pantano d’una guerra gravida di infinite incognite, è gran tempo che si torni alla «testa dell’acqua»: alla Palestina. Lo abbiamo detto e scritto sino allo sfinimento: «La pace è nel cuore profondo del mondo: la Palestina». E dunque non può non confortarci (relativamente) che Blair e Prodi abbiano convenuto sulla necessità assoluta di riconsiderare l’antica «questione palestinese». Ma occorre far presto, nel segno del pragmatismo: anche se amaro.

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