Angelo D'Orsi sul MANIFESTO del 3 agosto 2006 si indigna con quanti accusano la sinistra di antisemitismo per subito autoconfutarsi sostenendo che le "vittime si sono trasformate in carnefici".
Ecco il testo:
«Sono una libanese cristiana di 28 anni. Lavoro nella produzione, nel giornalismo e nella comunicazione. Faccio anche documentari: l'ultimo era sugli Hezbollah. Ho compiuto studi di Legge e ho un master in informazione e comunicazione, e stavo preparando una laurea specialistica in Scienze Politiche. Ora i miei progetti sono affondati. Mi sono ripresa e lavoro adesso come traduttrice e coordinatrice con i reporter della guerra del Libano. Vado con loro là dove la morte è passata, e tento, se possibile, di far loro conoscere la realtà «reale» del Libano, la sua complessità e, soprattutto, la sua differenza.... La paura non concerne solo il quotidiano, ma ancor più i giorni futuri, la parola giusta sarebbe «inquietudine». È la nebbia, è l'amarezza. Noi avevamo tante speranze... Vedevo il mondo in grande, ora non lo vedo più. ... Voi non potete sapere ciò che si trama dietro le quinte della guerra... quale odio e quale violenza promani da parte dei nostri vicini israeliani... È indescrivibile... Le mie speranze...! Ne ho ancora, e su diversi piani, specialmente quello di ricuperare il mio diritto di sperare. Mi guadagnavo da vivere facendo sognare la gente con grandi produzioni, ora la guadagno mostrando il sangue che scorre... Tutto ciò nel volgere di tre settimane... La mia speranza, adesso, qual è? Una scossa che faccia uscire il mondo dal suo coma».
Così mi scrive dal Libano del Nord, per sua fortuna, lontana, per ora, dalle zone colpite dagli attacchi israeliani. Sanaa, così si chiama, si dichiara scandalizzata dall'accusa di antisemitismo che viene mossa da un potente apparato mediatico a chi esprima condanna della politica israeliana. Io pure, aggiunge, sono «semita». Ammesso che ciò possa significare qualcosa.
Già, proprio qui è il punto su cui occorre fermarsi, e prima di tutti sono tenuti a farlo coloro che fanno parte della comunità degli uomini e donne di cultura; poi la comunità politica; e infine la gente comune, il cui cervello non sia ottuso dall'imbonimento giornalistico e dal chiacchiericcio opinionistico, nel quale tutti concordano sulla necessità della «sicurezza» di Israele, che passa davanti a tutto, sui cadaveri dei bambini libanesi - la strage di Cana, si sa, non è la prima, non sarà l'ultima -, come i tank con la stella di David.
Il punto è che è giunto il momento di dichiarare di non voler più soggiacere al ricatto della Shoah, in nome del quale si sono giustificati pulizia etnica ai danni dei palestinesi, una politica aggressiva verso tutti i vicini mediorientali, un'arroganza politica che tiene in scacco le Nazioni Unite e, troppo spesso, è solo la trasposizione delle esigenze imperiali dell'amministrazione statunitense, anche se la logica è quella dell'apprendista stregone. E oggi Israele, in mano a un ceto politico di incompetenti pericolosi, riesce a tirare la corda al suo alleato-padrone: Condoleeza Rice appare più ragionevole dei governanti israeliani, ormai irretiti da una logica di terrore che traduce impotenza. Che cosa dobbiamo ancora aspettare per fermare questa aggressione devastante, inaccettabile, crudele? Che cosa la famosa «comunità internazionale», deve ancora subire da parte di Washington e dei suoi alleati satelliti, a cominciare dalla Gran Bretagna? Quando il mondo si ridesterà dal suo coma, insomma?
Non lo so, e non sono in grado fare quasi nulla in tal senso, ma non posso tacere. Non accetto più il ricatto da parte di una minoranza di arroganti che pretende di impartire lezioni, combinando uno scorretto uso della tragedia della storia con un disinvolto ricorso alla violenza, in spregio di ogni legalità internazionale. Perché l'atomica iraniana (che non esiste) sarebbe «cattiva» e quella israeliana (che esiste, contro una precisa risoluzione dell'Onu) «buona»? Perché l'Europa ha accettato le pressioni israelo-statunitensi per imporre sanzioni a quel moncherino di stato palestinese in nuce che sono i Territori? Forse perché in libere elezioni ha vinto Hamas? La democrazia va bene soltanto quando porta al potere quelli che piacciono a noi? Perché cristiani ortodossi, copti, cattolici, islamici sunniti e sciiti debbono subire l'annessione unilaterale di Gerusalemme? Perché accettare che un'antichissima città, a tutti sacra, culla di tante civiltà e fedi, sia dichiarata «capitale unica, eterna e indivisibile» dello stato di Israele? Perché dobbiamo chinare la testa davanti a un'opera diabolica che fa impallidire lo spettro del Muro di Berlino, l'altro Muro, quello edificato nei Territori? Perché i palestinesi debbono accettare di essere cittadini dimidiati, vedere strangolata la loro economia, bloccati i loro traffici, spezzate le loro famiglie, da check-points invasivi, in mano a soldati aggressivi? Perché non vogliamo vedere che le vittime di una delle più mostruose tragedie della storia - il campo di sterminio nazista, e la fabbrica di morte che esso ha «scientificamente» rappresentato - si stanno trasformando in carnefici? Auschwitz non deve essere banalizzata e strumentalizzata per giustificare stragi, aggressioni, pulizie etniche, muri, violenze, illegalità: atti terribili, a cui nella nostra passiva accettazione della quotidianità, ci siamo abituati.
Ma come sottrarsi all'infamante accusa? «Antisemita!». Ebbene, credo che non si debba avere paura di quest'ingiuria. Non dobbiamo: siamo in tanti ad aver dedicato energie, lezioni, articoli, saggi, interi volumi a combattere ogni forma di razzismo, e in specie il moderno antisemitismo politico che dalla Francia e dalla Germania del tardo Ottocento conduce a Hitler e Mussolini? Per la stessa ragione per cui un intellettuale libero, che si sia schierato contro le «nuove guerre», dal Golfo in avanti, non deve preoccuparsi di essere additato come fiancheggiatore dei «terroristi», se scrive che quella in Iraq è una guerra assurda, combattuta per meri interessi di cricche affaristiche, e che produce infinitamente più danni, dolore e morte di quanti si dichiarava di voler impedire. Per la medesima ragione per cui abbiamo abbiamo parenti, amici, fidanzate, coniugi ebrei, maghrebini, iraniani, nigeriani, viaggiamo in quei paesi, leggiamo la loro letteratura, studiamo la loro storia... L'intellettuale è cittadino del mondo, ossia della ragione, strumento per arrivare alla verità, insieme a tutti coloro che si riconoscono sotto le stesse bandiere, che non sono le bandiere dell'appartenenza e dello schieramento, ma quelle dell'analisi e della comprensione. Non lasciamo cadere nel vuoto il grido di dolore di Sanaa. La quale dichiara di sentirsi, lei e tutti gli abitanti della Terra dei cedri, null'altro che «zanzare»: di cui non si preoccupano i carri armati israeliani, nel loro fatale incedere; né ci preoccupiamo noi, che leggiamo i giornali, distrattamente, o gettiamo un orecchio alla radio, o un occhio alla televisione, con i messaggi di morte che ne giungono ora dopo ora. Eppure, una piccola, pungente zanzara può ridestarci dal letargo. Svegliamoci, dunque! E gridiamo la nostra indignazione: forse spiacerà a tanti, ma potrà aprire una breccia nel conformismo, e dare un aiuto a chi alla verità vuole davvero avvicinarsi.
Le mostruose tesi di D'Orsi suscitano un soprassalto di senso critico anche in Dominijanni, dalla quale riportiamo l'intervento Ribaltare la Shoah? , pubblicato dal MANIFESTO del 9 agosto 2006:
Sottrarsi al ricatto della Shoah e dare voce a un grido liberatorio contro la politica di Israele: sul manifesto del 3 agosto e su Liberazione del 4 Angelo d'Orsi propone questa sorta di «programma minimo» per la sinistra - intellettuali, politici, giornali e comuni mortali in grado di sottrarsi al «chiacchiericcio opinionistico» che ci martella con la sicurezza di Israele e in nome della Shoah giustifica la sua aggressività in Medioriente, la sua pulizia etnica verso i palestinesi e la sua arroganza verso l'Onu. A costo di alimentare il chiacchiericcio, mi permetto di dissentire fermamente. Prima che sul merito, su una pratica intellettuale che perimetra la sinistra coi picchetti, gerarchizza intellettuali e senso comune, identifica verità e razionalità senza nulla apprendere dallo scacco della ragione in cui sulla questione mediorientale tutti, intellettuali e ordinary people, siamo presi e persi.
Sulla Shoah e sull'antisemitismo «scientifico» novecentesco che portò alla macchina dello sterminio di Hitler, molti intellettuali di sinistra, argomenta d'Orsi, hanno le carte in regola e le credenziali in ordine: energie, saggi, volumi dedicati a analizzare, condannare, combattere. Insomma: abbiamo dato. Basta questo per sentircene affrancati? Basta per decidere che siamo in un'altra epoca e in un mondo rovesciato, in cui «le vittime si sono trasformate in carnefici» e le energie, l'analisi, la denuncia e la condanna vanno spostati tutte e solo dall'altra parte? Tutte e solo, sottolineo. Perché è ovvio che su molti degli argomenti di d'Orsi siamo d'accordo: sull'aggressività e la cecità strategica della politica di Israele; sulla cecità politica della comunità israelitica italiana; sull'uso a dir poco strumentale della Shoah da parte della destra e dei giornali di destra (e non solo) italiani. Ribaltando lo schema retorico di d'Orsi verrebbe però da dire: non abbiamo già denunciato più e più volte tutto questo su questo giornale (e altrove)? Non abbiamo anche qui le carte in regola e le credenziali in ordine? E dunque in che dovrebbe consistere quell'appello a sottrarsi al ricatto della Shoah che d'Orsi ci rivolge, e da quale spostamento dovrebbe sgorgare quell'ulteriore grido d'indignazione che ci chiede di lanciare?
Temo che la chiave stia in quel presunto ribaltamento delle vittime in carnefici, che domanderebbe e autorizzerebbe il ribaltamento di cui sopra dell'epoca, del mondo, delle ragioni e dei torti. Con due conseguenze nefaste. La prima è lo schiacciamento - antisemita e antidemocratico - del popolo ebreo sul governo israeliano, schiacciamento speculare all'integralismo che d'Orsi denuncia nello stato di Israele. La seconda è la valutazione delle poste in gioco in Medioriente che ne consegue. Se le vittime si sono trasformate in carnefici, il conto è facile: tutti i torti a Israele, tutte le ragioni ai palestinesi e al Libano. Ma è così? Davvero, fermo restando il giudizio sulla politica israeliana, non c'è anche il problema del riconoscimento e della sicurezza di Israele? Davvero, fermo restando il giudizio sulla deriva integralista di Israele, non c'è anche il problema del fondamentalismo di Hamas e Hezbollah? Davvero su Hamas e Hezbollah possiamo farci scudo della religione democratica e della fede nella legittimazione elettorale, o non è piuttosto la fede democratica a essere scossa dalla legittimazione elettorale di Hamas e Hezbollah? Davvero l'11 settembre e la guerra in Iraq non ci obbligano a guardare al Medioriente con lenti modificate? La tragedia mediorientale non sta in un ribaltamento dei torti e delle ragioni: sta in una loro, spesso indecidibile, complicazione. Lo scacco della ragione sta qui, e brucia le migliori carte e le migliori credenziali.
Qual è l'eredità della Shoah in gioco nella discussione pubblica sul Medioriente, e per chi gioca? L'ha scritto domenica Sveva Haertter su queste pagine: la Shoah ha colpito il popolo ebraico ma pesa su tutta l'umanità. E' un crimine dell'umanità contro l'umanità: nella sua memoria non ne va solo del destino delle sue vittime, ma della colpa europea. Non ne va solo dell'antisemitismo novecentesco, ma di qualsivoglia biopolitica che faccia tutt'uno di una razza, una religione e uno stato. Non abbiamo svoltato pagina in un hegeliano e razionale ribaltamento del secolo e delle ragioni: quella pagina si sta tragicamente e irrazionalmente riaffacciando, per fortuna senza la macchina hitleriana dello sterminio, per disgrazia in più punti del mondo e su tutti i fronti del micro-mondo mediorientale. La sua memoria non parla a una parte o all'altra: parla a ciascuna e a noi spettatori, o tace per tutti.
Più ambiguo l'editoriale di Rossana Rossanda, basato sulla completa rimozione di una tradizione di antisemitismo di sinistra (socialista, marxista , anarchico , sovietico ecc).
Ovviamente nessuno, al quotidiano comunista mette in dubbio che Israele abbia ogni colpa nell'attuale crisi mediorientale.
La Rossanda però aggiunge a questa abituale distorsione della realtà il suo personale sprezzo del ridicolo.
Scrive di non temere per l'esistenza di Israele. Se fosse in pericolo tutti "loro" la difenderebbero "a ogni costo".
Rossana Rossanda non si accorta, evidentemente, che un dittatore fanatico, intenzionato a dotarsi di armi nucleare, minaccia ogni giorno, verbalmente, l'esistenza di Israele, nello stesso momento in cui arma l'aggressione di Hezbollah e di Hamas.
Senza che lei e i suoi compagni si decidano a difenderla Israele, non diciamo in modo risolutivo a prezzo dellle loro vite, ma nemmeno al costo, più modesto, di qualche parola esca dal coro della riprovazione a senso unico, dell'ineggiamento alla "resistenza" araba e palestinese, della ripetizione sempre più palesemente inadeguata alla realtà di vecchi schemi ideologici e di vecchie narrazionidi epiche e mitologie rivoluzionarie e terzomondiste.
Intanto, per fortuna sua, a difendere Israele ci pensa Israele. A noi la scelta se appoggiarlo o condannarlo.
Ecco il testo:
Condivido la collera di Angelo d'Orsi verso chi accusa di antisemitismo ogni critica alle scelte del governo israeliano. Non succede nei confronti di nessun altro paese. Non era neanche mai successo prima degli anni '70. Né l'accusa ci viene da parte di chi ha sofferto di persona delle leggi razziali e delle deportazioni, se è scampato ai campi di sterminio. Penso che ci sia voluta la guerra dei sei giorni e un vero e proprio cambio generazionale, più ancora che qualche scivolata dell'estrema sinistra degli anni '70, nello scordare la tragica percezione di sé da parte degli ebrei; sono episodi che si contano sulle dita d'una mano. Mentre non è accettabile il sospetto che alcuni nuovi esponenti della comunità ebraica gettano di continuo su ogni parola detta dalla sinistra che non approva né l'occupazione dei territori, né l'unilateralismo dei ritiri e dei muri, né la guerra al Libano, mentre aprono con entusiasmo le porte agli eredi della destra, fascisti inclusi.
D'Orsi ha ragione anche nell'infastidirsi del silenzio con il quale lasciamo passare queste accuse, come se avessimo da vergognarci di qualcosa, noi, i soli che si sono battuti assieme agli ebrei. Se il movimento operaio e comunista è stato alle origini antisionista lo è stato per motivi opposti alla discriminazione, perché riteneva ogni questione nazionale secondaria rispetto al battere il capitale. Ma così pensavano anche Rosa Luxemburg e ai suoi amici tedeschi, i molti ebrei del Bund polacco, quelli che facevano parte del gruppo dirigente leninista e perfino staliniano fino al dopoguerra. Antisionismo e antisemitismo non sono stati affatto la stessa cosa. Quanto all'Italia, se le leggi razziali passarono senza vere proteste degli antifascisti, era perché non si potevano esprimere. L'antifascismo poi unificò tutti; la mia generazione è venuta su, se mai, con la ripugnanza a distinguere fra religioni ed etnie, la rivalutazione delle differenze le è estranea, il che le viene, se mai, rimproverato. Ha colpito quelli come me il bisogno di tornare alle proprie radici dopo la sconfitta del 1968, che era stato forse approssimativamente universalista. Accresciuto in molti giovani dalla percezione di essere sopravvissuti al destino dei loro genitori o nonni . Per chi andava in cerca delle radici c'era nell'ebraismo un grande «in più», la scoperta d'una tradizione sapienziale che dette a molti una nuova dimensione del vivere.
Risalgo negli anni perché se l'accusa di antisemitismo è tutto sommato stupida, mi sembra oggi tessuta in una vicenda assai più grande e sofferente che non siano gli strepiti d'un Giuliano Ferrara. C'è nella coscienza di Israele il senso d'un eterno essere in pericolo cui non sa rispondere che con la forza delle armi, la guerra preventiva e la protezione degli Stati Uniti, compiendo un errore fatale verso i paesi che la circondano. Angelo d'Orsi parla della lettera d'una giovane libanese, io ho sotto gli occhi quasi con le stesse parole nell'email d'una giovane e a me assai cara israeliana, e tutte e due hanno paura l'una del paese dell'altra. Sono giovani, nate là, e poco sanno di come si sia arrivati a questa ultima tragedia. La libanese ha sperimentato la crudele invasione israeliana, e poi l'occupazione siriana ed è terrorizzata dall'offensiva di Israele condotta fuori di ogni regola di guerra, con un'enormità di distruzioni e vittime civili, che viene detta contro gli Hezbollah e colpisce lei fra i libanesi, e non viene fermata da nessuno.
La israeliana ha alle spalle secoli di negazioni e sofferenze, arrivate fino alla Shoah, ha imparato a scuola che gli arabi che circondano il suo paese non ne hanno mai accettato l'esistenza, dall'Iran con Israele confina ed è infinitamente più grande, Ahmadjnejad contiua a ripeterglielo, alcuni suoi amici sono morti per l'attacco dei kamikaze palestinesi e lei ha contato nell'ultimo mese i missili di Hezbollah. Nessuna delle due donne riesce a figurarsi l'altra. Sono terrorizzate. Lo stesso pensano in Israele gli amici di Peace Now e uomini che ammiriamo come Yehoshua, Grossmann e perfino Amos Oz: pensano che «stavolta la guerra è giusta» - anche se gli pare che come «ammonimento al popolo libanese basti». Intanto quella del 1967 era finita in sei giorni, mentre adesso gli Hezbollah tengono testa da oltre tre settimane a uno degli eserciti più preparati del mondo. Va a spiegare la spirale degli avvenimenti e il meccanismo delle rappresaglie all'una e all'altra. Va a far capire alla mia giovane amica israeliana che Israele occupa la Palestina da quasi quaranta anni e ha fatto dei giovani di quel popolo, il più colto e laico del Medioriente, che non sono mai stati un giorno liberi, seguaci di un fondamentalismo che ne esprime la collera. Va a farle capire che anche l'arabismo è ormai vittima di un fondamentalismo che apparteneva solo a minuscoli gruppi, prima che la politica del suo paese in Palestina, e poi quella americana in Afganistan e poi l'invasione dell'Afganistan e poi dell'Iraq lo moltiplicasse, così come l'attuale guerra moltiplicherà gli Hezbollah. Va a farle capire che questi prima del 1982 non esistevano. Né i kamikaze durante la prima Intifada. Va a persuaderla che l'accettazione da parte israeliana di uno stato palestinese avrebbe da decenni staccato la spina che avvelena il Medio Oriente, e fatto dimenticare che Israele vi è stato installato a forza dalle potenze occidentali per garantire in qualche modo gli ebrei da una nuova Shoah di cui noi, l'Europa, eravamo soli colpevoli. Installato in un mondo che della Shoah nulla era tenuto a sapere e tanto meno di una terra promessa qualche migliaio di anni fa a sconosciuti da un Dio sconosciuto. E dalla quale venivano cacciati coloro che per duemila anni vi avevano lavorato. Va a farle capire oggi che la giovane Israele doveva vincere la diffidenza dei vicini, o almeno dopo la guerra dei sei giorni stare a quelle risoluzioni dell'Onu che adesso invoca contro i libanesi.
Qualche settimana fa Luciana Castellina scriveva su queste colonne: Io ho paura per Israele. Io non ho paura per la sua esistenza, noi tutti la difenderemmo a ogni costo. Ho paura delle sofferenze che Israele impone e si impone in una spirale di errori. Mi fa impressione il colono che dice rassegnato: «Ebbene, se Israele deve vivere grazie alla spada, viva con la spada», ma mi riempie di collera Claude Lanzmann, quello del film sulla Shoah, che protesta su Le Monde perché Israele è stata accusata di esagerare in Libano. Come, Israele non esagera, non può esagerare, il sangue fatto versare agli ebrei non sarà mai abbastanza compensato da altro sangue - gli ebrei sono stati colpiti in modo che il loro paese ha tutti i diritti e nessun dovere verso gli altri. Sono parole dementi come quelle del presidente iraniano, il reciproco l'una dell'altra. Ma il premier Olmert le sta praticando. E come Sharon non si accorge non solo dell'odio che si tira addosso, ma dell'errore strategico che fa. Rabin è stato ammazzato e dimenticato.
Di questa sciagurata spirale l'agitazione di parte della comunità ebraica italiana è un frammento derisorio. Ma è vero - ha ragione d'Orsi - che dovremmo smettere di stare in silenzio perché la matassa è complicata e ancora recente la perdita di innocenza del nostro paese. La posta in gioco è troppo alta, il pericolo troppo bruciante, il ricatto troppo stupido. Bisogna dirlo alto e forte che il governo di Israele sbaglia. Che si deve fermare. Che l'amministrazione americana è il suo più pericoloso alleato e consigliere. Che la comunità internazionale è stata finora troppo corriva. E che se c'è una discontinuità che urge per il centrosinistra al governo è questa. Se ne faccia carico.
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