Sotto l'ironico titolo "Cessate il fuoco", pubblica opportunamente questo eloquente passaggio del programma costitutivo di Hezbollah:
“La nostra lotta finirà soltanto quando quell’entità [Israele, ndr] sarà cancellata. Non riconosciamo alcun trattato, alcun cessate il fuoco e alcun accordo di pace, sia in forma separata sia multilaterale. […] Condanniamo con vigore tutti i piani di negoziato con Israele, e consideriamo tutti i negoziatori come nemici, perché tali negoziati non sono altro che il riconoscimento dell’entità sionista”. programma costitutivo di Hezbollah al Safir, 16 febbraio 1985
Carlo Panella spiega che l'errore di Massimo D'Alema, che non ascolta il socialista Shimon Peres su Nasrallah e Ahmadinejad, è simile a quello di Nixon che nel 56 non asclotò il socialista Mollet su Nasser:
Massimo D’Alema, senza saperlo, segue le orme di Richard Nixon nel 1956 e come l’allora vicepresidente degli Usa, non comprende Israele e si rifiuta di dare retta a un leader socialista che invece ha capito tutto. Nixon – e Eisenhower – non si fidarono di Guy Mollet, D’Alema non si fida – solo lui sa perché – di Shimon Peres. Mezzo secolo fa, dunque, il 31 luglio ’56, il segretario di stato John Foster Dulles, in raccordo con Nixon, sollecitò il premier socialista francese Mollet, a un definitivo scambio d’analisi sulla crisi di Suez, presso l’ambasciata americana di Parigi. Ma le tesi francesi, riferite all’ambasciatore Clarence Douglas Dillon, furono rigettate da Washington che da quel momento fraintese quanto accadeva in medio oriente e sbagliò in buona parte tattiche e strategie. Mollet, infatti, sosteneva che sul Canale di Suez non si giocava solo uno scontro col nazionalismo di Nasser, ma un inedito e drammatico “conflitto di sistema” tra il blocco delle democrazie e un nuovo totalitarismo. “Leggete ‘La filosofia della Rivoluzione’ di Nasser – disse Mollet a Dillon – e vi accorgerete che è peggio del Mein Kampf”. Ma gli Usa non diedero retta a Mollet e si comportarono in quella crisi come se l’oggetto del contendere fosse solo il diritto dell’Egitto di decidere chi poteva passare o no per il Canale in violazione palese della convenzione di Costantinopoli, che garantiva il libero accesso universale agli stretti (questo era il fulcro dello scontro, non la nazionalizzazione del Canale, che era già stata concordata). In realtà, Nasser intendeva gestire il Canale in maniera jihadista, ergendosi ad arbitro tra le nazioni, sulla base del diritto che gli dava la sua umma, decidendo quali nazioni potevano passare per Suez e quali, “nemiche dell’islam”, a partire da Israele, non avevano questo diritto. Da quel tragico fraintendimento americano – scambiare una guerra per imporre una scala di valori totalitaria, con un normale conflitto tra nazioni – seguirono il trionfo di un Nasser già sconfitto e umiliato da Dayan e Sharon e 50 anni di rovesci per l’occidente, accompagnati dalle surreali parole pronunciate da Richard Nixon il 2 novembre 1956, subito dopo la sconfitta della più che giusta guerra anglo-franco-israeliana: “Per la prima volta nella nostra storia abbiamo dimostrato l’indipendenza della nostra politica verso Asia e Africa nei confronti della Francia e della Gran Bretagna; le loro politiche ci sembrano riflettere la tradizione coloniale. Tale dichiarazione d’indipendenza ha avuto un effetto elettrizzante in tutto il mondo”. L’effetto “elettrizzante” fu il radicamento del jihadismo prima nella versione militaresca di Nasser, Saddam, Assad e Arafat e poi in quella fondamentalista di Khomeini e dei salafiti wahabiti. Come allora Nixon, D’Alema, sbaglia analisi perché non fa sua quella del laburista Peres (identica a quella di Mollet), con la sola scusante dell’influenza di una scuola diplomatica europea che segue quella americana solo negli errori. D’Alema sostiene che il “processo di stabilizzazione deve coinvolgere Siria e Iran” e sbaglia analisi perché dà prova di ritenere che i due paesi si muovano solo in un’ottica di potenza regionale; oltre che distratto, si mostra anche sordo, perché Iran, Siria e Hezbollah dicono a gran voce che il loro intento non è la loro potenza regionale, ma esportare la rivoluzione sciita, il cui primo passo è distruggere Israele. D’Alema non sa e non vuole sapere che “umma” non si traduce con “nazione”, ma con “comunità islamica” e che Siria e Iran combattono per una sharia, come aveva intuito Mollet, che regola una società totalitaria, con punti di contatto col nazismo: Führerprinzip, diritti dimezzati della donna, dittatura della fede unica e stato etico, incubo dell’apostasia, il tutto cementato dall’odio per gli ebrei. D’Alema ripete che Hezbollah non è un piccolo gruppo di terroristi, ma che ha parlamentari e ministri, e da qui discende il rifiuto della scelta militarista di Israele. Non si rende conto che il mondo ha di fronte, di nuovo, il problema del “1933”, che a Gaza, in Libano e in Iran si muove in armi un movimento utopista totalitario, antisemita e feroce, che gode di un consenso di massa radicato. La soluzione politica viene solo dopo il disarmo militare di queste forze. Atomica compresa.
Di seguito, un analisi di Carlo Pelanda sul ruolo dell'Iran ( e su quello, dannoso, di chi lo accredita come interlocutore "per la pace"):
Nei think tank fioccano le simulazioni. In quello frequentato da questa rubrica si tenta di capire quale sarà la reazione dell’Iran all’offensiva israeliana contro Hezbollah. Teheran è rimasta sorpresa dal fatto che Israele, pur incerta inizialmente, abbia poi deciso di proiettare la massima potenza possibile, calibrata sull’eliminazione totale della capacità militare di Hezbollah. E dopo due settimane di operazioni si prospetta uno scenario in cui il gruppo filoiraniano sciita perderà il proprio territorio e le migliori unità combattenti, quindi anche il potere nel sistema politico libanese di cui è partito al governo. L’Onu, indipendentemente dal lavorio sulle risoluzioni, sta lasciando parecchio tempo a Israele per compiere la bonifica. Inoltre sta emergendo un linguaggio di intervento internazionale che alla fine potrebbe renderla definitiva. Anche perché è risultato evidente che i regimi arabi sunniti, stando in silenzio, abbiano di fatto appoggiato in funzione antiraniana l’azione di Israele. Ciò prepara una soluzione di eliminazione dell’influenza iraniana sul Libano. Sul momento Teheran ha provato a rafforzare le milizie Hezbollah per indurle a tentare di resistere sul campo a Israele. Ma, pur queste combattendo bene, è evidente che ciò non cambierà l’esito. Potrà l’Iran accettare la sconfitta? Dai primi segnali pare che non lo vorrà fare. Teheran si è dichiarata pronta a usare l’arma del petrolio se continuerà la pressione contro il suo programma nucleare, ma intendendo la questione libanese. Ha costretto la Siria a dirsi pronta a far guerra a Israele. Ma queste appaiono mosse nominalistiche per darsi importanza. Quelle di sostanza? Teheran sta tentando di condizionare il governo libanese, ricattandolo con la minaccia di una guerra civile, ad agire secondo modi utili al regime di Ahmadinejad. E sta cercando qualche governo che dica quanto sia essenziale dialogare con l’Iran per risolvere la crisi, finora ottenendo soltanto il sostegno di Prodi, probabilmente a fronte di un ricatto contro l’Eni e/o di sostanziosi incentivi. Tale modello di comportamento fa pensare che Teheran voglia tentare di trasformare il conflitto Israele/Hezbollah in uno Israele/Libano, costringere i paesi arabi a scendere in campo a difesa di uno di loro e la comunità internazionale ad accettare l’Iran al tavolo negoziale per le soluzioni, ritardando nel frattempo l’intervento internazionale per costringere Israele a far la figura di occupante e ritirando metà degli Hezbollah per salvarli e poi riutilizzarli. Per non cadere in trappola Israele deve accelerare e il segretario di stato Condoleezza Rice farsi vedere, più seriamente, a Damasco e a Beirut.
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