La pace immaginaria di Vittorio Zucconi dovrebbe imporla l'America. Ma a Israele, non a chi l'aggredisce
Testata: La Repubblica Data: 08 agosto 2006 Pagina: 1 Autore: Vittorio Zucconi Titolo: «Il vuoto americano in Medio Oriente»
Da La REPUBBLICA dell'8 agosto 2006 un articolo di Vittorio Zucconi m, secondo il quale gli Stati Uniti, riguadagnata "l'equidistanza" tra Israele ed Hezbollah dovrebbero tornare al ruolo che ebbero nel favorire la pace tra Israele ed Egitto. Un ragionamento che trascura un "piccolo" particolare. Sadat voleva da Israele concessioni territoriali, Hezbollah e Iran vogliono solo che Israele sparisca dalla faccia della terra. E appartengono al medesimo fronte della jihad di cui faceva parte l'assassino del presidente egiziano. Israele non ha mai avuto bisogno di costrizioni americane per fare la pace con chi era disposto a farla. Lo provano i trattati con Egitto e Giordania. Al contrario, il problema è stato e rimane l'esistenza di un fronte del rifiuto della cui esistenza in troppi, come Zucconi, non vogliono prendere atto. Ecco il testo:
Il 20 ottobre del 1973, quando le avanguardie di Ariel Sharon attraversarono il Canale di Suez e l´esercito di Sadat fu sull´orlo dell´annientamento, Nixon e Kissinger imposero l´alt all´avanzata israeliana, attraverso un ultimatum delle Nazioni Unite e forti pressioni segrete su Tel Aviv. Cinque anni dopo, Egitto e Israele firmarono quella pace di Camp David che avrebbe garantito 40 anni di una pace reale tra lo stato d´Israele e la principale nazione araba, una pace che oggi l´America di Bush, avendo rinunciato al proprio ruolo di onesto mediatore e di potente paciere tra la parti in guerra, per inseguire la chimera del «cambio di regime» imposto con la forza, non è più in grado di imporre. Ci vorrebbe l´America per fare la pace in Medio Oriente, ma l´America che fa la pace, non c´è più. È morta l´11 settembre del 2001. Il terribile paradosso che questa «micro guerra» tra Israele e Hezbollah ha esposto è che mai gli Stati Uniti sono stati tanto presenti in prima persona in Medio Oriente e mai sono stati tanto irrilevanti sul piano della diplomazia e della credibilità. Dire che «la violenza deve cessare» ma che «le radici del conflitto devono essere estirpate» come ha fatto ieri Bush dalle sue ferie texane suona alle orecchie del mondo arabo, oltre che banalmente tardivo dopo centinaia di vittime e ormai quasi un milione di sfollati, come un nuovo «endorsement», una nuova investitura alle operazioni israeliane. Dunque un´autocondanna alla non credibilità, agli occhi di quel mondo già ferocemente ostile e diffidente. La trappola che avevamo temuto si sarebbe aperta sotto i piedi di George Bush, quando decise di imboccare frettolosamente la strada di un´invasione dell´Iraq senza ascoltare chi avvertiva che la guerra sarebbe cominciata soltanto dopo la conquista di Bagdad, si è spalancata in questa estate di reciproche stragi alla frontiera tra il Libano e Israele. E la diplomazia americana si dibatte dentro la gabbia che essa stessa si è costruita attorno. Dopo avere teorizzato l´uso della forza tradizionale, di armate, carri armati, bombardieri e missili per contrastare il terrorismo cercando nei regimi arabi quel «centro di gravità» da conquistare secondo la dottrina militare classica, difficilmente Washington avrebbe potuto sconfessare la reazione del governo Olmert alla minaccia posta da Hezbollah, infinitamente più concreta e imminente della immaginaria sfida di Saddam Hussein e dei suoi inesistenti arsenali. Se Israele dà al mondo, e soprattutto al mondo arabo, la sensazione di essere la coda che muove il cane, è perché la coda segue fedelmente le indicazioni del cane e il "big dog" americano ha perduto ormai il senso della direzione. Vaga tra la perenne ostilità ideologica per quelle Nazioni Unite che i bisbetici neocon alla Bolton, l´ambasciatore di Bush, considerano troppo europeo, troppo filo arabo, troppo anti israeliano e il bisogno di ritrovarlo per incanto credibile ed efficace, per aiutare Bush a fermare una guerra che Israele non può vincere, che Hezbollah non può perdere e che sta ingigantendo l´influenza e il prestigio dei «pazzi di Dio», mentre pretende di estirparli. Esattamente come nel 1973, quando l´attacco degli egiziani oltre il canale di Suez fu visto nel mondo arabo come un trionfo, ignorando la devastante controffensiva israeliana, così ancora una volta gli strateghi americani ignorano a loro rischio la psicologia di un mondo nel quale vincere significa sopravvivere e non perdere, e i gesti di sfida, le manifestazioni di orgoglio contro i Golia americani e «sionisti», valgono più di cento battaglie perdute secondo i manuali militari. Il senso di confusione, di ambiguità, di doppiezza che le iniziative pubbliche prese da Washington dopo l´incursione degli uomini di Nasrallah con la cattura di due soldati israeliani e la controspedizione punitiva di Tsahal, l´esercito di Tel Aviv, è l´esatta traduzione dello sbandamento politico di questa Casa Bianca. Il canto delle sirene della «guerra preventiva» che ora invocano la guerra all´Iran, come ha fatto il loro portavoce Bill Krystol sull´organo di casa, il Weekly Standard, secondo la follia del giocatore perdente che tenta di raddoppiare la posta per rifarsi, non risuona più in una capitale dove il grande stratega della guerra, Donald «Rummy» Rumsfeld è oggetto di pubblico ludibrio e di sempre più forti richieste di dimissioni appoggiate dagli ex alleati di ieri, come la senatrice Clinton, il grande referente della gang dei neocon dentro la Casa Bianca, il vice Presidente Cheney è scomparso dalla scena e muto da settimane e i generali, come sempre nel caso di sconfitte, sfogano in pubblico e in privato i loro mal di pancia e il loro rifiuto di pagare il conto della disfatta irachena. Ma alla vigilia di spaventevoli – per il partito al potere – elezioni legislative autunnali, dove la parola d´ordine per i candidati repubblicani è prendere le distanze da Bush per salvarsi la poltrona, questa amministrazione non può smentire troppo drasticamente se stessa, dopo avere mandato a morire quasi tremila soldati e speso almeno 250 miliardi di dollari, per consegnare la neonata democrazia irachena alla guerra civile «a bassa intensità», come vuole l´ultimo e disperato eufemismo. Intervenire in maniera scoperta per fermare i piani israeliani di controllo della «zona blu», della fascia di confine occupata dai lanciatori di katyushe, e «bonificare» con le armi il Sud Libano dagli Shia estremisti significherebbe sconfessare cinque anni di dottrina «anti terrore», di predicazione e di azione americana. «La tattica di Tsahal è tutta israeliana – ha detto l´ex comandante dei Marines, il generale Zinni, che in Medio Oriente aveva combattuto e lavorato e aveva tentato di mettere in guardia il Pentagono dal dopo Saddam – ma il "play book", il libro della strategia è tutto americano». Partorire adesso una risoluzione esecutiva del Consiglio di Sicurezza che salvi la faccia a Washington, intrappolata nella impossibile richiesta di risolvere il conflitto arabo-israeliano alla «radice», come dicono di volere Bush e Rice, che scuota il mito crescente del nuovo grande nemico del giorno, il leader di Hezbollah, che dia agli Israeliani il senso di non avere consumato vite di soldati e simpatie internazionali per tornare soltanto allo «status quo ante», è un´operazione che può riuscire soltanto se tutti i partecipanti, dal governo libanese a quello israeliano fingono di avere vinto e depongono i loro lanciagranate e i loro jet fino al prossimo, inevitabile scontro. Ma nessuna illusoria «forza di interposizione» e pezzo di carta cucito assieme dai nuovi e improvvisi «grandi amici» sotto il tetto del Palazzo di Vetro, Francia e Stati Uniti, che lavorano di conserva dopo essersi guardati in cagnesco, potrà mai riempire il vuoto che questi cinque anni di presidenza Bush hanno aperto nel cuore del conflitto medio orientale, il vuoto lasciato dagli Stati Uniti quando hanno rinunciato al ruolo di severo ma equo arbitro di una possibile pace, per cadere nella trappola del terrore e diventare giocatori in campo.