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La Repubblica Rassegna Stampa
07.08.2006 Guido Rampoldi replica a Ehud Olmert sul paragone Libano- Kossovo
ma i suoi argomenti non convincono, e la memoria lo inganna

Testata: La Repubblica
Data: 07 agosto 2006
Pagina: 1
Autore: Guido Rampoldi
Titolo: «Questa guerra non è il Kosovo»

Ehud Olmert contesta agli Stati europei, responsabili dal canto loro di morti civili nella guerra del Kossovo, il diritto di condannare Israele per i morti civili in Libano.
Guido Rampoldi su La REPUBBLICA del 7 agosto tenta una mal riuscita replica.
Trascura totalmente una fondamentale osservazione del premier israeliano: nella guerra attuale Israele, bersagliato dai razzi sparati cntro i suoi civili, si difende.La Serbia, al contrario, non aveva cero aggredito l'Unione Europea (Olmert, va comunque precisato, non contesta né la legittimità nè l'opportunità di una guerra volta  fermare una catastrofe umanitaria).
Il giornalista preferisce concentrasi su altri punti. Contesta il numero di morti indicato da Olmert e poi confronta il numero dei morti civili indicato dal governo libanese e quello della guerra contro la Serbia indicato da Human Rights Watch.
Nessuna delle due fonti è neutrale. Nel gabinetto di Beirut siedono ministri di Hezbollah, mentre Human Rights Watch ha teorizzato l'ingerenza umanitaria della quale l'intervento in Kossovo è stato un primo significativo esperimento.
Se Rampoldi avesse preso i suoi dati dal governo serbo e dalle stime delle forze di difesa israeliane è facile immaginare che le proporzioni sarebbero state sensibilmente diverse.
L'altra contestazione è che la guerra del Kossvo alla fine venne vinta dalle forze aeree della Nato, quella del Libano, a suo giudizio, Israele la starebbe perdendo.
Senza entrare nel merito della scarsa  plausibilità di quest'ultima affermazione, di fronte ai duri colpi subiti da Hezbollah, si deve rilevare che Rampoldi evidentemente non ricorda, o pensa che i suoi lettori non ricordino, lo svolgimento della guerra del Kossovo.
Anche allora i bombardamenti aerei tardavano a piegare Milosevic, venivano intensificati di settimana in setimamana mentre sempre più concreto si faceva lo spettro di un intervento di terra, addirittura di un'invasione della Serbia. Nè mancava la possibilità di un allargamento del conflitto, con la possibilità di un coinvolgimento della Russia.
Gli occidentali la guerra la vinsero perché continuarono la partita, a dispetto delle previsioni catastrofiche e di ipotesi di tregua che servivano solo a permettere a Milosevic di dichiararsi vincitore ai punti e di riprendere in seguito le sue aggressioni a danno dei popoli balcanici.
Esattamente lo scopo delle "tregue" proposte da Hezbollah che Rampoldi rimporvera a Israele di non aver accettato.
Ecco il testo dell'articolo:

 

Seccato dalle "prediche" che gli arrivano dall´Europa, Ehud Olmert è sbottato: con quale diritto gli europei pretendono di darci lezioni, ha dichiarato, quando durante la guerra del Kosovo ammazzarono diecimila civili serbi. Non sappiamo da quale fonti il premier israeliano ricavi quell´informazione, ma una serissima organizzazione americana per i diritti umani, Human Right Watch, valutò in cinquecento i civili uccisi dalla Nato durante undici settimane.
I civili libanesi morti in queste tre settimane e mezzo sarebbero settecento, secondo un calcolo che tiene conto soltanto dei corpi recuperati. Se la stima del governo di Beirut è esatta, dobbiamo ricavarne che le Forze armate israeliani uccidono per «danni collaterali» cinque volte più della Nato. Cinque volte: non è poco. Certo le due guerre non sono identiche: però si somigliano. Hezbollah, dice il governo Olmert, si fa scudo della popolazione. Ma anche l´esercito serbo dislocava comandi e armi pesanti nei centri abitati. Di sicuro le bombe della Nato si dimostrarono più "intelligenti", e quando non lo furono restò il sospetto che l´aviazione statunitense avesse condotto attacchi deliberati (in particolare il bombardamento dell´ambasciata cinese). Ma la differenza fondamentale tra la guerra dell´Alleanza atlantica e la guerra israeliana è che la prima riuscì, sia pure con ambiguità infinite e ad un prezzo comunque spaventoso in vite umane. Milosevic si arrese, la Nato entrò in Kosovo, lo scontro tra serbi e albanesi non dilagò.
Invece la guerra del Libano finora è stata per Israele un insuccesso militare e un disastro politico. Anche per questo, forse, non può finire adesso. «Dobbiamo ancora conseguire obiettivi militari», annunciava ieri il ministro della Giustizia Haim Ramon. Ma quali? Quale sia il concreto obiettivo di Israele è una domanda che tormenta i libanesi fin dall´inizio della guerra. Chi cerchi una risposta può partire dal giorno di luglio in cui Hezbollah diede fuoco alle polveri. Poche ore dopo il rapimento dei due soldati un giornalista chiese al ministro degli Esteri israeliano, Tsipi Livni, come il suo governo avrebbe ottenuto la liberazione degli ostaggi. La Livni rispose così: «Bombarderemo l´aeroporto di Beirut».
In apparenza non v´era alcuna relazione tra la milizia d´un partito libanese e uno scalo civile. Ma quella notte i caccia israeliani colpirono effettivamente i depositi di carburante dell´aeroporto di Beirut e le strade d´accesso all´aerostazione. Nei giorni successivi fu chiaro che Israele conduceva una doppia guerra: da una parte martellava miliziani e sedi politiche di Hezbollah, dall´altra colpiva obiettivi civili di valenza strategica perlomeno discutibile, quali fabbriche (trenta, secondo l´Associazione degli industriali), ponti, centrali elettriche, centrali idriche e postazioni dell´esercito libanese, malgrado quello facesse di tutto per dimostrarsi inattivo. In sostanza Israele conduceva la più classica delle guerre aeree, il cui scopo è indebolire la determinazione d´un governo fino a piegarne la volontà. In questo caso si voleva che il governo libanese cedesse, e per sottrarre alle bombe l´apparato produttivo, e la gente ai "danni collaterali", ordinasse all´esercito di disarmare Hezbollah, o quantomeno ottenesse la liberazione dei due ostaggi.
All´ottavo giorno di guerra l´aviazione israeliana aveva esaurito la lista degli obiettivi, afferma un attendibile centro studi statunitense, l´Icg. E la guerra aerea era di fatto fallita. Il governo libanese non aveva obbedito al diktat israeliano, non fosse altro perché non aveva i mezzi per disarmare Hezbollah. Quest´ultimo non era stato annichilito e la sua missilistica pareva inesauribile. A quel punto il conflitto ha virato. È cominciata l´invasione da sud e l´aviazione s´è concentrata sulle zone sciite. A Beirut ha bombardato soprattutto un quadrilatero di tre chilometri per lato dove Hezbollah aveva i suoi uffici e il suo quartier generale: palazzi di venti piani sono stati ridotti al livello ground zero, un edificio su cinque è stato danneggiato.
Quando però la guerra di terra s´è dimostrata inconcludente, la guerra aerea è tornata al suo doppio binario. Negli ultimi giorni Israele ha colpito di nuovo le case del quartiere sciita, ma anche obiettivi civili in zone non sciite, perfino duecento pescherecci nel porto di Beirut. Ed ha lasciato cadere l´offerta del capo di Hezbollah, Nasrallah: non tiriamo più i nostri razzi se voi cessate i vostri bombardamenti.
Di questa strategia zigzagante si danno varie letture. Chi ama le geometrie grandiose, le "grand strategies" che appassionano neocons e praticoni della geopolitica, vede un piano israelo-americano per sfasciare buona parte del Medio Oriente e da quel caos creativo inventare un nuovo ordine, così come abbozzato già nel 1996 da uno studio prodotto dalla destra americana più esuberante, "A clean break". Con maggiori indizi alcuni intuiscono la smodata ambizione (soprattutto americana) di saldare un´alleanza regionale anti-iraniana e anti-sciita tra Israele, l´Occidente e i sunniti moderati. Questi progetti, se mai sono stati coltivati, oggi appaiono totalmente velleitari. Resta la volontà israeliana di disarmare Hezbollah: ma quanto più la guerra giova al prestigio della milizia sciita nel Libano come nel mondo arabo, tanto più sembra improbabile che quella acconsenta ad un compromesso a condizioni accettabili da Israele. Così non pochi osservatori libanesi sono convinti che Israele adesso voglia un Libano ridotto in parte ad una rovina, in parte ad un accampamento di sfollati, perché questo aumenterebbe le probabilità che il Paese imploda in una mischia etnica. In quel caso Israele potrebbe aiutare cristiani e sunniti a liquidare Hezbollah.
Con una tattica analoga nel 1982 riuscì a espellere i palestinesi dell´Olp dal Libano. Ma è perlomeno dubbio che il metodo-Sharon funzionerebbe 24 anni dopo con un movimento libanese, per giunta circonfuso da un´aura patriottica. È probabile che il vertice israeliano non abbia un progetto definito. Entrato in questa conflitto senza un´idea chiara tuttora mancherebbe d´una visione. Ma ora deve scegliere. Fermare la guerra aerea vuol dire accettare uno stallo che equivale ad una sconfitta, almeno agli occhi dell´intero arco del radicalismo islamico. Ma prolungarla, scivolando verso un´escalation inevitabile, se da una parte potrebbe offrire la possibilità d´una rimonta, dall´altra comporterebbe pericoli ben maggiori, oltre che solitudine e malessere. Di sicuro i veri amici di Israele faranno bene a seccare ancora Ehud Olmert con le loro prediche. Settecento morti, venti volte i civili uccisi dall´infame missilistica di Hezbollah, sono un´enormità. Di più: rischiano di diventare un disastro politico, se finissero per cancellare la distanza tra Israele e la milizia sciita.

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