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La Stampa Rassegna Stampa
06.08.2006 Con "Al Manar" diffondono odio antisemita
ma Giuseppe Zaccaria li presenta come simpatici e coraggiosi giornalisti

Testata: La Stampa
Data: 06 agosto 2006
Pagina: 6
Autore: Giuseppe Zaccaria
Titolo: «Negli studi fantasma di Al Manar il verbo degli Hezbollah nell’etere»
Da La STAMPA del 6 agosto 2006, che presenta la televisione Al Manar, lo strumento principe della propaganda di Hezbollah, come un organo di informazione gestito da coraggiosi giornalisti in pericolo di vita (per le bombe israeliane) e belle ragazze libanesi, suscitando ovviamnete simpatia nei lettori. Per completezza di informazione, Zaccaria avrebbe potuto inserire qualche cenno all'ideologia nazista dell'emittente, oscurata in Francia per il contenuto chiaramente antisemita della sua programmazione. Ecco il testo:

Al banco del montaggio digitale un giovanotto alza gli occhi sul monitor fissato in alto e dice al collega: «Guarda, c'è il raiss». Sullo schermo è apparso Hassan Nasrallah che sta lanciando l'ennesimo proclama, ma quasi mai i tecnici del montaggio sanno come va la programmazione. Soprattutto se lavorano in un sotterraneo. Benvenuti in uno studio di Al Manar, ossia «Il Faro», tv clandestina. Non negli ascolti, perché tutti gli sciiti del Libano e non solo la seguono tutto il giorno, su altre frequenze da quelle su cui Israele tenta continuamente di inserirsi. Però dal 12 di luglio, giorno che precedeva l'inizio dei bombardamenti, la tv di Hezbollah si è calata in clandestinità quanto a luoghi, attrezzature, redazioni e ha continuato a trasmettere senza interrompersi per un solo minuto. La sede centrale di Dahidè, nel quartiere di Haret Reiq, è stata bombardata più volte, quasi fatta a pezzi. I suoi giornalisti sono sempre in giro, scortati da soldati Hezbollah. Le troupes al Sud e nell Beka'a forniscono notizie di prima mano, sebbene politicamente molto «tagliate» e zeppe di fandonie circa soldati israeliani uccisi o clamorosi successi militari. Lo studio di montaggio dà in qualche modo il quadro della situazione: ci troviamo in una «roulotte», infilata in un garage di un palazzo devastato. Non sapremmo dire dove: dopo lunghe trattative e un paio d'appuntamenti a vuoto, uomini silenziosi sono venuti a prelevarci in un bar del centro. Dopo averci fatto salire su una vecchia jeep, ci hanno porto una benda nera, su cui hanno piazzato anche degli occhiali da sole, giusto perché dall'esterno nessuno si incuriosisse. Dopo una mezzora, ci hanno fatto scendere. La benda è stata tolta quando ci trovavamo in un androne invaso dai calcinacci, di fronte a una scala ripida e malmessa. In fondo è comparsa una rimessa con al centro la roulotte, circondata da cavi elettrici. La tv rintanata lavora così, con un'identità in bilico fra fonte sciita d'informazione e organo militare del «partito di Dio». Qui dentro stanno lavorando di gran lena. Ci sono otto o nove persone che smanettano su impianti in apparenza modernissimi, commentano in lingua araba, fanno partire cassette che altri giovanotti prendono e trasportano chissà dove. I servizi di Al Manar circolano per Beirut con una rete di corrieri come merce nascosta. I patti erano chiari: pochi minuti per osservare il lavoro e poi via, senza scambiare neanche una parola coi dipendenti. Dopo la stessa trafila di sicurezza, si può fissare un secondo appuntamento più «ufficiale» con i volti della tv sciita. Haret Hryeik è una bella ragazza dal viso pienotto che rigorosamente evita di porgere la mano all'uomo, indossa il velo islamico, però parla un inglese perfetto: «Non sono mai stata all'estero per studiarlo, ma lo insegno all'università islamica di Beirut e per questo qualche anno fa, quando Al Manar cominciò i notiziari in inglese, mi sono trovata coinvolta nel lavoro di giornalista». Il volto di Telehezbollah è lei. Naturalmente non vuole dire dove sia il suo studio, però ci spiega: «Quando era chiaro che Israele avrebbe bombardato, la direzione ha spostato tutto il personale e le attrezzature in altri luoghi. Da allora, per ragioni di sicurezza, nessuno di noi sa dove lavorano gli altri». Quasi 500 fra giornalisti e tecnici continuano a trasmettere 24 ore su 24 suddivisi in cellule, movimento clandestino più che redazione televisiva. Anche in questo Al Manar paga la vicinanza a Hezbollah. «Io so solo dove devo recarmi ogni giorno - aggiunge la giornalista - e così i pochi tecnici con cui lavoro. Altri colleghi sono altrove e stiamo attentissimi a non chiedere neppure se siano in buona salute..». Dietro tutto questo c’è un sistema organizzativo e una disponibilità di mezzi tecnici di assoluto rispetto. Non si capisce, per esempio, come Ali Hashim, inviato di punta, possa continuare ogni giorno a far arrivare servizi e immagini da Tiro senza che gli israeliani riescano a rilevare le frequenze. Il capo delle relazioni esterne Ibrahim Farhat, esempio vivente della doppia anima di Al Manar, parla sorridendo di «sistema rotatorio di frequenze». Farhat è un Hezbollah con l'aspetto del manager, snocciola con sicurezza cifre d'ascolto, afferma che Al Manar è la terza emittente del Libano, ma soprattutto dopo i bombardamenti è diventata quarta negli ascolti all'estero fra tutte le tv arabe, dopo giganti come Al Jazeera e Al Arabiya. Racconta che nella copertura totale delle notizie, si riesce ancora a ricavare uno spazio per «Qadaya Annas», ossia «Gli argomenti della gente», una sorta di talk-show. «Prima di questa tragedia - precisa l’uomo - trasmettevamo anche una soap-opera di grande successo, intitolata "Holy Mary", la vita della madre di Gesù dal punto di vista islamico. Adesso, com'è ovvio, non c'è più spazio né per serie tv né per film». Parlare di tariffe pubblicitarie ci è parso azzardato, anche se sembra chiaro che, dopo aver promosso il movimento Hezbollah, i bombardamenti stanno riuscendo a tramutare una tv militarizzata in nuovo mito per il mondo arabo.

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