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La Stampa Rassegna Stampa
03.08.2006 La Galilea ancora sotto il bombardamento di Hezbollah
mentre Francia e America si dividono all'Onu

Testata: La Stampa
Data: 03 agosto 2006
Pagina: 0
Autore: Aldo Baquis - Fiamma Nirenstein - Maurizio Molinari - Carlo Jean
Titolo: «Record di razzi sulla Galilea L’esercito sbarca a Baalbek - A Kiryat Shmona piovono i katyusha e si vive sotto terra - Rottura tra Francia e Usa, Onu paralizzata - Offensiva di terra, Israele deve rischiare»

Da La STAMPA del 3 agosto 2006, la cronaca di una giornata di guerra, di Aldo Baquis:

Israele e Hezbollah si sono assestati anche ieri duri colpi reciproci, mentre all’interno del Libano meridionale sei brigate israeliane (10 mila uomini) continuano ad erodere tenacemente le zone controllate dalla linea di villaggi-bunker dei guerriglieri sciiti, per assestarsi da oggi a due-sei chilometri a nord del confine.
Nella nottata di lunedì duecento membri di unità scelte israeliane sono piombate nella roccaforte sciita di Baalbek, 100 chilometri a nord del confine, hanno esplorato gli uffici di Mohammed Yazbek (un membro dell’Alto Consiglio che dirige gli Hezbollah), hanno requisito documenti di intelligence e sono tornati indenni a Tel Aviv, portando con sé cinque miliziani, forze inquadrati in Hezbollah. Ma Israele ha avuto poco tempo per gustare il successo della clamorosa impresa, perché Hezbollah è subito tornato a sfoderare i propri razzi katyusha. Per tutta la giornata la terra in Galilea ha tremato mentre circa 230 razzi cadevano in rapida successione dal mar Mediterraneo fino al lago di Tiberiade, per raggiungere anche la città archeologica di Beit Shean (la storica Scitopolis, a sud di Tiberiade), Afula e perfino i campi palestinesi di Jenin, in Cisgiordania. E’ la prima volta che gli Hezbollah riescono a colpire con i loro razzi così nel profondo del territorio israeliano: 68 chilometri dal confine con il Libano, usando per la prima volta i temuti Khaibar 1, a lungo raggio. E anche se il premier Olmert ieri ha sostenuto che 700 posizioni degli Hezbollah sono state distrutte dall’offensiva israeliana, l’arsenale di Nasrallah sembra contenere ancora sorprese micidiali.
Ieri due elicotteri, con a bordo 200 membri delle unità d’élite israeliane Sayeret Matcal e Shaldag, sono atterrati in prossimità del centro medico Dar el-Hikma di Baalbek. All’interno della clinica, secondo informazioni di intelligence, si trovava un importante comando militare degli Hezbollah. Situata a breve distanza dal confine, Baalbek si trova ne raggio d’azione della antiaerea siriana, che tuttavia non è intervenuta. I soldati si sono divisi in due unità: la prima è stata incaricata di ispezionare l’ospedale dalle fondamenta fino al tetto ed è rientrata a Tel Aviv - secondo una fonte militare israeliana - con «computer, documenti, e materiale magnetico», che sono ora allo studio dell’intelligence.
La seconda unità è entrata nel vicino rione Sheikh Habib, dove abitano dirigenti Hezbollah. Dopo quattro ore di duri scontri a fuoco, anche a distanza ravvicinata, i soldati israeliani hanno portato con sé cinque miliziani trovati armati e hanno lasciato sul terreno un certo numero di vittime. «Una decina di miliziani uccisi» ha riferito il capo di stato maggiore, generale Dan Halutz. La polizia libanese ha replicato di aver contato 19 vittime civili, molti sono bambini. Sull’identità dei miliziani sequestrati, Israele non ha fornito elementi. Secondo la tv Al Jazeera, che ha invece reso noti i nomi dei prigionieri, uno di loro si chiamerebbe Hassan Nasrallah. Probabilmente non è nemmeno in rapporti di parentela con il celebre leader degli Hezbollah, ma proprio il suo nome potrebbe essere all’origine del blitz israeliano, che avrebbe avuto da fonti ospedaliere la lista dei pazienti presenti in ospedale.
La reazione degli Hezbollah non si è fatta attendere e ne hanno fatte le spese la città della Galilea, che mostrano in maniera evidente le ferite della guerra: gli edifici e gli appartamenti colpiti sono migliaia, le attività economiche paralizzate, le strade deserte. I campi della zona più verde di Israele sono anneriti da larghe macchie di terra bruciata. Ovunque si nota la desolazione. Grazie alla misure prudenziali adottate dal comando delle retrovie, i 230 razzi di ieri (cifra record dall’inizio del conflitto) hanno provocato perdite umane contenute: un morto, a nord di Naharya, e decine di feriti.
Nel frattempo nel Libano meridionale, nel suo settore occidentale, Israele ha messo in campo una sesta brigata, la Alexandroni, composta da riservisti. Le tre brigate di fanteria dei paracadutisti, la Golani e la Nahal, assistite da due brigate di carristi e da ruspe blindate usano le ore notturne per avanzare cautamente nel profondo sud del Libano, una terra insidiosa disseminata di guerriglieri. Ad Aita a-Shaab i combattimenti sono durati tutta la giornata: un soldato israeliano è stato ucciso, decine i miliziani morti. Entro oggi Israele cercherà di assicurare il controllo a fuoco di una linea di circa sei chilometri oltre in confine, su cui assestarsi se dovesse sopraggiungere un cessate il fuoco.

Reportage di Fiamma Nirenstein da Kyriat Shmona sotto i bombardamenti di Hezbollah:

Non si dimentichi, quando scrive, di dire che stasera comincia Tisha be Av». Guardo Avraham, soldato delle riserve di 37 anni, che normalmente gestisce un ufficio, una moglie e ben cinque figli, adesso al nord gestisce solo un M 16 che gli ciondola dalla spalla; è uno dei soldati delle riserve chiamato a combattere gli Hezbollah.
Peccato ricordare oggi Tisha be Av, suggeriamo, proprio oggi che sono stati sparati dagli Hezbollah circa 230 missili. Peccato ricordarlo mentre si guardano i giovani seduti da ore al sole in vetta ai carrarmati o seduti in un angolo di ombra per terra, mentre bevono dalla borraccia o scherzano con i compagni: perché Tisha be Av, il nove del mese di Av in cui i religiosi digiunano (ma non i soldati oggi, c’è una decisione specifica del rabbinato centrale), è il giorno in cui si ricorda la distruzione del secondo Tempio e di Gerusalemme che segnò la fine dello stato d’Israele, e la deportazione degli ebrei in massa verso Roma.
Una ricorrenza che deve piacere a Nasrallah. Ma perché mai Avraham lo vuole ricordare? «Proprio per fare il punto: perché ora Israele l’abbiamo ricostruito, noi siamo capaci di difenderlo, non venga in mente né a Hezbollah né a qualcun altro di provare a distruggerlo. Come si dice, enough is enough, no? Quando basta, basta. Guardi alla nostra storia».
Dalle nove e mezzo i bombardamenti di Nasrallah diventano parossistici: circa 230 fra katyusha, kassam e anche Fajar, grossi missili carichi anche di pallottole di piombo che aumentano verticalmente il danno che porta l’esplosione. Una coproduzione iraniano-siriana. Piovono parecchie katyusha e molto vicino, scendiamo in un rifugio di Rosh Pinna, una storica cittadina di confine in cui abbiamo passato la notte. I «boom» si sentono anche da dentro. Questo è un rifugio ampio, con tv e aria condizionata, molto diverso da quelli che vedremo a Kiryat Shmona o che abbiamo visto a Haifa: letti a castello, aria soffocante, bambini ormai difficili da contenere finché non arrivano i vari gruppi di supporto che cantano, suonano, portano cibo.
Israele è nei guai, sono tutti disperati. Ieri la gente sulla costa, dopo che per un giorno aveva respirato, era al collasso. È tutto chiuso, non ci si può spostare per le strade, la sirena suona di continuo e i bambini piangono. A Kiryat Shmona una donna mi viene incontro, con un bambino in braccio e due attaccati alla gonna, e mi urla: «Me lo dica lei, giornalista, dopo un mese sotto terra che cosa dobbiamo fare. Chi ci aiuta? Chi ci capisce? E la mia famiglia è profuga dalla Libia!». Il lavoro va a rotoli, la stagione turistica del nord è andata, le fabbriche e i campi sono quasi morti, si fanno funerali di passanti e operai. I vecchi si ammalano, la depressione spazza il nord giù fino a Beit Shean e ad Acco. Nel rifugio, Anat arriva piangendo: era all’ufficio postale, il boom e poi la fossa bruciante, e poi l’inizio di incendio... non ce la fa più.
La gente viene portando frutta, c’è dell’aranciata e giochi per i bambini. Abraham aveva detto poco prima: «Noi ci consoliamo quando abbiamo paura aiutandoci l’un l’altro. C’è stima tra noi, mia moglie mi ammira quando sto per entrare in Libano. E sa che non ho nessuna intenzione di morire, abbiamo ancora molto da fare». Ma Anat piange in pieno choc: lungo tutta le colline, con grandi fumate si segnalano i crateri delle katyusha a poche decine di metri l’una dall’altra, lungo tutta la strada che sale a Metulla, all’estremo confine. E questi missili cercano qualsiasi cosa: le case dei civili, qualcuno da uccidere per strada, in macchina, in un negozio. L’uomo che uccideranno oggi è un contadino del kibbutz Saar in bici.
Fra i botti, in un remoto campo di riserve e di strumenti logistici incontriamo il capo di Stato Maggiore Dan Halutz, che nei giorni scorsi è stato ricoverato all’ospedale per un dolore alla pancia: adesso spiega che sta benissimo, stando ritto solo il sole protetto da occhiali da sole nerissimi. Tutto intorno ci sono, oltre ai soldati, giornalisti, missili che fioccano, colpi di cannoni che rispondono. Cambio di scena. Al di là degli scenari di disperazione, fatti nuovi e forse più significativi: gli Hezbollah sparano, ma Israele è forte. Dan Halutz spiega che le cose vanno molto meglio di quello che sembra: forse quasi 400 uomini degli Hezbollah sono stati eliminati. E poi racconta l’operazione di Baalbek, in cui l’esercito è ancora quello di Moshe Dayan, o di Entebbe. Forse ci sarà un'accelerazione da ora: la Tzava infatti allarga decisamente l’operazione.
«Vede - dice un altro soldato delle riserve, un gerosolimitano di nome Eyal - siamo sempre capaci di arrivare dappertutto, di piombare nel cuore della roccaforte degli Hezbollah, portare via uomini, armi, documenti». Eyal sta appoggiato a una delle baracche della base, con altri che si sforzano di scherzare aspettando il loro turno, mentre a casa sono rimasti tutti i loro cari. La mamma ti telefona? «No, l’ho educata bene: quando posso telefono io, ma ci sono di quelli che anche a 45 anni sono ossessionati dalla famiglia. Non solo per chieder come stai, per l’angoscia che stai per entrare in Libano, ma anche per tutte le cose pratiche rimaste a metà, come l’affitto».
I riservisti più grandi, in fondo, sono quelli in cui si vede più la preoccupazione: «No, paura no, ma certo ci si preoccupa, basta restare capaci di controllarsi, e io ci riesco». I ragazzi invece non hanno paura. Quando escono verso la battaglia, che sarà dura, fatale, in cui sono già sono morti alcuni loro compagni, essi spiegano con semplicità che per loro è più importante il collettivo della loro persona. Il comandante ripete loro le cose fondamentali: «Non sparate mai a sinistra, perché là c’è la seconda compagnia, i vostri compagni. In generale, non sparate mai a un obiettivo che non metta in pericolo la vostra stessa vita».

Maurizio Molinari fa la cronaca dello stallo alle Nazioni Unite sull’invio della forza di stabilizzazione internazionale in Libano.
Ecco il testo:


Fumata nera al Palazzo di Vetro sull’invio della forza di stabilizzazione internazionale in Libano. La riunione che avrebbe dovuto vedere seduti attrono ad un tavolo i Paesi disposti a fornire truppe è stata annullata a causa di divergenze fra Francia e Stati Uniti, sebbene i diplomatici di entrambe le nazioni si siano affrettati a gettare acqua sul fuoco, assicurando che l’accordo potrebbe essere suggellato oggi stesso in seno al Consiglio di Sicurezza. Una identica riunione era stata già rinviata lunedì scorso. A paralizzare l’Onu è la divergenza fra Parigi, che non è disposta a discutere invii di truppe in assenza di una «immediata cessazione delle ostilità» - come chiesto dall’intera Ue nella giornata di martedì - e Washington, secondo la quale prima di dichiarare il cessate il fuoco devono maturare sul terreno le condizioni affinché sia duraturo ovvero gli Hezbollah siano stati molto indeboliti dalle operazioni militari.
Sul tavolo del Consiglio di Sicurezza c’è al momento una bozza di risoluzione francese sul cessate il fuoco immediato che non convince John Bolton, ambasciatore Usa all’Onu, che ieri ha rilanciato prospettando l’ipotesi di far approvare due distinte risoluzioni: la prima sul cessate il fuoco immediato ed un rafforzamento del contingente di osservatori dell’Unifil ed una seconda sulle condizioni di stabilità nel lungo termine per accompagnare il dispiegamento della forza di stabilizzazione.
Dietro le schermaglie diplomatiche al Palazzo di Vetro c'è l’opposto approccio di Washington e Parigi alla crisi in Medio Oriente: la Casa Bianca sostiene le operazioni militari israeliane perché vede nel drastico ridimensionamento degli Hezbollah un fattore di stabilità regionale, positivo tanto per la sicurezza di Gerusalemme che per la democrazia a Beirut, mentre invece l’Eliseo vuole arrivare al disarmo degli Hezbollah attraverso un processo politico, impossibile da iniziare fino a quando si combatterà.
Tanto Bolton che il collega francese Jean-Marc de La Sabliere hanno fatto sfoggio di dichiarazioni per tentare di paludare i dissensi e scongiurare una nuova crisi all’Onu come quella del 2003 dell'Iraq. Ma a fotografare i dissensi è stato Ahmad Fawzi, portavoce dell’Onu, spiegando che «è assai chiaro il fatto che l’incontro sulla composizione della forza internazionale è prematuro in ragione dell’assenza di un accordo sulla cornice politica sulla fine del conflitto» e dunque «in assenza di un mandato concordato non si può decidere che tipo di contingente inviare». Come dire, Parigi vuole porre fine alle ostilità lasciando la situazione sul terreno in Libano come è ora mentre Washington vede con favore un successo militare israeliano.
Per evitare che il rinvio si trasformare in un corto circuito di più ampie dimensioni nelle vesti di mediatore è sceso in campo l’ambasciatore della Gran Bretagna, Emyr Jones-Parry, dicendosi «fiducioso» che già oggi il Consiglio di Sicurezza possa riunirsi per votare un testo di risoluzione condiviso da tutti. Che il conto alla rovescia per la fine delle operazioni militari sia iniziato lo ha confermato d’altra parte il Segretario di Stato, Condoleezza Rice, che in un’intervista tv ha parlato di un cessate il fuoco fra «giorni e non settimane» prendendo le distanze dal vicepremier di Gerusalemme, Shimon Peres, che invece aveva poco prima adoperato l’espressione «settimane e non mesi». A spiegare la posizione del governo di Israele è stato il premier Ehud Olmert, affermando dagli schermi della Cnn che «non vi sarà nessun cessate il fuoco prima del dispiegamento di una forza internazionale con il mandato di far rispettare la risoluzione 1559 sul disarmo degli Hezbollah». Olmert ritiene che l’unico schema possibile per impedire nuovi lanci di razzi contro le città della Galilea sia un passaggio delle consegne fra esercito ed israeliano e forza di stabilizzazione una volta che le ostilità saranno terminate e gli Hezbollah indeboliti in maniera significativa anche se senza il «disarmo totale» di cui Gerusalemme parlava due settimane fa. A dirsi a favore del cessate il fuoco immediato sono invece gli Hezbollah «ma questo dimostra - ha commentato l’ex capo del Mossad Efraim Ha-Levy - che stanno subendo colpi molto pesanti alla loro struttura».

Infine, l'analisi strategica di Carlo Jean:

Diversi ne sono infatti contesto, obiettivi, rapporti di forza e tecnologie impiegate. Tutte le guerre sono poi asimmetriche, se non altro per il fatto che uno attacca e l'altro si difende. Ancora più «asimmetriche» sono quelle combattute all'interno degli Stati fra le fazioni in lotta fra di loro per la conquista del potere e fra di esse e le forze di stabilizzazione intervenute dall'esterno. Queste ultime, sono molto simili alle guerre di colonizzazione o di decolonizzazione, non come obiettivi, ma come tecniche e tattiche utilizzate.
Quelle attuali presentano però due differenze importanti rispetto a quelle del passato. La prima deriva dall'importanza politico-strategica dei media, che sono globali e in tempo reale. Le opinioni pubbliche - non solo del nemico, ma anche quelle propria e degli alleati o neutrali - partecipano direttamente al conflitto e ne condizionano gli esiti politici. La seconda è dovuta dal fatto che le tecnologie moderne consentono a piccoli gruppi o ad individui singoli di disporre di una potenza di distruzione che prima possedevano solo gli Stati. Basti pensare ai terroristi hi-tech, dotati di missili e di armi di distruzione di massa. Per queste peculiarità la parte più debole vince spesso quella materialmente più forte. È già avvenuto in Vietnam, in Somalia e nel Libano negli anni Ottanta.
Il termine «guerra asimmetrica» è oggi spesso sostituito con quello di «guerra di quarta generazione». L'aggettivo «quarta» può essere compreso solo in una prospettiva storica.
Con la pace di Westfalia si erano formati gli Stati, prima dinastici, poi nazionali, ma sempre in possesso al loro interno del monopolio della forza legittima, con cui controllavano territorio e popolazione. Le guerre erano combattute fra gli Stati forti. La loro natura non mutò nei secoli, anche se tattiche e tecniche si modificarono a causa del progresso tecnologico. Vari sono stati i tipi di tali guerre. Quelle di prima generazione - guerre agricole, come quelle napoleoniche - erano caratterizzate dall'impiego di masse di soldati. Con la rivoluzione industriale comparvero le guerre di seconda generazione, basate prima sulla potenza di fuoco dell'artiglieria e poi sulla manovra decisiva in profondità delle forze corazzate. Le nuove tecnologie dell'informazione sono state alla base delle guerre di terza generazione, «post-industriali» o network centric. Una rete di sensori satellitari, di ricognitori pilotati e non, di stazioni di intercettazione e di nuclei di forze speciali dotate di designatori per guidare missili e bombardieri, trasmette precise informazioni ad un centro che le fonde fra di loro e le diffonde ai mezzi di fuoco. La precisione e la gittata delle nuove armi consente di distruggere anche a grande distanza obiettivi puntiformi. La battaglia di contatto si svolge contemporaneamente a quella in profondità, come è avvenuto recentemente in Afghanistan e in Iraq. Scompaiono le differenze fra fronte e retrovie.
La strategia di tutti tali tre tipi di guerra ha sempre teso a distruggere le forze armate e ad occupare il territorio, per indurre il nemico ad accettare la pace che gli si voleva imporre. Da Westfalia al 1945 è esistita al riguardo una tacita convenzione. Lo Stato battuto militarmente riconosceva di essere stato sconfitto, accettava la pace e spesso diveniva alleato del vincitore.
Le cose sono molto diverse nelle guerre «di quarta generazione». Tale tacita convenzione non è più seguita. La vittoria militare non coincide più con quella politica. Alla «guerra-guerra» fra eserciti regolari segue non la pace, ma la «guerra dopo la guerra», che ha una natura del tutto diversa dalla precedente. Lo si vede in Iraq.
Le opinioni pubbliche e le società sono coinvolte direttamente nei conflitti, con i loro valori e le loro emozioni. La vittoria è possibile solo conquistando «le menti e i cuori della popolazione». Se terroristi ed insorti vengono isolati da essa non possono più ricostituire le forze distrutte. In caso contrario, sono come l'araba fenice: rinascono dalle loro ceneri, rendendo impraticabile la stabilizzazione e impossibile qualsiasi pace.
Verosimilmente gli israeliani hanno pensato che fosse impossibile una vittoria contro gli Hezbollah. Sarebbe stata possibile ai confini meridionali del Libano dove si difendono nei bunker. E' invece impraticabile nella fase successiva, per la quale si ritiene che gli Hezbollah abbiano organizzato una guerra insurrezionale in tutto il Libano, basata sulle tattiche della guerriglia e del terrorismo.
Per questo forse Gerusalemme ha accettato le pressioni americane, la tregua dei due giorni, la forza di interposizione internazionale e le promesse del premier libanese di controllare le milizie del «Partito di Dio», incorporandole nell'esercito regolare.
Qualche dubbio al riguardo però esiste. Potrà scomparire solo quando Israele avrà mandato in congedo i numerosi riservisti, la cui mobilitazione pesa in modo rilevante sulla sua economia.
Con il potenziale militare degli Hezbollah, ancor oggi praticamente intatto, e il prestigio che si sono guadagnati con la loro tenacia, Israele rischia di vedere compromesso il suo sistema di dissuasione e quindi la sua sicurezza. Gerusalemme non ha alternativa ad effettuare una grande offensiva terrestre, sfidando l'opinione pubblica internazionale, accettando rilevanti perdite fra i suoi soldati e rischiando di distruggere il Libano. Gli esiti del conflitto sono tutt'altro che scontati. Dipendono dalle capacità israeliana di ridurre la fase del «Partito di Dio» e di ritirarsi dal Libano per tempo, dopo aver creato le premesse per lo schieramento di una potente forza internazionale a protezione della sua frontiera settentrionale.

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