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La Stampa Rassegna Stampa
02.08.2006 Con i soldati israeliani che combattono Hezbollah
reportage di Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 02 agosto 2006
Pagina: 2
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Con i soldati dentro «Hezbollah Land»»
Dalla STAMPA del 2 agosto 2006:

Aita a’ Shaab è un nuovo nome da aggiungere alla geografia fatale della guerra in corso, il nome di un paese libanese che battezza un’altra terribile battaglia ancora non conclusa fra esercito israeliano e gli Hezbollah. Ne intravvediamo i prodromi da una postazione fra gli alberi sulla collina di Matat, da dove escono soldati verso il Libano, e soprattutto ne ascoltiamo i tonfi spietati e frequenti che ritmano il nuovo allargamento delle operazioni di terra dell’esercito deciso lunedì, un suo profondo incunearsi nel territorio a Sud del Libano, «Hezbollahland».
Per arrivarci su indicazione di colleghi locali abbiamo percorso la strada di maggior traffico militare: sono ragazzi di una ventina d’anni e meno, con comandanti fra i 22 e i 30 anni quelli che si muovono dentro e fuori del Libano. Uno appena uscito, un palliduccio con gli occhiali, risponde appena: «Non facile, non facile per niente; ma andrà tutto bene, ragazzi». Soldati ovunque, paracadutisti col berretto rosso, carristi in nero, uomini della brigata Golani in marrone: mangiano; telefonano; si appisolano; si dipingono di nero e di verde la faccia; si lavano i denti in una catinella; ridono; siedono sul tank in attesa instupiditi dal caldo, si addormentano.
Hanno appena combattuto, urlato, sparato? «Sì, il mio vicino di fila è rimasto ferito gravemente», mi risponde uno che subito se ne va. Non c’è verso di saperne di più, i soldati non potrebbero parlare con i giornalisti. Fa un caldo bestiale, non si può fare a meno guardandoli, così forti, pronti a essere affettuosi o a trattarti male dopo e prima di quelle ore fatali, di pensare alla immane forza della giovinezza. Lo sanno che possono morire fra poco? Lo sanno che possono uccidere? Lo sanno che anche oggi alcuni di loro ci sono restati? Amnon, un giovane comandante, risponde: «Ovvio che sanno che in guerra ci si gioca la vita; ma da noi è comune, molti hanno vittime di guerra anche in famiglia; poi dopo la battaglia parliamo sempre di quello che è successo, dei compagni feriti o morti. Ma i giovani, non ci credono mai alla morte, non alla propria. E comunque da noi sta nel conto affrontare il rischio fin da piccoli, per questo ci piace tanto la vita».
Il «cessate il fuoco» non è davvero in vista: c’è fuoco, e ancora tanto fuoco, anche se gli Hezbollah ieri hanno fatto quasi tacere completamente i loro missili; ma con tutti i «boom» che si susseguono ogni minuto, ci troviamo come cretini a guardare in alto: e magari hai la pazzesca speranza di vedere il missile e evitarlo. I giornalisti sono quasi gli unici esseri umani insieme ai soldati che si incontrano da queste parti: sobbalzano un poco ai colpi, alzano le spalle, guardano in su. Da ieri gli israeliani insieme alla tregua aerea di 48 ore annunciata da Condoleezza Rice, hanno anche dichiarato l’allargamento delle operazioni di terra: che si tratti di una grande impresa lo si vede dalla moltiplicazione dei carri armati, dei mezzi corazzati, delle jeep, dei macchinari logistici che occupano tutto il confine e trasformano in verde militare il colore della Galilea.
Ci spiega Zvica Golan, il portavoce dell’esercito: «Dobbiamo penetrare a piedi e non solo usare gli aerei, perché se non controlliamo il territorio il nemico si riorganizza immediatamente, rioccupa i villaggi, rimpiazza i lanciamissili, costringe i cittadini a fare da scudo». E allora, occuperete il Libano del Sud? «No, ma prepariamo il terreno perché la forza di interposizione possa prenderne il controllo». Avete paura di un’altra tragedia come quella di Cana? La risposta mi viene dal comandante in capo della zona Nord, Alon Friedman, piccolo e abbronzato. Non si spinge avanti, ma ci capiamo: «I nostri obiettivi aerei da ora in avanti sono ancora più definiti, precisi, indispensabili alla vittoria».
Ma com’è andata laggiù? Ci voltiamo verso la vallata sotto di noi. Nelle vallate lungo il confine si annidano i carri armati e i cannoni che devono proteggere la marcia della fanteria. Friedman indica Aita a’ Shaab: «E’ andata bene, i nostri soldati sono stati estremamente professionali, ma è stata dura». Tre di loro sono morti, ma ci chiede di mantenere la notizia riservata fino a che non verranno avvertite le famiglie. E’ da lunedì notte che la battaglia continua. I soldati sono stati attaccati all’ingresso, hanno risposto e da allora è uno scambio di fuoco continuo. Gli Hezbollah hanno morti e feriti, e Israele? «La marcia di terra è dura», il comandante non può parlare più di tanto, «ma questa è una guerra in cui non abbiamo scelta». Per quanto tempo, ancora? Forse meno di una settimana, mi risponde, ma forse di più. Chi può sgomberare gli Hezbollah perché entri la forza d’interposizione?
Uscendo dalla collina di Matat vedo entrare due autobus carichi di soldati che vanno verso la base. E’ quasi notte, di fronte agli alberi del Libano: stanno per uscire in missione.

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