Pubblichiamo una breve rassegna di articoli sull’attuale conflitto israelo-libanese apparsi su Famiglia Cristiana del 30 luglio 2006.
In un momento così drammatico nel quale le diplomazie occidentali cercano di imporre una tregua, gli Hezbollah continuano a lanciare decine e decine di razzi sulle città israeliane e Israele viene accusata di “reazioni sproporzionate” e “crimini di guerra” riteniamo utile sottoporre ai lettori di Informazione Corretta questi articoli che hanno il pregio di offrire uno spaccato della società israeliana, delle sue preoccupazioni, dei suoi drammi e della speranza che alberga in ogni cittadino israeliano: che questa guerra finisca presto.
FAMIGLIE IN TRINCEA di Filippo Landi
Era sera, quando a casa di Noa, sulla collina di Mevasseret che sorge poco prima di giungere a Gerusalemme, ci si era finalmente fermati sul divano a guardare il telegiornale. I bambini erano già a letto, presto, come si fa in Israele, perché loro mangiano già alle sette di sera. La scuola, d’ altra parte, comincia presto. Ancora pochi giorni e sarebbe stata vacanza per i figli di Noa e per gli altri scolari israeliani. Quella sera del 25 giugno, quando la Tv ha portato la notizia dell’uccisione di due soldati israeliani e di tre miliziani palestinesi e del rapimento, sul confine della Striscia di Gaza, del caporale Gilad Shalit, in quel momento Noa ha avuto un tuffo al cuore e ha detto al marito: «Che brutta storia! È l’inizio della terza intifada?». La cronaca di questi giorni ha portato, in verità, sulle prime pagine dei giornali israeliani un’altra parola, semmai ancor più angosciante. La parola: guerra. Le famiglie israeliane hanno più fiuto dei politici, quando c’è qualche notizia brutta che li può coinvolgere. Il rapimento del caporale Gilad e poi la cattura, da parte degli Hezbollah, di due altri soldati sul confine libanese hanno segnato l’accrescersi della paura dei genitori. Molti figli, infatti, sono sotto le armi e altri potrebbero > essere richiamati. Così era stato per il marito di Noa, l’anno scorso per > la protezione dei soldati e dei coloni che si ritiravano da Gaza. Così è stato adesso in tante famiglie. A Kiryat Shmona, a pochi chilometri dal confine libanese, è arrivata, quasi subito, anche la paura dei razzi Katiuscia. Tanti, questa volta, e quindi la necessità di trascorrere la notte e poi molte ore del giorno nei rifugi. Vicino alla cittadina, un poco più verso nord, quasi a ridosso del confine libanese, ci sono anche i cannoni israeliani che sparano enormi proiettili verso il Libano. Alcuni bambini della zona, in un momento di tregua, vengono ripresi da un fotografo. Non sono impauriti, anzi scrivono, sotto l’occhio dei soldati, e come vecchi uomini incattiviti dalla guerra, i loro messaggi sulle bombe e non sono messaggi d’amore. Di quelle fotografie, di quei bambini si discute anche nelle case di Gerusalemme. «Non è possibile, quelle foto non sono vere, non possiamo > essere diventati così»: Slomi lo dice e lo ripete, fin quando scopre che non è un falso. Slomi è uno di quei tanti israeliani che appoggia il Governo, ma che rimane incredulo davanti a dei bambini che augurano la morte ad altre persone. E allora la discussione prende altre strade. Dice Amos: «Ammetti la verità: abbiamo chiuso gli occhi davanti ai bombardamenti di Beirut e di tanti luoghi del Libano. Hai visto l’ultimo sondaggio: dice che la grande maggioranza di noi è convinta che ci sia una proporzione tra gli attacchi che subiamo e la risposta del nostro esercito. A me non sembra >che ci sia. Noi stiamo spianando il Libano. Quello che più mi spaventa è l’odio che stiamo alimentando nel mondo arabo: le foto, terribili, dei bambini libanesi morti sotto i bombardamenti fanno il giro del mondo e noi > non ce ne rendiamo conto». Amos ora tace. Tutti rispettano quello che ha detto. «Inevitabile, è inevitabile», è il commento di Aluf, che aggiunge: «È vero siamo più forti, abbiamo armi più potenti degli Hezbollah. Ma, pensa cosa potrebbe succedere se noi non rispondessimo con forza agli Hezbollah. Se accettassimo una trattativa con loro, se ci mostrassimo deboli davanti a tutto il mondo arabo?» Il padre del caporale Gilad Shalit, una sua risposta l’ha data. In un’intervista, ha ricordato che il Governo israeliano due anni fa trattò con gli Hezbollah e liberò molti detenuti dalle prigioni in cambio di un uomo d’affari israeliano e dei corpi di tre soldati israeliani uccisi in Libano. Le sue parole non sono cadute nel vuoto. Pur nel fragore delle bombe, un ministro israeliano, Avi Dichtar, ex capo dei servizi segreti interni, almeno in due occasioni ha detto che una trattativa e uno scambio di prigionieri si può prendere in considerazione. Da Kyriat Shmona, e da molte cittadine del Nord di Israele, sono partiti tanti bambini e genitori: destinazione il Sud. Molti si sono ritrovati nuovamente insieme, vicino al mare a Nitzanim. Qui un miliardario israeliano, di origine russa, ha organizzato una grande tendopoli. Un campo estivo, per bambini e genitori. L’atmosfera è molto diversa, assai meno tesa che a casa. Quanto durerà questa strana permanenza? E che cosa fare del Libano, che è a pochi chilometri dalle proprie case? «L’esercito ci deve difendere», dicono alcuni. «Abbiamo sbagliato a ritirare i nostri soldati dal Sud del Libano, nel maggio del 2000», dicono altri. «Ricorda, quanti nostri ragazzi sono morti in Libano, negli anni ’80 e ’90», ammonisce ancora un altro. Non ci sono soluzioni facili. A Gerusalemme, davanti alla porta di Damasco, i giovani musulmani sono costretti nuovamente a pregare in strada. Agli uomini che hanno meno di 45 anni non è permesso accedere alla spianata delle Moschee, il venerdì. La >polizia israeliana teme disordini. > Poche ore e il silenzio cade sulla parte ovest, quella ebraica di Gerusalemme. Inizia lo Shabbat, la festività settimanale degli ebrei. C’è però un rumore sordo in più, quello degli aerei, che vanno a bombardare il Libano.
SIGNOR NO, NON VADO SU QUEL FRONTE di Roberto Zichittella
«Prendi il fucile e ammazzami!». Quando il soldato Tomer Weinberg, ancora stordito dalle esplosioni, ha sentito le voci di arabi che si avvicinavano, ha implorato il commilitone di sparargli. Meglio morire piuttosto che finire ostaggio degli arabi, ha pensato. Ma il soldato Weinberg è stato fortunato. È riuscito a strisciare verso un cespugli dove si è nascosto. Ora è in ospedale con il braccio destro devastato dalle ferite. Ma almeno non gli è stato amputato e con una lunga rieducazione potrà tornare a >usarlo quasi normalmente. È andata peggio a Eldad Regev e Ehud Goldwasser, gli altri due militari che lo scorso 12 luglio viaggiavano con Weinberg sul mezzo blindato assalito dagli Hezbollah lungo il confine con il Libano. Entrambi, dopo l’assalto al >blindato, sono stati rapiti. Un rapimento che il Governo del premier Olmert considera “un atto di guerra”. Entrambi i soldati sono riservisti. Regev, ebreo ortodosso, ha 26 anni e abita presso Haifa, dove lavora come tecnico della compagnia elettrica. Ehud Goldwasser ha 31 anni, è sposato e lavora nel Politecnico di Haifa. Di loro non si sa più nulla. Nessuna notizia anche di Gilad Shalit, il sergente di 19 anni rapito dai militanti di Hamas lo scorso 25 giugno al confine fra Israele e la Striscia di Gaza. Per la sua causa si è mossodiscretamente anche l’arcivescovo Antonio Franco, nunzio vaticano a Gerusalemme, che tramite una parrocchia cattolica di Gaza ha tentato di intercedere con Hamas per la liberazione di Shalit. «Ma da Hamas non sono arrivate risposte», ha dichiarato il nunzio al quotidiano Jerusalem Post. Nei giorni scorsi i familiari dei tre soldati rapiti si sono incontrati. «Abbiamo tante cose in comune, soprattutto dolore, paura e incertezza sul destino dei nostri ragazzi», dice Noam Shalit, padre del caporale nelle mani degli uomini di Hamas. Non è la prima volta che soldati israeliani sono vittime di rapimenti. Qualcuno è tornato libero, altri sono stati uccisi, di alcuni non si sa più nulla da anni. Ognuno di questi casi è vissuto con sofferenza da parte di Tsahal, il nome dato a uno degli eserciti più preparati del mondo, nato con questa missione: «Difendere l’esistenza, l’integrità territoriale e la sovranità dello Stato di Israele. Proteggere gli abitanti di Israele e combattere tutte le forme di > terrorismo che minacciano la vita quotidiana». Simbolo di Tsahal sono la spada e l’ulivo. Negli ultimi anni sempre più soldati hanno lasciato cadere la spada per impugnare il ramoscello di ulivo. In varie occasioni gruppi di militari, ufficiali, riservisti hanno criticato le iniziative militari del Governo rifiutandosi di prestare servizio. È il fenomeno dei cosiddetti refuseniks. Anche in questi giorni c’è stato un caso di obiezione di coscienza. È quello del sergente Itzik Shabbat, un producer televisivo di 28 anni, che è già stato in carcere per essersi rifiutato di prestare servizio nei territori palestinesi occupati > ed è contrario agli attacchi contro il Libano. L’opinione pubblica si è subito divisa tra chi lo accusa di essere un eroe e chi invece lo considera un traditore.
«SIAMO STATI COSTRETTI A REAGIRE CON FORZA»
di Giulia Cerqueti Lo scrittore israeliano, noto per le sue posizioni pacifiste, appoggia la scelta di bombardare il Libano. Ecco percLa voce di Abraham Yehoshua è tesa, preoccupata, esausta. A tratti viene interrotta da un respiro profondo, poi riprende a parlare, adagio, scandendo le parole con una forza che fa trapelare la disperazione. Lo scrittore israeliano, uno dei massimi rappresentanti della letteratura in ebraico, risponde al telefono da Haifa. Nonostante i bombardamenti, non ha abbandonato la sua casa. Tanti anni fa Yehoshua preferì Haifa a >Gerusalemme, scegliendo di vivere in questa città del Nord d’Israele laica, vitale, attiva. Oggi trasformata in un inferno. · Yehoshua, come si vive ad Haifa in questo momento? «Ci troviamo in una situazione di semiguerra. Molti se ne sono andati dai loro parenti nel Sud, ma non abbiamo rifugiati. Tutti i servizi municipali e l’assistenza medica continuano a funzionare bene. Possiamo resistere ancora per molto tempo». · Haifa è un simbolo della coesistenza tra arabi ed ebrei. Ora è stata trasformata in un campo di battaglia... «Ma la collaborazione tra ebrei e arabi continua e, anzi, ora si è rafforzata. Gli arabi stanno soffrendo come gli ebrei. Non c’è alcuna ostilità fra i due popoli nella città. Le ostilità vengono dall’esterno». · Lei fa parte di quell’ala pacifista che ha criticato le scelte politiche del Governo israeliano. Ora appoggia l’operazione militare di Israele in Libano. Perché? «Noi abbiamo messo fine all’occupazione del Libano anni fa. Abbiamo sempre rispettato, da allora, l’integrità dei territori libanesi. Questi attacchi sono una provocazione al fine di indurci a una guerra. Hezbollah rifiuta il > diritto di esistere di Israele. Ha provocato un conflitto, con l’appoggio di Siria e Iran, senza calcolare le conseguenze per il Libano. Hezbollah è un’organizzazione odiata anche dai libanesi». · Da più parti si giudica la reazione di Israele troppo forte, sproporzionata. Che cosa ne pensa? «La questione è che la nostra reazione non è rivolta al Libano ma ai centri e alle forze di Hezbollah. Questa organizzazione sta operando all’interno > della popolazione civile, ha addirittura nascosto i missili nelle case private. Dunque, l’unica cosa che possiamo fare è colpire quelle abitazioni. Siamo costretti a reagire con forza, altrimenti Hezbollah arriverà a paralizzare la nostra esistenza». · Israele si è ritirato sia dal Libano sia da Gaza. Il problema, dunque, non è più l’occupazione, bensì l’esistenza stessa di Israele. Allora, si può ancora parlare di speranza di pace? «L’unica via di uscita è che l’Europa intervenga con fermezza, con una forza militare internazionale sul confine tra Israele e Libano. Anche i Paesi islamici moderati hanno condannato le azioni di Hezbollah. Va ricordato che la maggior parte dei palestinesi ha riconosciuto Israele come Stato. Noi non chiediamo più una pace totale, chiediamo semplicemente un > “modo di vivere” fra ebrei e palestinesi».
NONOSTANTE TUTT LA PACE È POSSIBILE» di Roberto Zicchitella
Tristezza e preoccupazione. Per Renzo Gattegna, neopresidente dell’Unione delle comunità ebraiche, sono questi i sentimenti che prevalgono tra gli ebrei italiani in questi giorni di guerra al confine tra Libano e Israele. · Avvocato Gattegna, come state vivendo questo conflitto? «Prevale una grande tristezza per le perdite rilevanti di vite umane e di beni da entrambe le parti. Ma la comunità ebraica è anche molto preoccupata perché è evidente che si stava preparando un tentativo di attacco molto > pericoloso da parte degli Hezbollah, creati e protetti da Iran e Siria, nei confronti delle città israeliane». · Sembra che Israele sia stata quasi colta di sorpresa da questa minaccia che si stava preparando al confine, come mai? «Certamente Israele sta tentando di eliminare un pericolo che si sta rivelando molto più grande del previsto. Anche perché questo pericolo è sparso nel territorio, a volte annidato negli insediamenti abitati dai > civili. Quindi, per quanto si cerchi di limitarle, le perdite sono molto pesanti e questo turba la coscienza di tutti». · Si discute molto sulla proporzionalità della risposta armata di Israele, lei che cosa ne pensa? «Bisogna considerare la dimensione della minaccia. Rispetto al rapimento dei due soldati israeliani la risposta di Israele è certamente molto decisa e molto violenta. Poi però è emerso un pericolo molto più serio e mortale. Si è dimostrato che certe minacce di distruzione di Israele non erano parole al vento. Si stava passando ai fatti. Perciò ritengo che la reazione abbia voluto eliminare anche una minaccia incombente molto seria». · Pensa che in Italia le forze politiche e l’opinione pubblica abbiano compreso le ragioni di Israele? «La veglia di qualche giorno fa vicino alla sinagoga di Roma ha raccolto una presenza solidale di quasi tutte le forze politiche. Credo che gli italiani stiano capendo qual è la posta in gioco e le ragioni che costringono Israele a difendere la propria sopravvivenza». · Dopo tutto questo sangue e questi lutti quale futuro prevede in Medio Oriente? «Resto ottimista. Se Israele ha potuto concludere accordi con Egitto e Giordania non vedo perché non si possa stabilire un rapporto di convivenza con tutti gli altri Paesi della regione e con la popolazione palestinese, che dovrebbe poi riuscire a esprimere una propria entità nazionale».
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