Le madri pacifiste dei soldati israeliani ora dicono:"questa guerra è giusta" Fiamma Nirenstein ci fa conoscere le loro storie e le loro parole
Testata: La Stampa Data: 30 luglio 2006 Pagina: 6 Autore: Fiamma Nirenstein Titolo: «Ma questa guerra è giusta»
Da La STAMPA del 30 luglio 2006:
Israele oggi è la rappresentazione del dilemma della società democratica in guerra: un corpo a corpo con se stessa oltre che col nemico. Sul palcoscenico, la sopravvivenza e la coscienza, la ricerca della forza di andare a morire nella voglia di vivere. È la lotta di Giacobbe con l’angelo sulla sponda del fiume Jabbok. Israele, mentre intorno si cercano di disegnare opzioni possibili - è ritornata ieri sera Condoleezza Rice e arriva oggi dall’Italia Massimo D’Alema - ha tuttavia di fronte agli occhi solo un’immagine: il volto dei soldati quando tornano dalla battaglia con la faccia stravolta di stanchezza e dipinta di nero, quelli che hanno un piccolo sorriso di gloria, o gli occhi pesti per quello che hanno visto, quelli che di corsa chiamano la mamma per dire che sono vivi; si riposano due ore, mangiano, fumano, ridono, piangono, non credono a quello che hanno fatto o che è stato fatto loro e ai loro amici, e subito si ributtano dentro col fucile per estrarre i feriti e i morti. Madonne dolenti Accanto ai soldati, l’altro grande attore sul teatro di guerra sono le madri, le madonne dolenti che sanno il figlio in battaglia, o anche solo al caldo bollente o in genere in condizioni sconosciute e pericolose. Molte dicono: «Siamo forti, vinceremo»; altre sono piegate dall’angoscia. Quando nel maggio del 2000 l’esercito israeliano lasciò il Libano, lo fece a causa delle famose «Quattro Madri», Orna Shimoni, Bruria Sharon, Zohara Antebi e Rachel Ben Dor che fondarono un movimento potentissimo, che suscitò dimostrazioni di piazza e potenti slogan sull’impossibilità della società democratica, della società della felicità e dei diritti umani, di vedere i propri figli morire. Ben Dor ha lasciato Israele. Ma le altre tre hanno scritto insieme a un famoso giornalista, Ari Shavit, su Haaretz una pagina indimenticabile di memoria e ripensamento, che come un laser illuminano la storia d’Israele. Orna è in sé e per sé la parabola israeliana contemporanea, quindi la citiamo senz’altro: «Yalik, che chiamavo Eyal, nato nel ’75, era un figlio nato dopo la guerra (del ’73), un figlio dell’amore. Nell’82 il sentimento che andiamo alla perdizione mi invase... sentii che se non avessimo tirato fuori l’esercito dal Libano, tutti i ragazzi sarebbero morti. Nel febbraio del ’79 ci fu il disastro dell’elicottero (74 soldati morti). Per due settimane non potei smettere di piangere...». «Perché piangi?» «Chiamavo Eyal che era un ufficale nella base di training e lui mi diceva “perché piangi mamma? Sono vivo, ascoltami”. Arrivò durante il funerale di Avner, che era un suo caro amico. Era così bello in uniforme. E anche lui non smetteva di piangere, era impossibile farlo smettere... Sentii che un gruppo di madri si organizzavano e fui la prima a firmare. E lui mi diceva: “Mamma lo capisci cosa fate alla nostra motivazione? Se lasciamo il Libano, non ci sarà più la strada sul confine, non ci sarà difesa del nord, gli Hezbollah entreranno nelle case dei bambini del kibbutz Misgav, Hezbollah bombarderà Kiriat Shmona, Hezbollah si spargerà per il nord...”» «Fu ucciso in settembre. A Reihan. Da allora diventai ancora più attiva... mi dicevo “se avessi fatto di più, forse Eyal sarebbe ancora qui”. Oggi non penso che avevamo torto: è stata una mossa fra le più coraggiose e corrette che conosco, senza un ferito o un morto... Ma quando il fuoco è ricominciato due giorni fa il mio stomaco si è rovesciato: mi è parso di svenire, il sangue si è ghiacciato nelle vene... mi sembra che tutti i miei figli che non sono riuscita a proteggere stiano morendo. Oggi...se l’esercito fosse preso da un virus, se tutti i soldati avessero 40 di febbre, so che cosa accadrebbe: saremmo semplicemente macellati. Non resterebbe neppure una persona della nazione d’Israele, qui.... Nonostante la terribile pena questa guerra è giusta e necessaria. Non voglio che essi (i libanesi) siano uccisi, ma noi dobbiamo sparare e dobbiamo combattere, stavolta non è sulla zona di sicurezza, è questione delle nostre vite». Bruria Sharon, che condivide la stessa vicenda, è fiera del suo passato ma «proprio il fatto che siamo fuori del Libano ci consente di montare oggi questa forte risposta, una volta eravamo occupanti, oggi combattiamo per la nostra casa da confini riconosciuti internazionalmente». La «scuola democratica» E infine per Zohara Antebi, «questa guerra in termini di importanza, è simile alla guerra di Indipendenza del ’48: da come finirà, si determinerà se l’Iran controllerà il mondo arabo; se sapremo sopravvivere a fronte dell’estremismo islamico... ho visto una dimostrazione della sinistra, mi ha rattristato... il mio stomaco è annodato in questi giorni. I combattenti dell’unità Egoz, io conosco quelli caduti (in questi giorni): hanno adottato gli studenti della Scuola Democratica dell’Alta galilea, dove lavoro: la loro risata, il modo in cui giocavano a pallacanestro con i ragazzi... noi non abbiamo rovinato lo spirito del nostro esercito... l’esercito deve essere una proiezione dello Stato, e non viceversa». Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione della Stampa lettere@lastampa.it