Così Israele si difende dai terroristi antisemiti di Hezbollah seconda e ultima parte del reportage di Bernard Henry Lévy
Testata: Corriere della Sera Data: 30 luglio 2006 Pagina: 8 Autore: Bernard Henry Lévy Titolo: «Contro le falangi del male»
Il CORRIERE della SERA del 30 luglio 2006 pubblica la seconda parte del reportage di Bernard Henry Lévy da Israele. Ecco il testo:
Incontro l'ex generale Ephraim Sneh, laburista e sostenitore, non meno del ministro della Difesa Amir Peretz di cui oggi è il vice, di una pace negoziata con i palestinesi, in un luogo detto Coah Junction, letteralmente Crocevia della Forza, che agli occhi dei cabalisti è uno dei posti in cui, giunto il momento, deve manifestarsi e passare il Messia... In gioventù, Sneh è stato ufficiale medico presso i paracadutisti, comandante di un'unità di élite di Tsahal (l'esercito israeliano, ndr), poi, dal 1981, responsabile della Zona di Sicurezza d'Israele nel Sud del Libano. Ha lo stesso fisico del tranquillo padre di famiglia, cordiale e al tempo stesso burbero, che hanno i generali di riserva d'Israele quando riprendono servizio: nella circostanza, una sorta di missione di controllo per la Commissione di Difesa della Knesset. Perché quest'appuntamento? Perché mi ha convocato proprio lì? In un paesaggio di pietre, reso incandescente dal sole, dove non vedo, a parte noi due, anima viva? Vuole mostrarmi qualcosa? Spiegarmi un dettaglio di strategia che non poteva apparirmi se non da qui? Mi porterà ad Avivim che è, un chilometro più a nord, il nodo della battaglia in corso? Vuole parlare di politica? Mi parlerà, come Peretz, come la Livni, come quasi tutti, dello scoraggiamento d'Israele davanti alla scarsa ambizione di una Francia che avrebbe un così grande ruolo in Libano e in Siria; che potrebbe, se lo volesse, rimettere in piedi il Paese dei Cedri imponendo, veramente, che fosse applicata la risoluzione 1559; e che preferisce, purtroppo, limitarsi all'apertura di corridoi umanitari? Sì, mi dice questo.
En passant. Però ben presto mi accorgo che, se mi ha fatto venire fin qui, è per parlarmi di una faccenda che lo appassiona, che non ha niente a che vedere con questa guerra: altro non è che il rapimento, la prigionia, la decapitazione di Daniel Pearl... Una conversazione su Danny Pearl a un tiro di schioppo da un campo di battaglia... Un ufficiale letterato il quale decide che nulla è più urgente se non discutere, con le nostre automobili immobilizzate in una fornace e in mezzo ai sassi, della Jihad, dell'Islam dei Lumi, dell'impasse della teoria di Huntington sullo scontro delle civiltà, di Karachi e delle sue moschee terroriste... Nemmeno questo avevo mai visto. C'è voluta una spedizione sulle prime linee di una guerra dove Israele e il mondo sono più che mai legati per concepirne l'idea.
Al tempo stesso... C'è da credere che talvolta la Storia abbia meno immaginazione di quanto si vorrebbe e che i vecchi generali non hanno poi riflessi tanto cattivi. Il fatto è che, a pochi chilometri più a sud, nel villaggio di Mitzpe Hila, vicino a Maalot, le circostanze mi offrono una sconvolgente reminiscenza dell'affaire Pearl. Mi trovo nella casa dei genitori del soldato Gilad Shalit, la cui cattura da parte di Hamas, il 25 giugno scorso, fu una della cause occasionali di questa guerra. Mi interrogo sull'ironia della Storia che ha fatto sì che un giovane, senza qualità particolari e senza importanza per la collettività, si sia trovato a scatenare questo enorme evento. Siamo lì, al sole, sul prato dove Gilad giocava da bambino e dove sentiamo cadere, vicinissimi, i katiuscia, ai quali gli Shalit, solo loro, sembrano non prestare più attenzione. Siamo seduti attorno a un tavolo da giardino a discutere sulle ultime notizie portate dall'inviato delle Nazioni Unite, giunto qui poco prima di me, e intanto penso che, se questa guerra dovesse durare, se l'effetto- Iran dovesse imprimerle una portata e un'estensione nuove, quel modesto caporale sarà il Francesco Ferdinando di una Sarajevo che si chiamerà Kerem Shalom...
Ma che succede? E' forse l'espressione di Aviva, la madre, quando le chiedo cosa sa delle condizioni di prigionia del suo ragazzo? Quella di Noam, il padre, quando comincia a spiegarmi, con un povero barlume di speranza negli occhi, che suo figlio è francese da parte di una delle nonne, Jacqueline, nata a Marsiglia, e spera quindi che il mio governo unirà i propri sforzi a quelli di Israele? E' forse il dibattito, che indovino nel suo intimo, fra il padre pronto a qualsiasi compromesso per ritrovare l'adorato figlio e l'ex soldato di Tsahal che non cede al ricatto dei terroristi? E' la visita della camera del caporale quand'era piccolo? E' tutta la casa così somigliante, improvvisamente, a quella di Danny Pearl, a Encino, in California? Fatto sta che mi sento invaso da una sensazione di déjà vu e che, sui volti di Aviva e Noam si sovrappongono in me quelli di Ruth e Judea Pearl, i miei amici, il padre e la madre coraggiosi di un altro giovane, simile a questo, rapito da quei folli di Dio il cui programma ideologico non era molto diverso da quello di Hamas.
Risalire verso Avivim. Poi, da Avivim fino a Manara, tenuta dagli israeliani, dove hanno installato, in un circo di duecento metri di diametro, un campo di artiglieria con due cannoni montati su cingolati che bombardano, dall'altra parte della frontiera, gli arsenali, il comando e i lanciarazzi di Maroun al-Ras. Tre cose qui mi colpiscono. L'estrema giovinezza degli artiglieri: vent'anni; forse diciotto; la loro aria stupefatta quando parte il colpo, come se ogni volta fosse la prima; i loro scherzi da ragazzi quando l'amico non ha avuto il tempo di otturarsi le orecchie e la detonazione lo stordisce; poi, al tempo stesso, il lato grave, compreso, di chi si sa agli avamposti di un dramma immenso, e che lo sconcerta. L'aspetto indolente, stavo per dire trasandato, e l'aria sfaccendata di una piccola compagnia che mi ricorda irresistibilmente il gioioso caos dei battaglioni di giovani repubblicani descritti, ancora una volta, da André Malraux: un esercito più simpatico che marziale; più democratico che sicuro di sé e dominatore; un esercito che qui, in questo caso, mi pare agli antipodi dei battaglioni di bruti, o di Terminators senza principi né pietà, che tanto spesso hanno descritto i grandi mass media europei.
Poi quello strano veicolo, esteriormente simile a due cannoni autotrasportati, ma posteggiato in disparte e che non spara: questo terzo veicolo è una sala macchine mobile, dove si entra, come in un sommergibile, da una torretta e una scala esterna; dentro vi sono sei uomini, certi giorni sette, che si danno da fare attorno a una batteria di radar, computer e altri apparecchi di trasmissione il cui ruolo è di raccogliere informazioni per poi determinare i parametri di tiro da trasmettere agli obici; la verità è che all'origine del fuoco israeliano c'è un vero e proprio laboratorio di guerra dove soldati-scienziati, col naso incollato agli schermi, tentando d'integrare i dati più imponderabili che arrivano dal campo, sviluppano un'intelligenza ottimale per calcolare la distanza del bersaglio, la sua rapidità di spostamento e, last but not least, il grado di prossimità di civili: almeno qui, ne sono testimone, l'obiettivo prioritario è di evitarli.
Con David Grossman c'incontriamo in un ristorante all'aperto di Abu Gosh, davanti ai monti di Gerusalemme, che mi sembra un Eden dopo l'inferno degli ultimi giorni: sole sfolgorante, rumore d'insetti che non è più quello degli aerei né dei cingolati dei carri armati, un soffio di spensieratezza, un venticello leggero.... Parliamo del suo ultimo libro che è una rilettura del «mito di Sansone». Di suo figlio, appena arruolato in un'unità di carristi e per il quale sento che trema. Commentiamo una statistica che ha letto e lo preoccupa: secondo l'articolo, quasi un terzo di giovani israeliani avrebbero perso la fiducia nel sionismo e ricorrerebbero a certe astuzie per farsi esentare dal servizio militare. Poi naturalmente discutiamo della guerra, e del grandissimo malessere in cui, come gli altri intellettuali progressisti del Paese, sembra averlo fatto sprofondare... Da un lato, mi spiega Grossman, c'è la vastità delle distruzioni, il rischio dell'avvampare di una guerra civile in Libano; c'è l'errore di essersi imposti un traguardo così arduo (distruggere Hezbollah, rendere le loro infrastrutture e l'esercito innocui...) che persino una mezza vittoria rischia, giunto il momento, di avere il profumo di una sconfitta. Ma, dall'altro, c'è l'attacco sorpresa di Hezbollah contro un Paese, Israele, che si era successivamente ritirato dal Libano e poi da Gaza; c'è il diritto d'Israele, come di qualunque altro Stato del mondo, a non rimanere con le mani in mano di fronte a un'aggressione così folle, immotivata, gratuita; c'è il fatto, insiste, che il Libano è il Paese d'accoglienza di Hezbollah, il suo alleato; un Paese, al tempo stesso, al cui governo Hezbollah partecipa pienamente. Dall'altro lato, dunque, c'è il fatto che la risposta israeliana non poteva esser portata se non sul suolo libanese...
Osservo David Grossman. Scruto il suo bel volto di ex bambino prodigio della letteratura israeliana invecchiato troppo presto e divorato dalla malinconia. Non è soltanto uno dei grandi romanzieri israeliani odierni. E' anche, con Amos Oz, Avraham Yehoshua e qualcun altro, una delle coscienze morali del Paese. E credo che la sua testimonianza, la sua fermezza, il suo non cedere sulla giustezza della causa d'Israele dovrebbero convincere gli animi più perplessi.
Infine, Shimon Peres. Non volevo terminare questo viaggio senza andare, come ogni volta, ma stavolta più che mai, da Shimon Peres. E' Daniel Saada, un amico di altri tempi, membro fondatore di Sos Razzismo, stabilitosi in Israele e diventato anch'egli suo amico, a portarmi da lui. «Shimon», come tutti lo chiamano qui, ha 84 anni. Ma non ha perso nulla della sua prestanza. Né del suo magnifico aspetto di principe-abate del sionismo. Ha sempre lo stesso viso, grande fronte e grandi labbra, che sottolinea l'autorità melodiosa della voce. A momenti, ho persino l'impressione che abbia voluto incorporarsi una leggera amarezza nel sorriso, un bagliore nello sguardo, un portamento e, talvolta, di accentuare le parole che non erano proprie ma del suo vecchio rivale Yitzhak Rabin. «Tutto il problema — comincia — è il fallimento di quello che uno dei vostri grandi scrittori chiamava la strategia da stato maggiore. Nessuno, oggi, controlla più nessuno. Nessuno ha il potere di fermare né di dominare nessuno. Di modo che noi, Israele, non abbiamo mai avuto tanti amici come adesso; amici che però, nella nostra Storia, non sono mai stati così inutili. Salvo...».
Peres prega la figlia, una signora di una certa età che assiste alla conversazione, di andare, nell'ufficio vicino, a cercare due lettere di Abu Mazen e Bill Clinton. «Sì, salvo che voi li avete, gli uomini di buona volontà. I miei amici. Gli amici dei Lumi e della pace. Quelli che né il terrorismo né il nichilismo né il disfattismo porteranno mai a rinunciare. Noi abbiamo un progetto, sa... Sempre lo stesso progetto di prosperità, sviluppo condiviso, che finirà per trionfare... Ascolti...». Shimon ha fatto un sogno. Shimon è un giovane uomo di 84 anni il cui invincibile sogno dura, in effetti, da trent'anni e la presente impasse, lungi dallo scoraggiarlo, sembra misteriosamente stimolarlo. L'ascolto, dunque. Ascolto questo Saggio d'Israele spiegarmi che occorre simultaneamente «vincere questa guerra imposta», squalificare il «quartetto del male» costituito da Iran, Siria, Hamas e Hezbollah e aprire «vie di parola e di dialogo» che, un giorno o l'altro, finiranno pur per portare da qualche parte. Ascoltandolo, riudendo queste profezie vecchie ma che oggi, non so perché, mi sembrano avere un coefficiente nuovo di evidenza e di forza, mi metto a immaginare pure io la gloria di uno Stato ebraico che osasse, nello stesso tempo, quasi lo stesso gesto, dire e soprattutto fare le due cose: agli uni, ahimè, la guerra; agli altri, una dichiarazione di pace che, all'improvviso, non lascerebbe più scelta.
(traduzione di Daniela Maggioni)
(2 - Fine. La prima parte è stata pubblicata giovedì 27 luglio)
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