La solitudine di Israele e i giudici ingiusti un commento di Toni Capuozzo, e un'analisi di Carlo Pelanda sulla politica del governo Prodi in Medio Oriente
Testata: Il Foglio Data: 29 luglio 2006 Pagina: 2 Autore: Toni Capuozzo - Carlo Pelanda Titolo: «C’è sproporzione tra la nostra arroganza di giudici e la solitudine d’Israele - Le attenzioni iraniane di Prodi»
Dal FOGLIO del 29 luglio 2006 un articolo di Toni Capuozzo:
Haifa. Sì, c’è una sproporzione tra i due drammi. Davanti alla televisione è evidente: basta che guardi le immagini del quartiere sud di Beirut, e le immagini di Haifa. Basta che paragoni un appartamentino devastato a un palazzo crollato, o anche solo il numero dei morti. Non occorre far ricorso all’ideologia, o alle simpatie. Per quanto mi riguarda mi affascinano, da questa parte, i kibbutzim che sembrano isolotti socialisti, ingenui e caparbi, con i soldi in comune, una vena pacifista e un’imprenditorialità da commercio equo e solidale. Mi piacciono i riservisti, che lasciano le automobili ai bordi del campo in cui è schierata la loro batteria di artiglieria. Mi colpisce trovare in un rifugio un vecchio ebreo rumeno e una signora proveniente dal Marocco, e pensare che la terra del loro rifugiarsi è diventata, alla lettera, un rifugio. Mi piace assistere agli insulti che volano tra i passanti e sparuti gruppi di pacifisti, e pensare che Amir Peretz, il ministro della Difesa, è uno che manifestò contro Sharon, quando ministro della Difesa era lui, e per chiedere il ritiro dal Libano, o pensare che i gay hanno rinunciato al Gay pride di Gerusalemme, spiazzando l’unico tema che tiene davvero uniti i leader delle tre religioni monoteiste, nella città santa: non riescono a mettersi d’accordo su Gaza o sul Libano, ma sono tutti fieramente contrari al raduno. Mi piacciono le molte pieghe di questo mondo, mi fa pensare che potrei viverci. Ma conosco anche l’altra parte, e il sud del Libano, i campi profughi palestinesi e la rete di confine che taglia a metà la vecchia tomba che è ritenuta santa dagli uni o dagli altri, marabutto o rabbino, e la rete era stata foderata di plexiglas, per evitare che i fedeli si sputassero da una parte e dall’altra sulla tomba senza pace: a controllare la situazione un gruppo di caschi blu ghanesi, che guardavano la scena così come noi guardiamo un rito tribale, sorpresi e diffidenti. Beirut è un altro posto dove uno può vivere. Conosco la pietà, e penso che anche una sola vittima civile è fin troppo. Non mi piace fare il giudice, ricordare chi ha iniziato per primo, stavolta, e chi è aggressore, anche se non è un esercizio di memoria inutile. Ma quello che non mi piace davvero è quell’equidistanza o equivicinanza – che può essere utile, certo, nella tessitura di una trama negoziale – di chi guarda, da spettatore, come se la cosa non lo riguardasse, come se fosse un vortice di follia, da cui tenersi lontani, da cui ritenersi risparmiato, non fosse per la fatica di esprimere un giudizio, seduti in poltrona. L’unica cosa equa, lì seduti, è l’equivoco. Perché questo è un conflitto acceso a bella posta da un’organizzazione che, senza essere al Qaida, e pur avendo radici di massa, e pur essendo presente nel Parlamento libanese, è un’organizzazione terroristica, nello stile, nel programma, nei metodi di lotta. Serve ricordare gli attentati all’ambasciata e a un’associazione ebraica di Buenos Aires? O il dirottamento dell’aereo della Twa, i passeggeri liberati dopo quindici giorni, tranne uno, ucciso? Non serve, perché la storia è tutta di oggi. Da una parte Israele, e un governo che se avesse avuto bisogno di essere scoraggiato, sulla via del ritiro unilaterale dai territori, avrebbe avuto bisogno esattamente di quello che è successo. Dall’altra un’organizzazione che prende in ostaggio un paese intero, ancora prima di farsi scudo dei civili. E lo fa con un chiaro mandato politico, che consenta a Teheran e Damasco di fare nello stesso tempo gli incendiari e i pompieri. Con una tattica che è quella, aspra da affrontare, del terrorismo: io ti colpisco, alla cieca, e ti obbligo a rispondere, e ti porto a fare vittime civili, e sollevo indignazione nell’opinione pubblica internazionale, e acquisto un potere non negoziale e formale, al tavolo rotondo, perché non ho né status né dignità, ma un potere più forte, reale, perché sul terreno ho dignità di controparte, e dovrai pur trattare, se vuoi indietro i soldati sequestrati, e dovrai pur ammettere che la piazza araba mi ammira, e che l’Europa scuote la testa, davanti ai palazzoni di Beirut dissolti in una nuvola di fumo. La storia di questi giorni è tutta qui: non quanto sentiamo intollerabile la discesa nei rifugi dei sopravvissuti dal nazismo, non quanto troviamo intollerabile la tragedia dei libanesi, ma se sentiamo come qualcosa da sconfiggere la minaccia del terrorismo, o è qualcosa che non ci riguarda, e il lavoro sporco deve farlo Israele, e a noi il ruolo urgente dei corridoi umanitari, e quello comodo di chi guarda e misura le proporzioni, ignorando che le proporzioni fanno parte del dramma: se mi mostro debole, se tratto con il terrore, se accetto, se dialogo in punta di piedi, io che non ho l’arma del terrore, ma sono una democrazia fragile come tutte, e come tutte, da Bolzaneto ad Abu Ghraib, capace di sbagli e vergogne, ti incoraggio, mi dimostro vulnerabile, mi rivelo forte ma con mani legate, e la prossima volta sarà peggio. Israele si sta battendo perché non ci sia una prossima volta, ai suoi confini, e poiché si tratta di vita o morte, deve farlo continuando a essere quello che è, un paese che i civili li uccide per errore, e non perché vuole ucciderli, un paese dove ci sono obiettori di coscienza, e i comandi esortano alla moralità, nel combattimento. Bent Jbail poteva essere presa nel giro di poche ore, se avessero voluto raderla al suolo. Certo, c’è anche un differenza di culture nel combattere, e di valori. Da una parte i combattenti di Dio, votati a sacrificarsi e a sacrificare la gente intorno a sé. Dall’altra soldati che nelle pause scrivono messaggini al telefonino, e un paese dove ogni vita, ogni caduto è un nome, un cognome, una vita, un dolore. Da una parte guerriglieri di Dio, dall’altra un esercito che appare provato e quasi mortificato da anni di guerra a Gaza e nei Territori, di controlli umilianti per chi li fa e li subisce nelle code ai checkpoint, di guerra strisciante condotta da occupanti, e combattuta contro la follia del terrorismo suicida, e invece adesso è battaglia, e delle peggiori, perché è la battaglia non contro un esercito ma contro una guerriglia ben armata, ben addestrata, e con in più, rispetto alle vecchie guerriglie, l’esperienza e il cinismo del terrorismo. Forse è per questo che Israele adesso è molto unita, che i pacifisti – dio li benedica – sono pochi e isolati: siamo tornati ai vecchi tempi della minaccia ai confini, della minaccia a essere cancellati, di un paese piccolo e forte, solo contro tutti, e con tutta la dignità di chi si difende da un’aggressione: la guerra del Kippur, i sei giorni, la prima guerra pulita, per questa generazione di israeliani. E siccome nessuna guerra è pulita, c’è un lavoro sporco da fare, e da finire, con meno oscenità possibili, e arrivare al cessate il fuoco con gli artigli di Hezbollah spuntati, o almeno l’idea che attaccare Israele costa caro. Lavoro sporco cui assistiamo, scuotendo la testa, equivicini. C’è una sproporzione tra l’arroganza nostra di giudici superiori alle cose del mondo, e la solitudine d’Israele.
Di seguito, un'analisi di Carlo Pelanda sulla politica mediroeintale del governo italiano e sulle "attenzioni iraniane" di Romano Prodi:
E’evidente una divergenza tra Prodi e D’Alema che sta creando due linee di politica estera. Da un lato è cosa ovvia: il secondo si considera un leader politico pari, se non superiore, al primo e quindi non ci si può aspettare che agisca come esecutore delle strategie del premier. Infatti i commentatori trattano le diversità tra i due come un normale battibecco tra galli nel pollaio dell’Unione. Ma molti segnali e dati indicano che all’origine della divergenza ci sia ben di più. Prodi, o qualcuno nel suo staff, appaiono molto sensibili alle pressioni di due interessi pericolosi per l’interesse nazionale italiano: iraniano e francese. La lobby iraniana è sempre più attiva in Italia e dotata di mezzi. Inoltre l’Eni, presente in Iran con massicci investimenti, è ricattabile. Da un lato, per aiutare l’Eni, è ovvio che Roma debba agire con prudenza nei confronti di Teheran e farle qualche favore. Ma Prodi ha cominciato ad andare un po’ troppo oltre. L’idea di proporre l’Italia come mediatore tra Iran ed entità filoiraniane e gli altri nello scenario mediorientale è stata espressa in modi tali da far percepire Roma come cliente di Teheran. E anche come serva sciocca della pro-iraniana, ma anche attenta a non rompere con Stati Uniti e arabi, Parigi. Con la complicazione di un crescente conflitto tra sciiti e sunniti dove un eccesso di simpatia per i primi potrebbe compromettere le buone relazioni con i secondi. Infatti la Farnesina è parsa cercare di riequilibrare l’apparente sbilanciamento della linea franco-iraniana-sciita dei prodiani con una un pelo più sunnita-occidentalista. Ma la conseguenza di questi giochi levantini senza chiarezza è quella di collocare Roma come “parte” della politica mediorientale. Cosa che la politica mediterranea dell’Italia è sempre riuscita a evitare. Per esempio, da anni Roma parla con Hamas e Hezbollah, ma nessuno ha mai pensato che ne fossimo clienti. Ora non più e la cosa va corretta riportando Roma “sopra”. D’Alema non pare all’altezza del mestiere, ma gode dell’ottima tecnicità della Farnesina. Prodi conosce il mestiere, ma o lui o il suo staff sono troppo penetrati da interessi condizionanti. Pertanto è giocoforza sostenere D’Alema e Farnesina contro Prodi e Palazzo Chigi. Ma il primo un po’ più di mestiere dovrebbe impararlo e questa generosa rubrica aiuterà. Per esempio, chi scrive era a due metri da D’Alema quando cenò con Kofi Annan all’Eden. Un ministro degli esteri non deve parlare tanto, gesticolare: deve ascoltare. Per i vestiti, il come si porta la posata alla bocca e non viceversa, dove si tiene il tovagliolo, ecc., alla prossima puntata.
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