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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
29.07.2006 Missile a lungo raggio colpisce Afula
Paul Berman denuncia la minaccia iraniana, dibattito sul bombardamento israeliano contro Al Manar

Testata: Corriere della Sera
Data: 29 luglio 2006
Pagina: 5
Autore: Lorenzo Cremonesi - Ennio Caretto - Monica ricci Sargentini
Titolo: «Missile a lungo raggio colpisce Israele - «Stiamo sbagliando in Iraq, trascuriamo il Medio Oriente» - La rabbia dei cristiani contro i «fanatici sciiti» . «Le bombe contro la tv? Normale in tempo di guerra»»
Dal CORRIERE della SERA del 29 luglio 2006, la cronaca di Lorenzo Cremonesi. Ecco il testo:

TIRO (Libano) - Con il giungere della notte l’orizzonte si riempie di rombi. Per un attimo alle nove di sera il canto del muezzin sovrasta il rumore sordo dei caccia israeliani in volo. Ma gli scoppi lontani delle bombe sulle montagne si fanno sentire comunque. Qualcuna cade più vicino, tremano i vetri dei palazzi. Tiro è al buio, silenziosa, il traffico nullo.
Ma anche ieri sera si attendevano nuove ore difficili. La notizia della giornata arriva dall’Hezbollah, che annuncia di aver tirato il Khaibar-1 (dal nome della celebre battaglia combattuta da Maometto con i suoi fedeli contro le tribù ebraiche nel deserto saudita), il missile di maggior gittata sparato contro Israele sin dal 12 luglio. Al di là del confine, le autorità militari israeliane confermano che è stata colpita la cittadina di Afula, 50 chilometri all’interno del Paese. Non si segnalano vittime.
«Potrebbe trattarsi di un missile di fabbricazione iraniana, il Fajar-5, in grado di portare un’ogiva con oltre 200 chili di esplosivo, anche se quella su Afula era di circa 100», dicono i portavoce.
Questo è l’ultimo luogo dove è possibile arrivare in auto da Beirut mantenendo un ragionevole margine di sicurezza. Dopo la vallata del fiume Litani, una decina di chilometri più a nord, il paesaggio si fa sconvolto dai crateri delle bombe, le auto in movimento si contano sulle dita di una mano. «Da Tiro in poi, le strade sono tabù. Qualsiasi veicolo è considerato un obbiettivo legittimo dall’aviazione israeliana», mettono in guardia gli addetti della protezione civile libanese. Poche ore fa l’hanno provato sulla loro pelle. Un loro convoglio era partito da Tiro per cercare di evacuare i civili dai villaggi attorno alle colline sconvolte dai combattimenti di Bint Jbeil. Avevano imboccato la strada che da Nakura sale sulle montagne, ma dopo aver preso i civili terrorizzati nel villaggio di Rmeish, all’altezza di quello di Alama ech Chaab sono stati colpiti da mortai. Se la sono cavata con tre feriti. Al loro seguito c’erano anche giornalisti locali e stranieri. Un incidente che ha spinto il responsabile dell’organizzazione internazionale «Medici Senza Frontiere» a denunciare con durezza Israele. «Ma quali corridoi umanitari? I volontari delle associazioni di aiuto viaggiano a loro rischio e pericolo. Quasi tutti i villaggi del Sud sono inaccessibili, tagliati fuori dal mondo», dichiara Christopher Stokes. Il responsabile dell’Onu per gli aiuti umanitari, Jan Egeland, ha chiesto una tregua di 72 ore a Israele ed Hezbollah, in modo da potere organizzare aiuti di emergenza, soccorrere le popolazioni civili ed evacuare i feriti.
L’effetto dei bombardamenti è evidente. Solo rispetto a una settimana fa le colline attorno a Tiro sono campi di battaglia remoti. Si parla con i profughi per cercare di capire che cosa stia accadendo. «Non abbiamo alcuna prova che Israele stia usando armi al fosforo o bombe a frammentazione. Ci sono voci di agenti chimici. Ma sono solo voci. La situazione è già tanto grave che è inutile spargere notizie non confermate», dicono i medici degli ospedali a Sidone e Tiro. Nelle ultime 24 ore nella regione sono morte almeno 10 persone, altre 4 nella valle della Bekaa. Ma sono dati parziali. Nel solo ospedale di Tiro dalle 7 alle 10 di sera erano morti tre feriti giunti dai villaggi di Der Khannun e Al Nahar. Israele sostiene di avere ucciso ieri nella battaglia a Bint Jbeil 26 miliziani, cifra che porterebbe i caduti tra gli Hezbollah a oltre 200. Feriti sei soldati dello Stato ebraico.

Di seguito, un'intervista di Ennio Caretto a Paul Berman, che sottolinea l'urgenza di un apolitica che affronti la minaccia iraniana:

WASHINGTON - Paul Berman è stato - e rimane - un fautore della guerra dell’Iraq, una guerra, osserva, che forse poteva essere ritardata, e che comunque doveva essere condotta in maniera molto diversa, ma una guerra «irrinunciabile». A tre anni e mezzo dall’inizio di del conflitto tuttavia, l’autore di «Terrorismo e liberalismo» e «Due generazioni» dichiara che quella guerra ha depistato gli Stati Uniti - «in maniera non necessaria» - dai problemi di fondo del Medio Oriente e del Golfo Persico. E che ha così consentito all’Iran di allargare la sua sfera d’influenza e di propagare «il suo messaggio apocalittico». Berman, un neodemocratico di punta, teorico della diplomazia muscolare, analizza il conflitto libanese con una metafora inquietante (la stessa usata da Bernard-Henri Lévy in un suo intervento pubblicato dal Corriere giovedì). «È come la guerra di Spagna del ’36 - afferma - che attirò fascisti da tutto il mondo, Germania e Italia innanzitutto. Tragicamente, non scorgemmo in essa il preludio alla Seconda guerra mondiale». Per impedire che accada lo stesso in Libano, e il conflitto attiri quelli che chiama «fascisti islamici», Berman chiede che l’Europa, più preparata e ascoltata dell’America, s’impegni «nella battaglia delle idee», la più importante d’inizio del secolo, «con il nobile mondo dell’Islam».
Perché lei non crede che la guerra in Iraq sia stata un errore?
«Lo è stata all’atto pratico per l’incapacità dell’amministrazione Bush. Ma non si deve credere che senza l’invasione americana la crisi irachena non sarebbe mai scoppiata. Era soltanto questione di tempo: gli Usa e l’Inghilterra combattevano da anni una guerra strisciante con l’Iraq. Inoltre non si poteva continuare con la folle strategia di appoggiare il dittatore A per neutralizzare il dittatore B e viceversa nel tentativo di non destabilizzare la regione, una strategia che produsse la strage delle Torri gemelle del 2001».
Però lei pensa che abbia depistato il suo Paese.
«Ha depistato un’amministrazione che purtroppo si è rivelata in grado di affrontare solo una questione alla volta. Lo si è visto in Iraq, dove dopo una facile invasione non ha anticipato le inevitabili difficoltà, né prevenuto le difficoltà evitabili. E lo si è visto in Medio Oriente e nel Golfo Persico, dove ha totalmente trascurato gli altri focolai di tensione. Sospetto che sapesse che cosa doveva fare, ma non lo ha fatto. È inspiegabile».
Quali considera le sue negligenze più gravi?
«In un quadro più ampio di quello regionale, l’assurda tolleranza della proliferazione delle armi nucleari, dalla Corea del Nord all’Iran, e della fuga di materiali e tecnologie atomici dagli arsenali della ex Urss e di altre potenze. L’amministrazione Bush ha abbandonato gli sforzi di quella Clinton e l’Iran ne ha approfittato. Se ne è resa conto, ma tardivamente».
E nell’ambito mediorientale?
«La trascuratezza dimostrata in Palestina e in Libano. Bush ha creduto che bastassero le elezioni per fare cambiare corso a entrambi i Paesi, ha promesso di aiutarli, ma in realtà li ha lasciati soli. Due sbagli imperdonabili, che non hanno soltanto macchiato l’immagine degli Stati Uniti ma hanno anche creato un grave vuoto di potere. La democrazia istantanea non esiste, va alimentata e protetta».
Un vuoto che l’Iran vorrebbe riempire.
«Esattamente. Io non sono d’accordo che tutto sia colpa nostra, come si sente spesso dire in Europa oltre che nell’Islam. I problemi del Medio Oriente e del Golfo Persico hanno matrici proprie. Ma non si doveva ignorarli. La strage delle Torri gemelle ci sorprese perché non avevamo prestato la dovuta attenzione al nuovo totalitarismo di certe teocrazie islamiche. Non ci accorgemmo che i millenaristi e altri fanatici si stavano facevano strada».
Lei paragona il Libano del 2006 alla Spagna del 1936.
«Torni indietro di sessant’anni. Sembrava una guerra civile, che si sarebbe risolta nei confini nazionali, senza conseguenze esterne, invece fu il primo atto della più grande tragedia dell’umanità. E ora guardi alle due guerre di Israele, in Palestina e in Libano, a quelle dell’Afghanistan, dell’Iraq, a quella occulta in corso nelle province del Pakistan. Noi speriamo di prevenire il peggio, ma ci illudiamo, come ci illudemmo in Spagna».
L'amministrazione conta di separare la Siria dall’Iran.
«Potrebbe essere la mossa giusta, anche se mi pare difficile dato che Bush rifiuta un negoziato diretto: la Siria e l’Iran non sono le due facce della stessa medaglia, il credo della prima è nazionalista, quello della seconda ideologico. Ciò che fa l’Iran è più determinante di ciò che fa la Siria».
Dove in Medio Oriente lei ravvisa una presenza iraniana?
«In Iraq per incominciare, e in Palestina e in Libano: Hezbollah e Hamas sono due variazioni della stessa ideologia. C’è un equivoco in merito, che queste due organizzazioni si battano per l’identità dei loro popoli. Ma il nazionalismo non c’entra, la loro è una missione religiosa, una sfida al mondo cristiano e illuminista. È anche il caso di Al Qaeda e di altri gruppi terroristici».
Siamo allo scontro di civiltà predetto da Samuel Huntington?
«No. Bisogna distinguere tra il patriottismo arabo e il fascismo musulmano. Siamo invece al confronto delle idee, dove l’Europa può svolgere un ruolo speciale. I vostri intellettuali, i vostri leader politici e religiosi devono aprire con urgenza un dialogo con le forze moderate arabe, che sono numerose, anche nello stesso Iran».
Questo è un impegno a lungo termine. E a breve scadenza?
«Penso che la Nato debba dispiegare le sue forze in Libano come ha fatto in Afghanistan, e che la Ue debba aiutare gli Usa a mettere l’Iran con le spalle al muro sul nucleare e il terrorismo. Bisogna porre subito fine al dramma umanitario libanese e israeliano, occorre una tregua. Per me, però, altrettanto essenziale è cambiare a poco a poco la cultura politica nel Medio Oriente e nel Golfo Persico».
Crede che sia possibile?
«Ne sono convinto, anche se occorrerà parecchio tempo. Bush non ha torto quando proclama che la libertà e la democrazia sono aspirazioni universali, nessuno vuole i talebani. Ma rifacciamoci all’ex blocco sovietico: il salto dei Paesi comunisti europei alla libertà e alla democrazia maturò nel corso dei decenni, grazie anche ai contatti tra i maestri del pensiero dei due mondi».

Lorenzo Cremonesi presenta anche un quadro in gran parte inedito sui nostri quotidiani circa la rabbia dei cristiani libanesi verso Hezbollah: 

BRUMANA ( Libano ) - In Libano c’è anche chi vorrebbe che Israele facesse fuori l’Hezbollah, una volta per tutte. Un popolo che per ora tace, al massimo bisbiglia. Eppure è rancoroso, frustrato, impotente. Tra loro la grande maggioranza sono i cristiani: greci ortodossi, cattolici, soprattutto maroniti. E con essi i drusi, e molti sunniti, che vedono nel circolo di guerra scatenato dall’Hezbollah la fine del sogno di rinascita del Paese generato da Rafik Hariri. Li incontri facilmente a Brumana, villaggio benestante sulle montagne che dominano Beirut. Oppure a Faraja, la zona dello sci invernale, con le pubblicità che invitano a giocare sulla neve la mattina e poi correre a tuffarsi in mare il pomeriggio. «Gli Hezbollah mi fanno paura. Sono fanatici, primitivi, ignoranti. Trattano le donne come schiave, come esseri inferiori. Vivono la guerra santa contro Israele come se fosse una missione e per essa sono pronti a morire, a sacrificare tutto il Paese», dice Isabelle Hajjar, farmacista di Rabieh, uno dei quartieri esclusivi della capitale. A Brumana, tra ristoranti gran gourmet, bar di lusso e night club, la sera non finisce mai. Ci trovi gli ultimi modelli delle auto più costose, ragazze abbronzate vestite come sul lungomare di Porto Cervo. La guerra qui la guardano come un fenomeno che non li riguarda, oppure come una tragedia, di cui comunque l’Hezbollah è il massimo responsabile. «Se avessimo la forza li avremmo disarmati da un pezzo. Il fatto è che la gente ha paura della guerra civile. I ricordi sono troppo freschi. Io non voglio che mio fratello vada a combattere i fanatici del campo sciita, come fece mio padre vent’anni fa», sostiene frustrata Natalie Shehade, dipendente dell’ufficio turistico «Allo Taxi» e che ha visto in pochi giorni perdere tutto il lavoro per la fuga degli stranieri. I commentatori più attenti temono che la crisi innescata dal confronto tra Hezbollah e Israele possa, però, nel lungo periodo riaccendere le dinamiche dello scontro interno cessato 16 anni fa. «Alla fine non è da escludere che torni la guerra civile. È vero che la gente ne ha una paura folle. Ma è anche vero che la frustrazione cristiana sta aumentando», sostiene Rami Khouri, noto intellettuale giordano che da circa tre anni dirige il Daily Star , l’unico quotidiano di Beirut in lingua inglese. «Il problema è comunque antico, e dunque profondo. Si tratta come sempre dello scontro frontale tra maroniti e sciiti sull’identità del Libano», aggiunge. Tanto delicato che sin dagli anni Trenta si evita di affrontare un censimento per non innescare le rivalità. È comunque ovvio che l’antica superiorità demografica cristiana è terminata da un pezzo. Oggi la stima più diffusa è che i cristiani, in tutte le loro denominazioni, rappresentino tra il 30 e 35 per cento della popolazione (quasi 4 milioni e mezzo di abitanti complessivi). Gli sciiti sono comunque il gruppo maggioritario: almeno il 40 per cento.


Infine, riportiamo un articolo sul bombardamento della televisione di Hezbollah Al Manar e sulle polemiche che ne sono seguite.
A proposito delle quali ci limitiamo a ricordare che la propaganda antisemita della televisione del gruppo terroristico è parte integrante della sua strategia jihadista contro Israele.
E' un costante e diretto incitamento alla violenza, non un esercizio della libertà di espressione. 
Ecco il testo:
 

Non appena, lo scorso 12 luglio, è iniziata la guerra, gli aerei israeliani hanno preso di mira Al Manar , la televisione dell’Hezbollah che dal 1991 trasmette via satellite il verbo del Partito di Dio. Un obiettivo legittimo o un attacco alla libertà di stampa? «Una chiara dimostrazione di come Israele utilizzi la politica della violenza per mettere a tacere i media dissidenti» è stato il commento lapidario di Alden White segretario generale della Federazione internazionale dei giornalisti ( I fj ). Parole pesanti come pietre per i reporter israeliani membri dell’associazione che hanno chiesto il ritiro della dichiarazione. Ma White si è rifiutato. E, per protesta, i sei israeliani si sono dimessi: «Non ho intenzione di far parte di un’organizzazione disposta a tesserare militanti di Hezbollah - ha detto uno dei reporter -. Un terrorista non è un giornalista e se un’organizzazione internazionale preferisce averne tra le sue fila allora noi ce ne tiriamo fuori». Distruggere i centri di comunicazione del nemico è la prassi in tempo di guerra. La pensano così molti giornalisti e opinionisti italiani. Furio Colombo, senatore Ds ed ex direttore de l’Unità non ha dubbi: «Io credo che non abbiamo mai rimproverato gli americani e gli inglesi per aver colpito i centri di comunicazione nazisti. Stiamo parlando di un esercito, l’Hezbollah, che ha una struttura tale da riuscire a tenere a bada gli israeliani grazie alla tecnologia. Intere batterie missilistiche vengono attivate da computer situati in luoghi lontani dall’esplosione. E questo sistema di comunicazione lo garantisce la televisione». Enrico Mentana, fondatore del Tg5 e direttore editoriale di Mediaset , fa notare che «durante la guerra del Kosovo anche noi bombardammo la sede della televisione serba a Belgrado. Non è possibile pensare che in tempi di guerra non si tenti di neutralizzare l’antenna più pericolosa». Non si scandalizza Khaled Fouad Allam, islamista e deputato della Margherita: « Al Manar non è una televisione indipendente ma di propaganda di un partito, di una milizia islamica e in tempi di guerra è normale che venga distrutta. Non c’è niente di nuovo sotto il cielo».
Fuori dal coro Piero Ottone, editorialista di Repubblica ed ex direttore del Corriere : «Qualsiasi intervento violento contro i mezzi d’espressione è da condannare anche se la propaganda è un’attività discutibile. Ma i limiti non sono chiaramente definibili, sono più nel cuore di ogni giornalista. Al New York Times qualche tempo fa si è discusso se la news analysis fosse propaganda o informazione obiettiva».
Ma qual è il confine tra libertà di espressione e promozione di convinzioni «discutibili»? Anche Al Jazeera , la tv del Qatar, è stata spesso accusata di essere il megafono di Osama Bin Laden e di alimentare un sentimento anti-americano nei Paesi arabi. «Non scherziamo sulla libertà di espressione, - dice Enrico Mentana - Al Jazeera è una tv all news . Altra cosa sono le emittenti combattenti. In realtà dovrebbero essere i giornalisti i primi avversari della propaganda, io non ho mai visto prese di posizioni come quella dell’ Ifj contro chi inneggia ai kamikaze o costruisce falsi sull’11 settembre. Mi piacerebbe che in tempo di pace si parlasse di questo e anche dell’uso disinvolto che l’esercito israeliano fa delle notizie che passa agli organi di stampa».

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