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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
28.07.2006 E' il fondamentalismo islamico a minacciare i cristiani in Medio Oriente
ma il settimanale cattolico preferisce ignorare questa realtà

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 28 luglio 2006
Pagina: 0
Autore: Fulvio Scaglione
Titolo: «Quei piccoli ponti di pace distrutti dalla guerra»
Famiglia Cristiana nel numero 31 on line pubblica un articolo di Fulvio
Scaglione intitolato “Quei piccoli ponti di pace distrutti dalla guerra”.
La preoccupazione di Fulvio Scaglione è tutta concentrata sulla comunità
cristiana la cui presenza, nell’opinione del giornalista, è messa
seriamente in pericolo dall’attuale conflitto in Libano.
Se molti cristiani hanno dovuto andarsene da alcune città, per esempio
Betlemme, se sono stati vittime di sanguinosi attentati in varie parti del
mondo la responsabilità non è degli israeliani bensì dei fondamentalisti
islamici.
E’ l’islam fondamentalista, incapace di accettare e tollerare le altre
fedi, che mette in pericolo l’esistenza dei cristiani ma il giornalista
preferisce glissare tratteggiando la comunità cristiana come quella più
debole “per la quale nessuno si batte”.
Ecco il testo:



Quando scoppia una nuova guerra in Medio Oriente, o una vecchia guerra
riprende, le conseguenze sono tante e diverse, ma una è certa: si prepara
un’ulteriore riduzione della presenza dei cristiani. Vedremo a crisi
conclusa se Israele sarà riuscito a indebolire o a sconfiggere gli armigeri
aggressori di Hezbollah.
L’esperienza dell’ultimo secolo, purtroppo, ci dice che più probabilmente
saranno le comunità cristiane del Libano e quella palestinese a ripiegare
sotto questi colpi, a scegliere l’espatrio, a pagare il prezzo dello
scontro dei nazionalismi. Le cifre, non sempre precisissime, parlano
comunque chiaro.
L’Ufficio centrale di statistica di Israele nel 1991 valutava i cristiani
solo nel 2 per cento della sua popolazione totale (il 13 per cento della
componente araba), mentre nel 1948 i cristiani erano il 47 per cento degli
abitanti non ebrei di Gerusalemme, il 75 per cento di quella totale di
Betlemme, l’80 a Nazaret, il 90 a Ramallah.
Secondo uno studio pubblicato nel 1992 dal Patriarcato latino di
Gerusalemme, il 22 per cento dei cristiani dei Territori occupati aveva
intenzione di emigrare appena possibile. In Libano all’inizio degli anni
Settanta la popolazione cristiana era ancora il 43 per cento del totale. Ma
l’emigrazione s’impenna in prossimità delle guerre: 2 per cento tra il 1975
e il 1979, quindi 1,1 per cento tra il 1980 e il 1983, sale al 2,3 per
cento tra il 1984 e il 1987. Dall’Irak sono emigrati negli ultimi 3 anni
tanti cristiani quanti durante i 15 anni dell’embargo contro Saddam
Hussein. In Turchia, massacri e deportazioni nell’ultimo secolo hanno
sempre colpito i cristiani, greci o armeni.
Gli Stati-nazione del Medio Oriente sono nati e cresciuti nella guerra. E
il conflitto schiaccia la comunità più debole, quella per cui nessuno si
batte: la comunità cristiana. Gli ebrei cacciati dai Paesi arabi (erano
quasi un milione nel 1945, sono poche migliaia oggi) hanno trovato rifugio
in Israele. I palestinesi hanno affrontato la diaspora, ma anche trovato
accoglienza (e sfruttamento politico o economico) in altri Paesi arabi. Ai
cristiani resta la fuga verso Occidente: loro, orientali, costretti a
diventare occidentali, per poi essere accusati di occidentalismo da coloro
che hanno lavorato per allontanarli.
Le guerre nazionalistiche moderne riescono così nell’impresa che nemmeno
l’islam delle origini, in piena espansione imperialistica, aveva concepito:
svuotare il Medio Oriente dei cristiani. Privandolo così dell’unica
comunità in grado di mediare (con la cultura, prima ancora che con la
politica) tra Israele e il mondo arabo, l’unica entità che, per storia e
natura, riesce a conciliare Oriente e Occidente.
Costringerla alla fuga vuol dire far crescere il rischio di nuove guerre.
Questa è la lezione dell’ultimo secolo.
È la prospettiva del prossimo?

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