Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
La guerra islamo-fascista di Hezbollah contro Israele un reportage di Bernard Henry Lévy
Testata: Corriere della Sera Data: 27 luglio 2006 Pagina: 1 Autore: BERNARD-HENRI LÉVY Titolo: «IERI SPAGNA, OGGI ISRAELE»
Il CORRIERE della SERA del 27 luglio 2006 pubblica la prima parte di un reportage di Bernard Henry Lèvy da Israele. Ecco il testo:
Sono passati settant'anni dall'inizio della guerra di Spagna, voluta dal fascismo dell'epoca. E non posso non pensarci mentre atterro a Tel Aviv. La Siria dietro le quinte... L'Iran di Ahmadinejad... L'Hezbollah che tiene in ostaggio il Libano... Oggi, 17 luglio, è l'anniversario dello scoppio della guerra di Spagna. Sono passati settant'anni dal putsch dei generali che diede l'avvio alla guerra civile, ideologica e internazionale voluta dal fascismo dell'epoca. E non posso non pensarci, non posso non fare l'accostamento mentre atterro a Tel Aviv. La Siria dietro le quinte... L'Iran di Ahmadinejad pronto all'azione. L'Hezbollah di cui tutti sanno che è un piccolo Iran, o un piccolo tiranno, che non ha esitato a prendere in ostaggio il Libano. E come sfondo, il fascismo con il volto dell'integralismo islamico, quel terzo fascismo che, come tutto indica, sta alla nostra generazione come l'altro fascismo, poi il totalitarismo comunista, stavano a quella dei nostri padri. Fin dal mio arrivo, fin dai primi contatti con i vecchi amici che dal 1967 non avevo mai visto così tesi né così ansiosi, fin dalla mia prima conversazione con Denis Charbit, militante nel campo della pace, il quale non dubita della legittimità di questa guerra di autodifesa imposta al suo Paese, fin dal primo incontro con Tzipi Livni — la giovane e brillante ministro degli Esteri che tanto contribuì a convincere Ariel Sharon a evacuare Gaza e che ora trovo stranamente disorientata davanti a una geopolitica nuova e sotto molti aspetti indecifrabile per intelletti formati sulle categorie standard del conflitto «arabo-israeliano» tradizionale — sento che nella storia delle guerre d'Israele c'è in gioco qualcosa d'inedito. Come se, appunto, non fossimo più molto sicuri di essere limitati all'ambito d'Israele. Come se il contesto internazionale, il ruolo, ancora una volta, dell'Iran e del suo braccio armato Hezbollah dessero a tutta la faccenda un profumo e prospettive inediti. Prima di salire verso il fronte nord, ci dirigiamo subito verso Sderot, la città martire di Sderot, alla frontiera di Gaza in guerra con gli alleati Hamas di Hezbollah... Eh sì, la città martire! Le informazioni che giungono dal Libano sono così terribili, l'idea stessa delle vittime civili libanesi è così insopportabile per la coscienza e il cuore, le inquadrature, le immagini del Sud di Beirut bombardata, passate e ripassate di continuo, sono diventate così perfettamente sistematiche che è difficile immaginare, lo so, che anche una città israeliana possa essere una città martire. Eppure... Le strade vuote... Le case sventrate o crivellate da schegge di granate... La montagna di razzi esplosi depositati nel cortile del commissariato centrale, che sono caduti nelle ultime settimane... Oggi, la pioggia di altre granate che si è abbattuta sul centro della città, obbligando le poche persone che avevano l'intenzione di approfittare della brezza estiva a ridiscendere nelle cantine... Poi, religiosamente appuntate su un pannello di tessuto nero nell'ufficio del sindaco, Eli Moyal, le foto di quindici giovani, alcuni bambini, morti negli ultimi tempi sotto il fuoco degli artificieri palestinesi... Tutto questo non cancella evidentemente il resto. E non sarò certo io a prestarmi al piccolo, sporco gioco della contabilità dei cadaveri. Ma perché ciò che si deve agli uni non sarebbe dovuto agli altri? Come mai si parla tanto poco, in fin dei conti, delle vittime ebree cadute dopo che Israele ha lasciato Gaza? Per me che ho passato la vita a lottare contro l'idea che esisterebbero morti buoni e morti cattivi, vittime sospette e granate privilegiate, per me che, oltretutto, da sempre combatto affinché lo Stato ebraico lasci i territori occupati per ottenere, in cambio, la sicurezza e la pace, c'è una questione di probità e di equità nel giudizio: la devastazione, la morte, la vita nei rifugi, le esistenze spezzate dalla scomparsa di un figlio fanno parte anche del destino di Israele. H aifa. La mia città preferita in Israele. La grande città cosmopolita dove ebrei e arabi coabitano fin dalla fondazione del Paese. Anch'essa è una città morta. Una città fantasma. E pure qui, dalle alture alberate del Monte Carmel fino al mare, ecco l'urlo delle sirene che, a intervalli quasi regolari, obbliga le rare automobili a fermarsi, gli ultimi passanti a precipitarsi nelle metropolitane e che, soprattutto, rende improvvisamente palpabile l'incubo degli israeliani da quarant' anni. Infatti il problema, mi dice in sostanza Zivit Seri, l'esile, graziosa madre di famiglia i cui modi un po' goffi e l'aria indifesa mi commuovono come mi commuovevano una volta i corpi di Sarajevo, il problema, mi spiega guidandomi fra gli edifici distrutti di Bat Galim, letteralmente «la figlia delle onde», che è il quartiere della città ad aver maggiormente sofferto per i bombardamenti, il problema, dunque, non sono soltanto le persone uccise: Israele vi è abituata. E nemmeno il fatto che qui non si prendono di mira obiettivi militari, ma obiettivi deliberatamente civili: anche questo lo sapevamo. No, il problema, quello vero, è che i bombardamenti fanno intuire quello che accadrà un giorno, non necessariamente molto lontano, dove le stesse testate di missili avranno un doppio potere: primo, di mirare ancora più giusto e di colpire, per esempio, le installazioni petrolchimiche che vedete laggiù, sul porto; secondo, d'essere equipaggiate esse stesse di armi chimiche capaci di seminare una desolazione al cui confronto Chernobyl e l'11 settembre messi insieme appariranno come un piacevole preludio... Perché in effetti è questa la situazione. Sono questi, visti da Haifa, i rischi dell'operazione in corso. Israele non è entrato in guerra perché gli avevano «violato» le sue frontiere. Non ha lanciato i suoi aerei sul Sud del Libano per il solo piacere di «punire» un Paese che ha consentito a una milizia armata di costruire il suo Stato nello Stato. Ha reagito con tale vigore perché la simultaneità degli attacchi sulle sue città e delle dichiarazioni del presidente iraniano che invocano la cancellazione di Israele dalla carta geografica, e la congiunzione, per la prima volta in un'unica mano, di una volontà chiaramente annientatrice e delle armi che essa richiede, creavano una situazione nuova. Bisogna ascoltare gli israeliani quando ci dicono che non avevano più scelta. E bisogna ascoltare Zivit Seri quando spiega, davanti a un edificio sconquassato da una granata, con lastre di cemento che penzolano da pezzi di ferro ritorti, che era mezzanotte meno cinque, in Israele. Bisogna ascoltare anche la tristezza di Sheikh Mohammed Charif Ouda, il capo della piccola comunità hamadi la cui famiglia vive qui da sei generazioni, che mi riceve a casa sua, sulla parte alta del quartiere di Khababir, con indosso un shalwar kamiz e un turbante secondo la moda pachistana. Il grande errore di Hezbollah, per lui come per tutti i cittadini della città, è di colpire indiscriminatamente. Di uccidere alla cieca, ebrei e arabi mescolati, come nel massacro alla stazione centrale di HaiLa crisi ha avuto inizio il 12 luglio, quando un commando di Hezbollah è penetrato in Israele rapendo 2 militari. Il 25 giugno un altro soldato era stato rapito al confine con Gaza da estremisti palestinesi. Il premier Ehud Olmert ha definito il sequestro «un atto di guerra» e le forze armate israeliane, in risposta, hanno cominciato i bombardamenti sulle posizioni Hezbollah e truppe di terra sono penetrate in Libano per la prima volta dal ritiro del 2000. Poi l'escalation. fa, che ha fatto otto morti e venti feriti. Di far regnare un clima di terrore, dunque di continua inquietudine che, facendo le debite proporzioni, mi ricorda come gli abitanti di Sarajevo speculavano all'infinito sul fatto che era bastato un pelo, un caso, un cambiamento di programma all'ultimo minuto, un appuntamento che si prolunga, o più breve del previsto, o miracolosamente spostato in un altro luogo, ed ecco che si trovavano nel punto d'impatto del razzo! L'errore, dunque, è questo. Ma è anche, insiste, nel grande salto indietro che Hezbollah impone a tutto il Medio Oriente rimuovendo di nuovo, come sta facendo, la questione palestinese... I nfatti Charif Ouda ha ragione. Per quanto indifferenti fossero alla sorte degli abitanti di Gaza e Ramallah, almeno i dirigenti arabi tradizionali sapevano ancora fingere. Mentre Nasrallah non si preoccupa nemmeno di questo. La sofferenza e i diritti dei palestinesi ormai non sono, nella sua geopolitica intima, un litigio né un alibi. Basta leggere le sue dichiarazioni e la Carta del suo movimento, basta ascoltare i comunicati assassini passati al canale tv Al-Manar per vedere che, pur sognando una Umma riconciliata di cui l'Iran sarebbe la base, la Siria il braccio armato e Hezbollah la punta avanzata, non ha strettamente più niente a che fare di quella sopravvivenza di epoche passate che è il nazionalismo arabo in generale e palestinese in particolare. Resta il nudo odio. La guerra senza scopo di guerra. Restano tre questioni in sospeso della Jihad in versione persiana della quale la guerra attuale ha appena, in qualche modo, dato l'avvio: Israele, il Libano e, dunque, la Palestina. Ancora razzi. Ho lasciato Haifa per San Giovanni d'Acri, poi, lungo la frontiera libanese, per una successione di villaggi, kibbuz e altri moshavs che vivono, da dieci giorni, sotto un vero e proprio diluvio di fuoco, per non dire un temporale d'acciaio che cade, oggi, su questi paesaggi biblici dell'Alta Galilea. «Non ho mai saputo bene cosa bisognasse fare in questi casi», mi dice sforzandosi di sorridere il colonnello Olivier Rafovitch mentre ci avviciniamo a Avivim e il fracasso delle esplosioni sembra farsi più vicino. «Si tende ad accelerare, non è vero? A dirsi che l'unica cosa da fare è allontanarsi al più presto da quest'inferno... Ma è da idioti, a pensarci bene. Infatti, chi sa se non è proprio accelerando che si va incontro a...?». Fatto sta che, comunque, ci affrettiamo. Attraversiamo di corsa un villaggio druso deserto. Poi un grosso borgo agricolo di cui non ho il tempo di annotare il nome — forse Sasa — e che è stato evacuato. Poi una zona completamente scoperta dove un katiuscia ha appena sfondato la strada. E' pazzesco vedere i danni, visti da vicino, che questi ordigni creano. Ed è pazzesco il baccano che possono fare quando ce ne stiamo zitti a spiare il rumore della loro traiettoria che si mescola a quello dell'automobile: colpo sordo e senza fumo del razzo caduto in lontananza; detonazione stridente, esasperata, quando passa sopra le teste; vibrazione lunga, come una nota grave, quando scoppia vicino e fa tremare tutto attorno a voi... F orse, del resto, non bisognerebbe più dire roquette, razzo. In inglese non so. Ma in francese, o piuttosto in «franglese», c'è nella parola qualcosa che, come nulla fosse, riduce l'oggetto e implica una visione non del tutto attendibile, menzognera, di questa guerra. Si dice insalata di roquette, rughetta, in italiano... O croquette per i cani, crocchette... O roquet, botolo, piccolo cane più rumoroso che cattivo, che vi mordicchia i polpacci e avrebbe, di fronte a lui, il cattivo molosso israeliano... Allora, perché non dire granata, obus? O missile? Perché non rendere, utilizzando la parola giusta, tutta la sua dimensione di violenza barbara a questa guerra voluta dagli Iranosauri di Hezbollah e da loro soltanto? Politica dei termini. Geopolitica della metafora. La semantica, in questa regione, è più che mai una faccenda di morale. Gli israeliani non sono dei santi. Ed è evidente che sono capaci, in una situazione di guerra, di operazioni, manipolazioni, dinieghi machiavellici. Eppure, un segno indica che questa guerra qui non l'hanno voluta ed è caduta loro addosso come una cattiva sorte. Questo segno è la scelta, al posto di ministro della Difesa, dell'ex militante di La Paix Maintenant, «Pace adesso», che da sempre ha aderito alla causa della spartizione della terra con i palestinesi, dirigente della centrale sindacale Histadrouth e assai meglio preparato, in linea di principio, a fare scioperi che a fare la guerra: è Amir Peretz. «Stanotte non ho dormito», comincia, pallidissimo, gli occhi arrossati, nel piccolo ufficio dove ci riceve, insieme con l'editorialista di Haaretz, Daniel Ben Simon; ufficio che non è nel Ministero ma nella sede del Partito laburista. «Non ho dormito perché ho passato la notte ad aspettare notizie di un'unità di nostri ragazzi caduti, ieri pomeriggio, in un'imboscata, nel settore libanese...». Poi, dopo che un giovane aiutante, pure lui dall' aspetto di militante sindacale, gli ebbe teso e poi ripreso un telefono da campo da cui il ministro aveva ascoltato, senza una parola, gli occhi bassi, gli spessi baffi tremolanti per un'emozione mal controllata, le notizie che aspettava: «Non diffondete subito, per favore, perché le famiglie non sono al corrente; ma tre di loro sono morti e non sappiamo nulla del quarto, è terribile...». In quarant'anni, sono parecchi i ministri della Difesa di Israele che ho conosciuto. Da Moshe Dayan a Shimon Peres, Itzak Rabin, Ariel Sharon e altri ancora, ho visto succedersi eroi, semieroi, strateghi geniali e di talento e persone abili. Quello che non avevo mai visto è un ministro, non certo così umano (che la vita di un qualsiasi soldato abbia un prezzo inestimabile è una costante nella storia del Paese), né così civile (neanche Shimon Peres, dopotutto, aveva un vero passato militare), ma così poco formato, in compenso, a comandare un esercito in tempi di guerra (la sua prima decisione, fatto unico negli annali, non fu forse di amputare del 5% il budget del proprio ministero?), quello che non avevo mai visto è un ministro della Difesa che corrisponde così esattamente alle famose parole di Malraux sui comandanti del miracolo che «fanno la guerra senza amarla» e che, proprio per questa ragione, «finiscono sempre per vincerla». Amir Peretz, come i personaggi di André Malraux, vincerà. Ma il fatto che sia stato nominato indica che Israele, dopo i ritiri dal Libano e da Gaza, pensava di entrare in una nuova era, dove occorreva preparare la pace, non la guerra... ( Traduzione di Daniela Maggioni) (1- Continua)