Dal FOGLIO del 27 luglio 2006:
Roma. Il cessate il fuoco, nelle intenzioni del premier Romano Prodi, doveva essere l’obiettivo della conferenza sul Libano di ieri a Roma, al ministero degli Esteri. Nella dichiarazione conclusiva letta dal ministro Massimo D’Alema, il cessate il fuoco non è neppure il primo punto del testo. Arriva dopo gli aiuti umanitari: “I partecipanti alla conferenza di Roma hanno espresso la loro determinazione a lavorare immediatamente per raggiungere con la più grande urgenza un cessate il fuoco”, che il segretario di stato americano, Condoleezza Rice, nel suo serio tailleur beige, ha definito per la seconda volta “sostenibile”, quindi duraturo; ha anche detto, però, che non si può tornare a uno “status quo” di instabilità nella regione.
Nelle scorse settimane gli Stati Uniti non si sono allineati al resto della comunità internazionale nella richiesta di una cessazione delle ostilità. Hanno definito l’operazione israeliana in Libano parte della guerra al terrorismo. Il presidente del Parlamento libanese, lo sciita Nabih Berri, alleato di Hezbollah, ha chiesto la mediazione dell’Italia per un cessate il fuoco e lo scambio di prigionieri. A testimonianza del fatto che ad aspettarsi qualcosa dal vertice fosse solo il partito di Dio, Mohammed Raad, capo del blocco parlamentare di Beirut di Hezbollah, ha chiesto a summit concluso “un cessate il fuoco immediato” e “colloqui indiretti” per “negoziare uno scambio di prigionieri”.
Alla conferenza c’erano gli Stati Uniti, l’Unione europea, le Nazioni Unite, la Banca mondiale, la Russia, il Canada, alcuni paesi arabi, tra cui Giordania, Egitto e Arabia saudita, che nelle ultime settimane hanno sfoderato un’inedita posizione di contrasto nei confronti di Hezbollah. C’era il Libano, con il premier Fouad Seniora. Mancavano i protagonisti del conflitto in corso. Non c’era Israele. Non c’erano la Siria e ovviamente l’Iran, sponsor delle milizie sciite del partito di Dio. Il summit è durato a lungo, quasi quattro ore. Anche se D’Alema ha parlato di “concrete linee d’azione condivise”, di concreto sembra esserci soltanto l’accordo sull’apertura di corridoi di aiuti umanitari. Il dispiegamento di truppe internazionali sul confine israelo-libanese, teatro degli scontri, è già diventato una questione di difficile gestione. “In Libano dev’essere subito autorizzata una forza internazionale sotto il mandato dell’Onu per sostenere l’esercito libanese nel garantire sicurezza”. Non sono state date, ieri, indicazioni sul tipo di mandato, sui tempi di un’eventuale missione, sui suoi compiti e le sue tipologie.
“E’ tempo di fare una scelta”
Una forza d’interposizione, oggi, dovrebbe aiutare l’esercito libanese a disarmare le milizie hezbollah, come richiesto dalla seconda parte della risoluzione dell’Onu 1.559. Pochi leader internazionali sembrano disposti a mandare uomini a combattere. L’idea di truppe sul confine è già naufragata nell’indecisione sulla forma che il mandato dovrebbe prendere. La Francia ha dichiarato di volere una missione a comando europeo, possibilità che ha già creato disaccordi. Si è parlato del dispiegamento di forze della Nato, ma l’Alleanza atlantica non era al summit di Roma. La questione è talmente poco all’ordine del giorno che, secondo fonti del Foglio, il capo di stato maggiore della Difesa italiana non sarebbe stato nemmeno interpellato in proposito.
Alberto M. Fernandez, direttore dell’ufficio per gli Affari mediorientali del dipartimento di stato americano, da buon diplomatico ritiene che siano stati fatti passi sulla giusta via, con la conferenza di ieri: “I partecipanti hanno le idee più chiare sulla direzione da prendere – ha detto al Foglio – dal punto di vista americano c’è una presa di posizione più forte sull’urgenza di un cessate il fuoco”. Ma ammette che “c’è molto da fare per tradurre le parole in azione”.
Condi Rice ha chiamato in causa la Siria e l’Iran. Poche ore prima aveva palesato un’eventuale strategia: rompere l’asse Damasco-Teheran. “E’ arrivato il tempo di fare una scelta”, ha detto rivolgendosi a Damasco, dopo aver ricordato le responsabilità del regime baathista. Ma ha anche ricordato le relazioni diplomatiche esistenti tra Damasco e Stati Uniti, facendo pensare all’ipotesi, circolata nelle scorse ore, di colloqui diretti su una possibile mediazione del regime di Bashar el Assad. Rice è rimasta impassibile anche quando il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, si è dovuto nervosamente difendere dai giornalisti. Ha ricordato di non aver accusato Israele per l’uccisione, martedì, in un raid di Tsahal, di quattro caschi blu, ma di aver definito “apparentemente deliberato” l’attacco contro la base dell’Unifil.
Un articolo sulla strategia americana vista da analisti neoconservatori e libaral:
Roma. Sarà anche che Bush non è più Bush ma un’anatra zoppa da seconda parte del secondo mandato, sarà anche che la politica estera dei cowboy è rimasta scornata dalle difficoltà in Iraq, sarà anche che la popolarità del presidente americano sta quasi a zero e le elezioni di mid-term incombono. Sarà, ma gli Stati Uniti di George W. Bush e del suo capo della diplomazia, Condoleezza Rice, restano gli unici al mondo ad avere la voce abbastanza chiara per dire: “Lavoriamo a un nuovo medio oriente”. No allo status quo, no a mettere una pezza sui buchi che naturalmente si creano quando sono spazzati via due regimi in cinque anni. Certo, i toni sono cambiati. Qualche anno fa non ci saremmo neppure sognati di sentire Bush dire – off the record – che sarebbe bastato agli europei chiamare la Siria per uscire dal “merdaio”, masticando un panino al burro. Certo, ora Washington parla con le Nazioni Unite, parla con gli europei, cerca il multilateralismo su tutti i fronti, rispetta i tempi – lunghi – dei colloqui e dei negoziati e, invece che andare a muso duro contro l’asse del male, dice, come ha fatto ieri Condi Rice dopo la conferenza di Roma – o “il teatro di Roma”, come lo descrive Michael Ledeen – che “Siria e Iran devono prendersi le loro responsabilità”, devono scegliere da che parte stare. Soltanto l’America, con il solito Tony Blair (in attrito aperto però con il suo Foreign Office), ha detto che una tregua per se stessa non serve a nulla, se non a far riprendere fiato al nemico. Molti (neo)conservatori americani strepitano, accusano Bush di aver abbandonato la lotta per la democrazia per ritornare a un calmo, gentile, conciliante realismo. Danielle Pletka, ricercatrice all’American Enterprise Institute, think tank neocon, dice al Foglio che “l’implementazione della strategia di Bush è difficile”, e che, anzi, forse il colpo messo a segno da Hamas e Hezbollah con il sostegno di Teheran e Damasco nasce proprio dalla percezione della debolezza di Washington. E’ la fine della “muscle strategy”? Secondo Michael Rubin, direttore di Middle East Quarterly, molti segnali non sono per nulla rassicuranti: “Rice è ‘naïve’ – dice al Foglio – Quello che propone è fantasia diplomatica”. Rubin si riferisce all’ipotesi di dialogo con Damasco, per cercare di spezzare l’asse con l’Iran e riportare la Siria alle proprie responsabilità: “Bashar el Assad pensa di poter sopravvivere a Bush – spiega Rubin – Teheran può fare offerte all’occidente e Assad stesso può reclamare la leadership del nazionalismo arabo. Se si separa dall’Iran, però, deve sottomettersi al prestigio del Cairo, e dal suo punto di vista questo è semplicemente inaccettabile”. Ipotesi impossibile, quindi. Eppure c’è stato un momento in cui le pressioni su Damasco – forti, congiunte, decise, perfino in grado di ricomporre le fratture tra la Francia di Jacques Chirac e la Casa Bianca – si sono interrotte, proprio quando si udivano gli scricchiolii del regime in tutto il Mediterraneo. “Negligenza – sentenzia Rubin – l’occidente pensa al breve periodo, preferisce celebrare gli accordi più che attuarli”. Michael Ledeen, invece, non ha una risposta al perché la pressione internazionale su Damasco sia scemata, dice che sono i diplomatici che girano attorno a Bush a insistere sul dialogo con la Siria e che lo stesso presidente “appare frustrato” da questo atteggiamento del tipo “la Siria è amica nostra”, cosa “che io sento da quando sono nato, e che vale anche per l’Iran”. Ma Ledeen non vede cambiamenti di strategia, “sono cambiati i toni”. Diventare “anti antisionisti”, dice Berman Il problema è che la rivoluzione della democrazia ora è arrivata a un punto di svolta sostanziale, che ha a che fare con la sopravvivenza di Israele. “Chi difende la democrazia deve anche diventare anti antisionista, è questa una delle chiavi strategiche”, spiega Paul Berman, scrittore liberal e commentatore politico. Il nodo non è risolto neppure in molte parti del mondo occidentale, non soltanto nella regione mediorientale – “i liberal stessi devono realizzare questa priorità”, specifica Berman – ed è per questo che quello attuale “è un brutto, bruttissimo momento”. E’ un’altra fase della guerra al terrorismo. Non è una questione di stanchezza dell’America né di leader indeboliti, o almeno non soltanto. E’ che il jihad che si combatte dall’11 settembre sta andando ora dritto al suo obiettivo, peraltro apertamente conclamato: la distruzione di Israele.
Amy Rosenthal intervista Alan Dershowitz:
Gerusalemme. “Le provocazioni di Hezbollah pongono paesi democratici come Israele di fronte a una sfida senza possibilità di vittoria e lasciano ai terroristi ogni vantaggio”, afferma Alan M. Dershowitz, professore di legge ad Harvard e autore dei libri “The Case for Israel” e “Preemption. A Knife that Cut Both Ways”. Al Foglio spiega: “Hezbollah e Hamas hanno deliberatamente sparato i propri razzi da aree densamente popolate, lasciando a Israele (o a qualsiasi altra democrazia) due sole possibilità di scelta: o permettere che Hezbollah continui a sparare razzi e a uccidere l’innocente popolazione civile israeliana, o cercare di distruggere i razzi e le persone che li lanciano. La filosofia che guida le azioni dei terroristi è questa: costringere Israele a scegliere se rispondere o non rispondere agli attacchi, sapendo che se risponde e uccide un certo numero di civili il trio dei prevedibili accusatori – le Nazioni Unite, i media internazionali e le cosiddette organizzazioni dei “diritti umani” – gli salteranno immediatamente addosso. Ma così facendo questi ultimi favoriscono l’uccisione di un numero ancora maggiore di civili perché dicono a Hezbollah: nascondetevi dietro la popolazione civile perché, se Israele è costretta uccidere civili per prendervi, avete già ottenuto una vittoria. Il risultato è che questa ingiustificata condanna di Israele porta a un più elevato numero di morti civili”. Dershowitz sottolinea che questo è esattamente ciò che è avvenuto nelle ultime due settimane. “Hezbollah sa quel che fa ed è proprio per questo che non ha voluto costruire rifugi nel sud del Libano. Ha fatto costruire bunker per i suoi leader ma non per i suoi seguaci; e il risultato è che ci sono state perdite fra i civili e che il già citato trio di accusatori ha criticato Israele senza rendersi conto di fare il gioco di Hezbollah. Insomma, i terroristi hanno soltanto da guadagnarci e le democrazie soltanto da perderci. Oggi il problema riguarda Israele e gli Stati Uniti, ma domani riguarderà la Russia, l’Italia e la Francia, perché il terrorismo sta per essere esportato in tutto il mondo”. Chi sostiene che Israele abbia usato una “forza sproporzionata” in Libano dice un’assurdità: “Che cosa sarebbe proporzionato per rispondere al lancio di razzi contro la popolazione civile israeliana? Sarebbe appropriato che Israele lanciasse razzi contro la popolazione civile libanese? Naturalmente no. Che cosa sarebbe appropriato per rispondere al rapimento di soldati israeliani? Che Israele rapisse cittadini libanesi? Francamente, lo stesso concetto di forza sproporzionata è una completa assurdità. Non si può confrontare un gruppo terroristico che cerca di massimizzare le perdite civili con una democrazia che cerca di minimizzarle. Israele sa che ogni volta che uccide un civile subisce una sconfitta”.
Un racconto della vita ad Haifa sotto i bombardamanti di Hezbollah:
Vivo su Internet, affacciato alla mia finestra su Haifa. Vedo e non vedo l’appartamento di Moshe, Yossi e Dani, i miei nipoti. La webcam mostra gli occhi di Moshe, la sua maglietta. Haifa, in via Shneor. Nel Vecchio Mondo per molti la pace è una reazione non sproporzionata, cioè che mentre arrivano katiuscia, invece di mandare una brigata corazzata gli ebrei sorridono, come per una foto. Un rapido foto-finish. Morire piano piano e risolvere il problema, in un quadro di civiltà televisiva, durante i Mondiali, mentre il campionato viene salvato e ci sono 18 conferenze sulla pace a Roma, a Bologna e a Cattolica, perché pure la provincia ha i suoi diritti. Stamattina ho chattato con Moshe, non è a Haifa. Stasera torna a casa. Da due giorni è in un piccolo posto vicino a Tel Aviv, sta progettando un sistema multimediale per i suoi amici kabalisti di Bal Asulam. Persone che da quaranta secoli tramandano la scienza che delinea i movimenti di Dio per far salire l’uomo accanto a Lui. Adesso telefono a Riccardo, mio fratello. Vive vicino a Gerusalemme. Non ha Internet. Ha un fax e delle volte mi manda due righe col disegnino di un gatto. Se è felice, il gatto ride e c’è scritto “Gatto felix”. E’ nato nel 1937. Mi risponde al telefono in una lingua fiorentina scomparsa, in cui mi chiama “Palle”. Gli chiedo come va e lui sospira: “Eh Palle, che ci vuoi fare”. Guardo l’orologio, Moshe è in viaggio che torna a Haifa, in macchina. L’ho interrogato, “non prenderai mica l’autobus?”. Moshe è paziente, è abituato alle pressioni familiari, lo zio ha la minima alta e gli ha detto mite che viaggia in macchina, e adesso sono tranquillo come una bomba a mano. Sul tavolo mi guardano tante piccole foto, e per la prima volta nella vita mi rendo conto che queste foto sono un secolo della nostra famiglia. Mi guardano queste foto che partono dall’inizio del 900, da un paesino sotto il Balaton: Kishkunfelegihaza. Le foto sono gruppi di famiglia in bianco e nero, gente allegra, ridono in immagini stinte, tra le oche, giovani uomini dopo una partita a hockey alzano le pale; se no, eleganti, sono a una festa con belle signore. Mi somigliano, conosco i nomi, ma non so chi di loro è Shlomo, chi Eliezer, chi Giorgio. So cosa è successo a tutti loro. Il tempo passa e le foto sono in una casa di Firenze, in una via col nome di un pittore famoso sino a Kishkunfelegihaza, Giotto, e forse mio padre comprò la casa per questo. Il ciclo delle foto s’esaurisce in Israele, alla fine degli anni 60, come se la pellicola si fosse esaurita nei kibbuz, a Gerusalemme, a Haifa, e chi in Ungheria aveva vent’anni, nelle foto in Israele ne ha sessanta. Foto del Novecento ebraico. Alla tv vibra la notizia che a Haifa sono arrivati 16 missili, e Moshe viaggia con la macchina come se viaggiare durante la guerra sia una cosa normale. Oggi Yossi è al negozio di giocattoli; Dani, al terzo anno di servizio militare. Non è a casa, sta alla base della marina, dice che lì si sente più sicuro. Sulla scrivania c’è una foto di mio fratello Riccardo da bambino. Avrà sei anni. Sta vicino al babbo, la Gestapo è in giro, e loro due sorridono. Hanno trovato il tempo di farsi questa foto. E’ questo che non capisco, la vita normale quando non lo è affatto e gli israeliani che continuano a prendere gli autobus e i taxi collettivi, e a Tel Aviv i locali sono aperti e la gente dice dai, andiamo al cinema. Moshe è in viaggio e non c’è mai niente di normale. Riccardo è andato in Israele nel 1967, e anche questo non fu normale. Nel suo ufficio a Firenze noleggiavano auto. Non permettevano di fare vacanza per le grandi feste ebraiche. Per Natale, Pasqua, o l’Ascensione vacanze quante ne volevi, ma un ebreo che se ne fa di far festa perché è l’Ascensione? Un ebreo vuol stare in famiglia a Kippur. Non che mio fratello fosse religioso, aveva negli occhi le notti d’inverno col babbo, in un bosco sull’Appennino. Una divisione corazzata tedesca doppiava il passo, i cingoli dei panzer facevano tremare la terra e anche gli alberi avevano paura. Perciò Riccardo andò in Eretz Israel, perché i tedeschi non c’erano più, ma in Italia non esisteva una vita ebraica possibile. Era il primo di noi che andava via, non fui mica felice. Ma anche adesso, in questi giorni di guerra, e nei già lontani giorni dei kamikaze, una remotissima epoca, quando mio fratello è saltato in aria all’università di Gerusalemme, sul Monte Scopus, e non si è fatto nulla, ha continuato a dire: “Eh Palle, che ci vuoi fare”. Ma pure ora mi chiede di Firenze, dell’Italia, ha gioito della Nazionale; dice: abbiamo vinto. Gli ebrei italiani in Israele amano molto l’Italia, e quando sono in Italia parlano con trasporto di Israele. C’è sempre qualcosa che manca e non capisco dove sia il vero luogo di ognuno di noi. Moshe oggi è in viaggio, torna a Haifa, ma certi giorni abita vicino a Tel Aviv, oppure Toscana da noi. Sempre tende, case vere più difficile. Stamattina mi ha mandato due foto. Vedo un astronauta che galleggia nello spazio. E’ in una bianchissima, accecante tuta, illuminata da una luce perentoria; questo uomo solitario, questo nostro rappresentante. Non si vede il volto, si vede il riflesso del vetro dello scafandro. Intorno a lui, appaiono parole in un ebraico sottile, come se al posto delle miriadi di stelle ci fossero miriadi di lettere. Un pulviscolo di alef e ghimel, iod e hei, vau e lamed. E disegni di schemi, frecce, direzioni per ovunque. E’ una lezione kabbalah del rabbino di Moshe, Laitman, che è allievo di un allievo di Bal Asulam, l’ultimo grande kabbalista. Una lezione di kabbalah sulle quattro grandi distinzioni, e il nero della lavagna con le sottili lettere bianche, Moshe lo ha fatto diventare il nero dello spazio. A me questo astronauta sembra un punto interrogativo e che siamo tutti dietro al vetro dello scafandro, davanti alla vita ma non nella vita, e che senza saperlo galleggiamo una materia alta. Appesantiti, quando potremmo essere lievi. Faccio clic, la seconda foto. Un piccolo ebreo russo, vestito di nero, il colbacco, gli occhiali e i riccioli. Il maestro del maestro di Moshe. La pace in persona, fotografata nel 1900 e qualcosa; solo che la mia mente si sposta, e chissà che succede proprio adesso a Haifa, mentre sto volando e a un tratto smetto. Che succede quando c’è l’allarme, e Moshe e Yossi vanno in cucina invece che nel rifugio, se si mettono sotto il tavolo, si sdraiano sul pavimento; se si appiattiscono contro le pareti. Se spiano dalle persiane sigillate, o chiudono gli occhi; se scrutano il soffitto, se pensano all’ultima cosa bella fatta; se dicono cazzo, urlano imma, mamma. L’altro giorno due strade accanto loro è entrato un missile dalla finestra, penso a quando Moshe dice ho paura in italiano, e mi prende una dolcezza che non può fermare. Non c’è niente di normale.
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