E' possibile allontanare Damasco da Teheran ? sì sostiene Dennis Ross, no sostiene Carlo Panella
Testata: Il Foglio Data: 26 luglio 2006 Pagina: 1 Autore: la redazione Titolo: «Condi Rice deve far capire alla Siria che ha qualcosa da perdere, spiega l’ex inviato di Clinton Dennis Ross -»
Si discute sui giornali molto del tentativo americano di spezzare l'asse Siria- Iran, al centro degli sforzi diplomatici di Condoleezza Rice. Ma si tratta di una strategia che ha qualche speranza di successo? In prima pagina, Il FOGLIO di mercoledì 26 luglio 2006 raccoglie l'opinione positiva di Dennis Ross, l’inviato in medio oriente dell’ex presidente Bill Clinton. Ecco il testo:
Roma. Alla conferenza di Roma sulla crisi in Libano, oggi, non c’è Israele. Non ci sono né la Siria né ovviamente l’Iran, accusati di appoggiare e armare le milizie sciite del partito di Dio. Dennis Ross, l’inviato in medio oriente dell’ex presidente Bill Clinton, colui che ha guidato i negoziati che da Oslo hanno portato a Camp David, l’autore di “The Missing Peace: The Inside Story of the Fight for Middle East Peace” (Farrar, Straus & Giroux) è d’accordo con la strategia avanzata dal segretario di stato americano Condoleezza Rice nelle scorse ore: rompere l’asse siro-iraniana, allontanare Damasco da Teheran. L’opzione “è possibile – spiega al Foglio, al telefono da New York – ma non attraverso i paesi arabi. Gli Stati Uniti devono lavorare direttamente con la Siria. Si devono mettere nella posizione di dire a Damasco che ha qualcosa da perdere. La Siria non farà nulla gratis. Se deve allontanarsi dall’Iran deve sapere che può perdere qualcosa, che la sua situazione economica potrebbe peggiorare, che le sue relazioni economiche con l’Unione europea potrebbero essere tagliate”. Nei mesi delle manifestazioni in Libano contro l’egemonia di Damasco, nel 2005, le pressioni internazionali sulla Siria, accusata non soltanto di sostenere Hezbollah, ma di ospitare gli uffici di Hamas, organizzazione sulla lista nera del terrorismo di Washington e Bruxelles, si erano espresse in un contorverso dibattito in seno al Consiglio di sicurezza sulla necessità d’imporre sanzioni economiche a Damasco. L’Italia spera che la conferenza di oggi a Roma porti a un cessate il fuoco immediato in medio oriente. Lo ha detto il premier Romano Prodi, così come il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan. Gli Stati Uniti, rappresentati dal segretario di stato, cercano una soluzione di lungo periodo che porti a un cambiamento nella regione. L’obiettivo principale della conferenza, il cessate il fuoco, si scontra però con la determinazione d’Israele, sostenuto dagli Stati Uniti – che hanno definito il conflitto in corso una parte della guerra al terrorismo – di disarmare le milizie sciite. Per Ross, “il più grande obiettivo di Israele è di mettere Hezbollah nella condizione di non portare più a termine attacchi, di non essere più una minaccia”. Il partito di Dio, infatti, continua a lanciare razzi katiuscia sulle città del nord del paese. “La sfida – spiega Ross – è quella di produrre un piano per il dispiegamento di una credible forza internazionale”. Si è parlato, negli scorsi giorni, della possibilità di coinvolgere truppe della Nato, lungo il confine israelo-libanese, eventualità contemplata, per la prima volta, anche dal governo di Ehud Olmert. “Più di questo”, dice Ross, che vorrebbe forze d’interposizione anche “lungo il confine con la Siria e lungo ogni accesso, a nord e sud”, per impedire il rifornimento delle milizie. Dice che dovrebbe trattarsi di “una forza significativa, capace di impedire a Hezbollah di combattere”: “Deve essere così, se vuole essere credibile”. I diplomatici americani potrebbero accettare una soluzione di questo tipo, ma tutto dipende dal “mandato e dall’ubicazione” delle truppe e da chi parteciperebbe alla missione.
Il piano arabo Alla Farnesina, con Rice, ci sono funzionari di diversi paesi europei e soprattutto alcuni governi arabi. Riad, il Cairo e Amman arrivano con la proposta di un piano che prevede la fine delle ostilità, il ritiro d’Israele dal sud del Libano in cambio del disarmo di Hezbollah. Rice, che arriva a Roma dopo un viaggio in Libano, Israele e nei Territori palestinesi, ha parlato nelle scorse ore di un cessate il fuoco “urgente”, ma a condizioni “sostenibili”. Damasco è il protagonista dimenticato. Dopo il ritiro delle sue truppe dal Libano, nell’aprile 2005, le pressioni internazionali sul miglior amico di Hezbollah, milizia libanese che, secondo la risoluzione delle Nazioni Unite 1.559, avrebbe dovuto essere disarmata, sono inspiegabilmente diminuite o forse sono state contagiate dalla lentezza della politica levantina. “E’ vero – dice Ross – La comunità internazionale si è focalizzata sull’uscita dei siriani dal paese dei cedri e sull’inchiesta delle Nazioni Unite”, quella sull’assassinio dell’ex premier libanese Rafiq Hariri, portata avanti in un primo momento dal tedesco Detlev Melhis, che trovò evidenti legami tra l’attentato, i servizi segreti libanesi e alti funzionari del governo siriano. Secondo Ross, la comunità internazionale ha aspettato, pensando che qualcosa sarebbe venuto fuori dall’inchiesta dell’Onu, qualcosa capace di cambiare la situazione. Ma dell’inchiesta, oggi, non si ricorda più nessuno.
Da pagina 2 dell'inserto, la risposta negativa di Carlo Panella:
Roma. Le proposte di accordo avanzate da Nabil Berri, sciita libanese e mediatore naturale tra Condoleeza Rice, Hezbollah e la Siria, lasciano ben poco spazio all’ottimismo circa il successo della conferenza di Roma che si apre oggi. Berri è il più moderato componente del fronte sciita che unisce Beirut, Damasco e Teheran, è un nazionalista che ha subito una sanguinaria scissione con Hezbollah nel 1982, proprio perché si rifiutava di obbedire agli ordini di Khomeini. Ma la piattaforma negoziale che ora avanza evidenzia le distanze tra i due schieramenti, in particolare là dove fa suoi due punti fondamentali per Hezbollah: il rifiuto della restituzione dei soldati israeliani rapiti e la riconsegna dei 40 chilometri quadrati delle “fattorie di Sheba”. Una proposta provocatoria, perché quelle “fattorie” sono ancora occupate da Israele perché sono territorio siriano e consegnarle al Libano aprirebbe un ulteriore contenzioso con Damasco. D’altronde, l’atteggiamento negoziale di Berri è ben comprensibile a fronte della decisione non ben ponderata degli Stati Uniti – e del governo italiano – di convocare una conferenza che ha scarse possibilità di successo, non perché non vi partecipano Iran e Siria, ma perché schiera un fronte di paesi radicalmente avversi all’Iran e alla Siria. Se si invitano al tavolo delle trattative i nemici storici di un paese e solo quelli, è ben difficile che questi si senta vincolato a condurre una mediazione equilibrata. Ma a Roma partecipano ai lavori solo l’Arabia Saudita (che nel 1980 lanciò Saddam Hussein nell’aggressione all’Iran, finanziandolo con 30 miliardi di dollari), l’Egitto (il cui regime è tanto avversato a Teheran che una delle sue principali strade è intitolata all’assassino di Sadat) e la Giordania, da sempre contro gli ayatollah. Siede al tavolo anche la Turchia, ma i suoi ventennali pessimi rapporti con Damasco (vedi caso Ocalan) e Teheran sono di troppo recente ricomposizione per poter riequilibrare una caratterizzazione antiraniana della conferenza. Soltanto la Russia mantiene con Teheran e Damasco relazioni cordiali e può in qualche modo rappresentarne gli interessi. In questo contesto, non si vede a cosa siano affidate le speranze che Damasco rallenti i suoi legami organici con Teheran e si sposti sul terreno di una mediazione strategica. La Siria degli al Assad, prima Hafez e oggi Bashar, ha alcuni punti fermi nella sua struttura di potere: l’appartenenza al mondo sciita, rafforzata dal carattere misterico della setta alauita di cui gli Assad sono i leader (dominando un paese al 95 per cento sunnita); una strategia di potenza regionale basata su continue destabilizzazioni operate da forze terroriste (oggi Hamas, Hezbollah, i baathisti iracheni, Moqtada Sadr e il Fplp) ricomposte attraverso una propria mediazione di corto respiro, valida sino alla successiva destabilizzazione, con una lenta, ma progressiva espansione della propria influenza; una vocazione militarista, che si regge su un paese a economia agricola, deficitaria solo di petrolio. Tutti questi punti reggono l’alleanza siro-iraniana, siglata il 16 giugno scorso, che integra la Siria e l’Iran sotto il profilo militare, economico, petrolifero e di potenza. Che cosa può offrire la conferenza di Roma ad Assad per convincerlo a fare retromarcia dopo i passi compiuti da questa alleanza con le offensive di Hamas e Hezbollah? La risposta è evidente, soprattutto se si tiene conto che la crisi libanese deflagrò il 14 febbraio 2005 perché Damasco decise di uccidere l’ex premier Rafiq Hariri che stava perfezionando un accordo con Arabia Saudita ed Egitto per sottrarre il Libano all’influenza siriana e disarmare Hezbollah. Entrato in crisi dopo la reazione nternazionale alla mossa avventata, il regime di Assad è stato salvato dal collasso da Teheran. Oggi è quindi in grado di obbligare Stati Uniti ed Europa a un accordo di tregua al ribasso (proprio quello che Rice non vuole), di porre tali e tanti vincoli alla forza di interposizione internazionale in Libano da vanificarne il ruolo e di continuare a costituire l’avamposto occidentale di un asse del jihad che non punta solo a espandere la sua influenza regionale, ma che vuole esportare nella umma la rivoluzione khomenista sotto la parola d’ordine: “Distruggere Israele”.
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