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Il Foglio Rassegna Stampa
25.07.2006 Il manifesto degli intellettuali accecati
criticato da Giorgio Israel

Testata: Il Foglio
Data: 25 luglio 2006
Pagina: 2
Autore: Giorgio Israel
Titolo: «Perché i Nobel non vogliono riconoscere la tenaglia antisemita»
Dal FOGLIO del 25 luglio 2006:

Ricordate quei vecchi libri scolastici di storia in cui si faceva credere che la Prima guerra mondiale era scoppiata per un colpo di pistola a Sarajevo, senza il quale non sarebbe successo nulla? O che la Rivoluzione francese era scoppiata perché il popolo a corto di pane si era sentito dire in modo sfottente dalla regina Maria Antonietta “e allora mangiate brioches”? E che direste di qualcuno che, pretendendo così di restituire la complessità degli eventi storici, vi raccontasse di aver scoperto le “vere” cause, e cioè che lo zio dell’Arciduca aveva violentato la sera prima la sorella dello sparatore di Sarajevo; e che la colpa della Rivoluzione francese era dei giacobini che di nascosto avevano iniettato crema avariata nelle brioches di Maria Antonietta? Quel che direste ditelo allora dei magnifici quattro “intellettuali contro” (così li definisce il manifesto) – John Berger, Noam Chomsky, Harold Pinter e José Saramago – che hanno diffuso l’appello “Le vere vittime sono i palestinesi”, secondo cui la “vera” causa della guerra in Libano non è il rapimento di un soldato israeliano, bensì un evento occultato dai media, e cioè il rapimento da parte degli israeliani di due civili, un dottore e suo fratello. Si noti, di passaggio, l’uso truffaldino del termine “rapimento”: i nostri si guardano bene dal dire che gli israeliani “arrestano”, e che le persone da loro incarcerate godono di tutti i trattamenti previsti dalle regole internazionali (visite dei parenti, della Croce rossa, ecc.) fino alla facoltà di promulgare manifesti politici; mentre i “rapiti” in senso proprio da Hamas o Hezbollah spariscono nel nulla e niente si sa della loro sorte. Ma più ancora di questa contraffazione dell’idea di legalità, colpisce che un poker di premi Nobel ed equiparati non sia riuscito a produrre altro che una così miserevole visione storico- politica, ispirata alla celebre metodologia della ricerca di chi è venuto prima, se l’uovo o la gallina. C’è voluta la mente del più grande linguista vivente per produrre un simile exploit della ragione e della logica: quanto basta per diffidare delle teorie meccaniciste di costui, tema su cui bisognerà pur tornare. Ma non divaghiamo. Se tanto ci ha dato questo poker di menti è perché quel che conta per loro è dire che “le vere vittime sono i palestinesi” e che è in atto un oscuro ed efficace piano per “la liquidazione della nazione palestinese”. Pur di proclamarlo ai quattro venti si aggrappano alla più pretestuosa pinzillacchera, con supremo sprezzo del ridicolo. Se guardassero alla realtà dei fatti, anziché alla luna di carta che si sono appesi al dito, sarebbero costretti ad ammettere che, se si parla di liquidazione di una nazione, da mezzo secolo è di quella israeliana. Delle tante nazioni arabe e islamiche del mondo quasi nessuna riconosce Israele e il suo diritto a esistere e l’Egitto che l’ha fatto si è visto restituire ogni territorio occupato. Israele le ha tentate tutte, ha perseguito ogni opzione possibile, e ha avuto in cambio soltanto rifiuto, violenza e odio, una paranoia delirante che ha elevato a questione metafisica la contesa su frammenti microscopici di terra. Da ultimo, Israele ha deciso di ritirarsi unilateralmente. Ma neppure questo andava bene, perché per ritirarsi doveva ricevere il consenso. E comunque questi ritiri, dal Libano e da Gaza, non hanno dato luogo a concessioni sul piano del diritto all’esistenza, e neppure all’attenuazione dell’odio esplicitamente antisemita, sistematicamente inculcato fin dalla più tenera età. E’ accaduto così che Gaza liberata non sia diventata il primo nucleo della “nazione palestinese”, ma una base terrorista da cui piovono missili a centinaia; e che il Libano in mano alla milizia Hezbollah (che non ha nulla da chiedere, salvo l’annientamento dell’“entità sionista”) sia divenuto un altro tassello di accerchiamento; il tutto sotto la regia di un dittatore iraniano che ogni giorno proclama l’obiettivo della distruzione di Israele, da conseguire anche con l’atomica, e che si fa vanto di spiegare che il suo antisionismo è puro e semplice antisemitismo. Qualsiasi persona che non sia cretina o in malafede sa perfettamente che questa tenaglia mortale – entro cui Israele, se non fosse per gli Stati Uniti, sarebbe solo al mondo – è la causa della drammatica crisi in atto; e che la reazione militare è “proporzionata” alla gravità della minaccia e alla inettitudine di coloro che dovrebbero contrastarla. Qualsiasi persona che non sia cretina o in malafede ha capito che ormai la questione palestinese è un fatto secondario, o meglio uno strumento nel quadro di tale progetto di distruzione. Ma no. Per i nostri cervelloni tutto discende dal “rapimento” di un dottore e di suo fratello. E in modo alquanto ipocrita, pur ammettendo che tutti i missili, artigianali e sofisticati, “fanno a pezzi i corpi in maniera orribile”, insinuano che i secondi sono peggiori perché “cercano il loro obiettivo dove si ammassa la gente più diseredata”. Ne deduciamo che un missile Qassam ha più probabilità di piombare sullo studio di Chomsky e far fuori tutti i suoi manoscritti di linguistica: ma, di certo, da amico dei diseredati, lui non farà una piega. Vittorio Messori si è lamentato che gli diamo sempre torto per principio. Bene. Gli daremo una prova che non è così. Difatti, su molte delle cose che ha detto in un’intervista a Libero siamo pienamente d’accordo. Per esempio, alla domanda “E quelli che dicono che è la miseria a spingere i palestinesi alla guerra?”, risponde: “Una scemenza smentita da un fatto incontrovertibile. Hanno calcolato che con i soldi spesi dai paesi arabi per fare tre guerre a Israele, avrebbero potuto regalare a ogni palestinese una villa con piscina”. E aggiunge: “E’ frutto di un inquinamento marxista pensare che tutto giri attorno al denaro. Nel mondo musulmano si preferisce morire piuttosto che darla vinta a Israele”. Aggiungiamo che quella scemenza è smentita da un’altra considerazione incontrovertibile. Se tutti i profughi dovessero diventare terroristi suicidi il problema della sovrappopolazione mondiale sarebbe risolto da tempo. (Si noti, al riguardo, che nulla è più sproporzionato di un attacco suicida: un morto contro dieci, trenta, cento morti e un gran numero di feriti, talora mutilati in modo irreversibile). Invece, le decine di milioni di profughi del secolo scorso e i milioni di profughi africani degli ultimi anni non sono diventati terroristi né hanno creato campi profughi in attesa di riavere la loro terra con l’arma del terrore. Anche chi scrive è figlio di un profugo che ha perso la sua casa, e che ha preferito diventare cittadino italiano, prestare il servizio militare e integrarsi, e non ha educato figli e nipoti a costruire la vita in funzione di un riscatto da conseguire con ogni mezzo, anche i più efferati. Queste constatazioni non mirano a negare i diritti del popolo palestinese. Ma tra la ragionevole richiesta di costruire uno stato e la pretesa di farlo distruggendo un’altra nazione, e rifiutare qualsiasi altra soluzione, che non sia quella della distruzione totale, corre un abisso. In Italia non sono mai stati ammassati campi profughi alle frontiere dell’Istria, in vista di un recupero totale di quei territori e dell’espulsione totale delle popolazioni non italiane che vi risiedono. Ma le ragioni per cui i nostri quattro cervelloni hanno bisogno di dire che “le vere vittime sono i palestinesi” non hanno nulla a che vedere con la realtà ed esprimono piuttosto in modo paradigmatico tutta la nevrosi degli intellettuali del postcomunismo. Di autentica nevrosi si tratta perché il crollo del comunismo ha lasciato i suoi adepti e i suoi simpatizzanti o fiancheggiatori in uno stato di autentica schizofrenia. Non hanno più un progetto, non hanno una prospettiva, né l’ideale di una società senza classi da costruire. Resta loro soltanto la critica del capitalismo e dell’imperialismo. Ma una critica senza progetto razionale non può essere scientifica, neppure nel senso in cui pretendeva di esserlo il marxismo. Può essere soltanto critica moralistica e dietrologica: andare a cercare chi c’è “davvero dietro” a ogni evento, quali sono gli “interessi”, quali i “complotti”, che si tratti del dottore rapito o della questione dell’acqua. E quando all’analisi razionale si sostituisce il moralismo dietrologico ogni barriera cade e si è esposti a sostenere ogni fandonia, anche la più efferata: per esempio che la condizione dei palestinesi è uguale a quella degli ebrei di Auschwitz (Saramago docet); o a essere indulgenti nei confronti del fatto che il riferimento alla congiura dei Protocolli dei Savi di Sion sia un articolo dello statuto di Hamas. Poi c’è il problema dei protagonisti. Visto che il proletariato è introvabile, bisogna metterci al posto un surrogato, ancora una volta un surrogato moralistico: i “poveri”, gli esclusi”. Ma occorre che questi poveri ed esclusi siano “ribelli”, altrimenti non hanno diritto a compassione e interesse. Difatti, che gliene importa ai magnifici quattro delle migliaia di morti nelle (per loro) inesplicabili tragedie africane? Sono miserabili che non si ribellano, e quindi peggio per loro. Avete mai letto un appello degli “intellettuali contro” sul Sudan? Invece, i palestinesi sono i protagonisti ideali: ribelli e poveri, la loro povertà è tanto più apprezzabile perché è una povertà per scelta. Potrebbero essere ricchi, ma preferiscono spendere i soldi in armi in nome di un ideale. Non si potrebbe dare un miglior surrogato del proletariato rivoluzionario. Quanto piacerebbe a Saramago guardare ancora alla stella polare del compagno Stalin! Al confronto, il decadente compagno Fidel è soltanto una misera fiammella. Ma c’è il coraggioso popolo palestinese, l’unico che può risollevare al cielo le note dell’amato slogan “El pueblo unido, jamás será vencido”. Poi al compagno Saramago si è affiancato un vecchio esponente di quel “marxismo umanistico” anglosassone la cui principale caratteristica è un fanatismo ideologico che non teme confronti. Per completare la miscela si è aggiunta una coppia di ebrei odiatori di sé, esemplari vittime di quel lavaggio del cervello con cui per decenni l’ideologia “progressista” ha tormentato generazioni di ebrei predicando che per essere liberi” dovevano rompere con le loro radici. Mettete insieme un simile quartetto (e a mo’ di aureola l’immagine di Zapatero con la kefiah al collo) e avrete l’immagine dell’occidente che si odia e che esporta le proprie efferatezze. Se fossi un palestinese mi terrei alla larga da simili “amici”, non meno di quanto mi terrei una buona volta alla larga da coloro che vogliono usarmi come strumento per i loro progetti criminali. Infine, un’osservazione per concludere. Al posto di Claudio Magris mi terrei alla larga da un eccesso di considerazioni escatologiche sulla shoah, a proposito di una situazione in cui l’esistenza di Israele è in gioco per fatti assai più concreti e drammatici – la fragilità descritta dalle centinaia di missili che piovono sulle città israeliane – che non simboli della passata tragedia dell’ebraismo europeo. Magris è persona troppo al di sopra delle miserie del quartetto degli “intellettuali contro” per non comprendere l’importanza di evitare l’atteggiamento che Alain Finkielkraut ha egregiamente definito come quello del “giudice penitente”. Difatti, c’è qualcosa che non quadra se, a forza di parlare di shoah, si finisce con l’additare soltanto i difetti di Israele e la sua incapacità di rispettare persino i diritti dei suoi cittadini arabi. L’unico risultato è che non si dice nulla degli altri, che si tace di fronte al disumano fanatismo di chi persino di fronte alla morte dei figli a opera di una bomba Hezbollah la addebita alle mani sporche di sangue di Olmert. Questo fanatismo non è anch’esso una componente della tragedia e non soltanto i “difetti” degli israeliani? E non ne è una componente il cinismo della politica europea? Non stupisce che l’Europa non abbia ancora risolto il suo problema con Auschwitz, ma non è una buona idea compiere la penitenza atteggiandosi soprattutto a giudice severo di Israele.

Di seguito, l'appello di Chomsky, Saramago, Berger e Pinter, pubblicato dal MANIFESTO il 21 luglio 2006:

L'ultimo capitolo del conflitto fra Israele e Palestina è iniziato quando le forze Israeliane hanno rapito due civili, un dottore e suo fratello, a Gaza. Un incidente per lo più ignorato dai media, ad eccezione della stampa turca. Il giorno seguente, i palestinesi hanno fatto prigioniero un soldato israeliano e proposto un negoziato per scambiare i prigionieri - ci sono circa 10.000 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane. Che questo «rapimento» sia stato considerato oltraggioso, mentre l'occupazione militare illegale della Cisgiordiana da parte di Israele e l'esproprio sistematico di tutte le sue risorse - in particolare l' acqua - venga considerato spiacevole ma inevitabile è un tipico esempio del doppio standard continuamente impiegato dall'Occidente rispetto a ciò che viene fatto contro ai palestinesi, sulla terra promessa loro dai vari accordi internazionale da settant'anni a questa parte. Oggi ad oltraggio segue oltraggio: missili artiginali incrociano missili più sofisticati. Questi ultimi in genere cercano il loro obiettivo proprio dove di ammassa la gente più diseredata , ancora in attesa di ciò che un tempo veniva definita giustizia. Entrambe le categorie di missili fanno a pezzi i corpi in maniera orribile. E chi, tranne i comandanti sul campo, può scordarsene anche solo un momento? Le provocazioni e le controprovocazioni vengono ogni volta contestate o acclamate. Ma tutti gli argomenti a posteriori, accuse e promesse, finiscono col fungere da diversivo per allontanare l'attenzione del mondo da una lunga pratica militare, economica e politica il cui fine non è nient'altro che la liquidazione della nazione palestinese. Tutto ciò deve essere ribadito chiaramente perché questa pratica, benché spesso dissimulata o nascosta, ultimamente sta andando avanti sempre più rapida. E, secondo noi, va incessantemente ed eternamente riconosciuta e contrastata per quello che è. John Berger, Noam Chomsky, Harold Pinter,José Saramago

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