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La Stampa Rassegna Stampa
23.07.2006 Spinelli, Sabahi , Zaccaria: i campioni della disinformazione sul quotidiano torinese
se non bastassero, c'è anche un capo dei Fratelli Musulmani a diffondere la sua propaganda

Testata: La Stampa
Data: 23 luglio 2006
Pagina: 1
Autore: Barbara Spinelli - Farian Sabahi - Giuseppe Zaccaria
Titolo: «Sovrani e marionette - Teheran «Noi fuori dalla guerra» -Un sospetto negli ospedali di Beirut «Tel Aviv sta usando bombe proibite» «La vicenda dei soldati è un futile pretesto In realtà Israele e Usa vogliono soltanto sottomettere e umiliare il mondo isla»

Nel suo editoriale pubblicato in prima pagina dalla STAMPA del 22 luglio 2006 Barbara Spinelli opera una fraudolenta equiparazione tra il rapporto di alleanza tra Stati Uniti e Israele e quello tra "movimento nazionale" palestinese e islamismo.
Che Israele sia uno  strumento delle politiche "imperialistiche" americane è soltanto una fantasia dei diversi totalitarismi, laici e religiosi, che sono prosperati nel mondo arabo-islamico.
La realtà è quella di due democrazie egualmente odiate dai socialnazionalisti
 arabi e dai fondamentalisti, ed egualmente attaccate dal terrorismo.
Inevitabilmente alleate, dunque, nel farvi fronte.
Il rapporto tra islamismo e nazionalismo palestinese è di ben diversa natura.
Nelle circostanze decisive della storia palestinese il sogno jihadista della distruzione di Israele ha sempre preso il soppravvento sugli obiettivi semplicemente nazionali.
Così i palestinesi guidati da Amin Al Hussein respinsero il piano di spartizione dell'Onu e diedero inizio alla guerra nel 48.
E, nel 2000, guidati da Arafat, respinsero l'accordo di Camp David e diedero inizio all'intifada del terrorismo suicida.
Il rifiuto di prendere atto dell'assimettria del conflitto mediorientale, che oppone un'idelogia totalitaria mondiale all'aspirazione all'indipendenza e alla sicurezza degli israeliani porta la Spinelli a vedere nei contendenti un'identica incapacità di "riconoscere l'umanità dell'altro" e infine a proporre una soluzione del tutto erronea al contenzioso.
Quella della riniuncia alla sovranità da parte di Israele e della sua sottomissione a organismi sovranazionali ricalcati sul modello dell'Unione Europea.
Dimenticando che in Medio Oriente i partner di Israele non sarebbero la Germania e la Gran Bretagna, ma la Siria, l'Iran, l'Arabia Saudita e altre dittature più omeno compromesse con il terrorismo e con la jihad contro l'"entità sionista".

Ecco il testo:

LA maniera in cui è stata condotta la guerra al terrorismo, tra il 2001 e i giorni d’oggi, ha finito col produrre il peggiore degli incubi: lo Stato d’Israele, che è un frammento di storia europea trapiantato nelle terre arabo-musulmane, è veramente in pericolo di vita, isolato nella regione e dipendente da una potenza - gli Stati Uniti - che non può permettersi l’abbandono dell’alleato ma non possiede una politica per garantirlo completamente. Che rischia anzi di usarlo alla stregua di una marionetta: gettandolo in una guerra con Hezbollah che riproduce, in piccolo, il più grande confronto Usa-Iran. Lo status quo nella regione è stato rotto in questi anni, come arditamente si proponeva Bush prima e dopo l’11 settembre, ma si è rotto a vantaggio delle potenze integraliste che cercano di conquistare l’egemonia sul mondo musulmano e si propongono di distruggere Israele usando come una tenaglia il terrorismo di Stato e il terrorismo nato fuori dagli Stati: Iran e Siria da una parte, Hamas e Hezbollah dall’altra.
L’incubo è sempre un passato che si vendica, e non a caso la storia del Novecento si risveglia con le sue parole più maledette, trascinando tutti coloro, in Europa e Occidente, che di quella storia sono stati artefici e di essa restano responsabili. Accade così che il presidente Ahmadinejad scriva a Angela Merkel senza parlare del Libano ma evocando la Shoah, e ricordando che Germania e Iran hanno un interesse comune: ricominciare a pesare nel mondo, ritrovare una coscienza nazionale di cui sono stati ingiustamente privati, sbarazzarsi insomma del fardello dell’olocausto. Dell’olocausto si parla dunque normalmente ormai, non solo in comizi integralisti ma nelle corrispondenze tra Iran e Occidente. Si dà per scontato che nessun ritiro israeliano risolve la crisi, considerata l’ingiustizia che fu la nascita stessa d’Israele.
Tanto più importante è che la coscienza di esser di fronte a un incubo di questo genere sia forte in Italia, da parte di un governo che ha iscritto nel proprio programma la volontà di prender le distanze dalla strategia inglese-americana di lotta al terrorismo. Nei loro sforzi, Prodi e D’Alema non negano che Israele combatta una guerra esistenziale, non più motivata dall’occupazione di territori, anche quando accusano Olmert di reagire sproporzionatamente e distruggere la nazione libanese con la scusa di voler neutralizzare le milizie sciite che Beirut non controlla. Questo dà forza alle posizioni del centro sinistra, e spiega come mai la prima grande conferenza internazionale sul Libano si svolgerà a Roma, il 26 luglio. Quando D’Alema dice che questo è il momento per l’Europa di divenire protagonista e di «disegnare un suo ruolo in Medio Oriente», esercitando un’«influenza moderatrice su Israele e dissuasiva verso il terrorismo islamico», quando insiste su una guerra divenuta esistenziale per Israele, fa capire che il nostro continente ha responsabilità storiche e proprio per questo deve trovare, con l’America, un’alternativa alla fallimentare strategia di Bush.
Quel che è accaduto in Europa durante il nazismo ha infatti dato vita non solo allo Stato d’Israele, ma anche agli effetti che esso ha prodotto sui palestinesi. Anche del loro sciagurato destino gli europei sono responsabili - del formarsi di una vastissima diaspora di profughi nella regione - così come lo sono per quello d'Israele. E’ nelle loro mani la sopravvivenza del Libano, esattamente come lo è la sopravvivenza di Israele. Resuscitando il nucleo di Paesi (core group) che aiuta il Libano a liberarsi della Siria - il comitato include anche l’Italia - D’Alema reintroduce il nostro governo nel Grande Gioco che Washington ha in questi anni dominato e che ha visto l’Europa frantumata, non rappresentata, e tanto più dipendente da Russia o America.
Ma la storia del nostro continente ha un peso ancor più vasto, che risale non solo alla prima metà del ‘900 ma al secolo che precede le guerre mondiali. Se oggi si è arrivati a questo punto in Medio Oriente, se tutto intero il popolo libanese paga le conseguenze d’una guerra che è ormai questione di vita o di morte per Israele, se la Shoah è divenuto dispositivo centrale di una potenza ascendente come l’Iran - è perché qualcosa non ha funzionato, nelle idee che Israele e gli occidentali si son fatti per cinquant’anni di uno stabile Stato israeliano incuneato in Palestina. Quel che non ha funzionato è il discorso della sovranità assoluta degli Stati nazione, grande tabù e grandissima menzogna del Medio Oriente: tabù e menzogna ereditati dalla storia dei nazionalismi d’Europa, e in particolare dalla storia di coloro che più si illusero d’esser interamente sovrani, in Europa centro-orientale. Al pari di questi ultimi, nessuno tra gli Stati medio-orientali è nei fatti sovrano, e la loro malattia consiste nel negarlo e nel comportarsi come se lo fossero, con risultati rovinosi.
Si finge assolutamente sovrano Israele, fin dalla nascita dello Stato nel ’48, quando il sionismo preconizzava l’occupazione - da parte di un «popolo senza terra» - di una «terra senza popolo»: l’hybris nazionalista si riassume ominosamente in simili slogan. In realtà Israele dipendeva dall’estero, dipendeva finanziariamente e militarmente dagli ebrei Usa e da Washington. Così, specularmente, gli arabi in cui si insediò la diaspora palestinese. Tutta la battaglia palestinese per uno Stato sovrano è stata il tentativo non di negoziare con Israele, ma di conquistarsi beneplaciti all’estero: prima dell’Urss, poi della Siria, dell’Iran, del Fronte del rifiuto.
Del Novecento europeo si sono così presi in eredità tutti i vizi, e non le virtù apprese successivamente, quando si vide che i vizi avevano prodotto catastrofi. Se si parla con tanta coazione a ripetere di un secondo olocausto è perché, a monte, si tengono in vita la perversioni che all’olocausto hanno portato: i nazionalismi etnici, l’irredentismo che attorno non vede altro che «terre senza popoli», la presunzione della sovranità assoluta. L’internazionalizzazione sistematica del conflitto medio orientale ha forse scongiurato sciagure ma ha anche coperto queste malattie, occultandole e acutizzandole. L’attaccamento d’Israele all’America, l’attaccamento dei palestinesi prima all’Urss poi agli arabo-islamisti, sono i due volti di una comune infermità politica.
Internazionalizzare il conflitto resta certo una via obbligata nelle presenti circostanze, e la conferenza di mercoledì a Roma è un passo avanti che fa sperare. Ma è un passo avanti a condizione di sapere che c’è un lato molto oscuro, dell’internazionalizzazione praticata lungo i decenni. Israele non può condurre offensive per procura, in rappresentanza di una potenza Usa drasticamente indebolita in Iraq, senza precipitare in guerre esistenziali potenzialmente suicide. Gli integralisti di Hamas e Hezbollah non possono puntare tutto sui grandi protettori (Iran, Siria) senza mai guardare la realtà d’Israele. La situazione è precisamente quella descritta da Hannah Arendt in un profetico saggio del 1948. La dipendenza da forze esterne (mandatari inglesi ieri, Usa oggi) ha «mutato pochissimo l’iniziale sensazione di completa estraneità tra arabi ed ebrei». Essa ha fatto sì che gli ebrei divenissero «fantasmi» per i palestinesi, e i palestinesi fantasmi per gli ebrei. Ognuno ha visto nell’altro marionette di vaste cospirazioni. E il risultato è stato: «L’incapacità degli ebrei e degli arabi di vedere i loro vicini come concreti esseri umani» (Hannah Arendt, Pace o Armistizio nel Vicino Oriente, in: Ebraismo e Modernità, Feltrinelli ‘93). Nessun serio riconoscimento reciproco era a questo punto possibile, nessuna coscienza di quanto necessaria fosse la «mutua dipendenza» arabo-israeliana. Chi in Israele proponeva una via alternativa alla sovranità totale, partendo da questa mutua dipendenza e proponendo una federazione anziché un classico Stato nazione ebraico - fu il caso di politici come Judah Magnes, presidente dell’università ebraica e del gruppo palestinese Ihud (Unità); ma anche di Azzam Bey segretario della Lega araba nel ‘45, del libanese Charles Malik nel ‘48, del filosofo Martin Buber - fu emarginato nei decenni di fondazione d’Israele.
Internazionalizzare il conflitto, anche quando è una via che s’impone, racchiude questi pericoli. Il pericolo, innanzitutto, che ciascuno - Europei, Russi, America, Iran - usi il Medio Oriente per ritagliarsi un profilo non tanto regionale quanto mondiale, non tanto politico quanto ideologico. Il pericolo di usare parole inadatte ai rapporti tra Stati come l’amore per Israele o Palestina, o come sovranità e la stessa parola internazionalizzazione, che è vocabolo facilitatore ma anche corruttore, deresponsabilizzante. Perché l’internazionalizzazione facilita paradossalmente la grande bugia delle sovranità assolute, i nazionalismi d’Israele e degli arabi-musulmani. I dirigenti israeliani hanno cominciato a capire il dramma della finta sovranità, decidendo prima il ritiro dal Libano poi la parziale rinuncia a Gaza. Ma lo hanno fatto in modo unilaterale, senza scegliersi interlocutori con cui negoziare, e anche quest’unilateralismo (criticato prima ancora che da D’Alema da tanti pensatori israeliani) è figlio di illusioni di sovranità. Gli arabi estremisti ancora non si muovono, invece. La cosa da loro tuttora incompresa è che le lettere di Ahmadinejad all’Europa sono completamente fuori tempo. Gli europei hanno preso congedo dal nazionalismo: è perché hanno visto i suoi disastri che hanno creato un’Unione sovrannazionale, non molto diversa dalla Federazione sognata per la Palestina da Magnes e dai suoi rari eredi.
Prima o poi anche il Medio Oriente dovrà seguire quell’esempio, accorgendosi che la sovranità classica è mortifera, anche quando si scioglie nell’universalismo pseudoreligioso. Potranno farlo se vedranno persone e uomini, nelle terre circostanti. Se capiranno che né Europa né America possono sacrificare gli ebrei, per la seconda volta nella storia. Se capiranno che una marionetta costretta a guerre esistenziali non è più neppure una marionetta, ma un capro espiatorio. Se capiranno che dalle esperienze d’Europa potrà venire un giorno una garanzia meno precaria: una garanzia fondata sulla limitazione delle sovranità medio orientali, e non su una posticcia sovranità che permette a Washington di proteggere sporadicamente Israele, ma anche di usarlo a propri fini

Un'Iran responsabile di fronte a un'Israele aggressivo e pericoloso compare nell'articolo di Farian Sabahi a pagina 2, che riporta acriticamente le incredibili rassicurazioni della propaganda di Teheran, secondo le quali il regime sarebbe intenzionato a "tenersi fuori" dalla crisi libanese: come se Hezbollah non fosse notoriamente una creatura degli ayatollah.
Ecco il testo:
Che cosa può ottenere e cosa rischia l'Iran nella guerra tra Hezbollah e Israele? L'unico, ovvio vantaggio dell'escalation di violenza è che all'ultimo G8 non si è discusso del programma nucleare iraniano, una questione momentaneamente passata in secondo piano. Per il resto, la crisi libanese può solo portare guai a Teheran.
Accusati di appoggiare Hezbollah, le autorità iraniane sono ben consapevoli che i caccia israeliani potrebbero scatenarsi sulle installazioni nucleari di Bushehr e Natanz. Oltre a un attacco israeliano, che potrebbe diventare realtà se gli Hezbollah dovessero osare porsi come obiettivo Tel Aviv, l'Iran rischia di essere accusato di fomentare la guerra e teme quindi una perdita di prestigio nella comunità internazionale, con ovvie conseguenze in termini di ulteriore isolamento.
Per questo motivo, nei giorni scorsi gli iraniani hanno più volte dichiarato di «non avere avuto nessun ruolo nella cattura dei due soldati israeliani». Ammettono di «avere contribuito alla creazione di Hezbollah nel 1982 e di dare aiuti politici e spirituali alle milizie sciite», ma negano «i finanziamenti all'organizzazione di Nasrallah e, al tempo stesso, la fornitura di armi e la formazione dei militanti».
Mentre gli israeliani non sembrano propensi a fermarsi, nella giornata di ieri i vertici iraniani hanno fatto, per cautela, altri due passi indietro: uno militare, l'altro diplomatico. Il capo di Stato maggiore, il Generale Hassan Firouzabadi, ha dichiarato che le forze armate iraniane non si lasceranno coinvolgere nella crisi libanese: Teheran continuerà a sostenere Beirut attraverso la diplomazia. L'attacco al Libano, ha osservato il generale, fa parte del progetto americano di un Grande Medio Oriente, che gli Stati Uniti faticano a realizzare. E, per fare pressione su Washington, Firouzabadi invita i Paesi arabi a bloccare le esportazioni di greggio verso Israele.
Escluso il coinvolgimento militare dell'Iran, le autorità di Teheran hanno spostato una pedina in diplomazia presentando le condoglianze, attraverso la propria ambasciata in Argentina, alle famiglie delle vittime dell'attentato terroristico in un centro ebraico a Buenos Aires, il 18 luglio 1994. Gli israeliani accusano Teheran di essere il mittente dell'attentato e gli ayatollah negano, ancora una volta, ogni coinvolgimento nell'episodio.
Consapevoli della superiorità dell'arsenale militare israeliano, i vertici di Teheran si limitano a sferrare un attacco teologico. In risposta ai rabbini israeliani, secondo cui «in tempo di guerra la Torah permette l'assassinio di donne e bambini», la comunità ebraica iraniana ha «condannato questa interpretazione sostenendo che gli insegnamenti religiosi del giudaismo non permettono mai l'uccisione di civili».

Questo passaggio è particolarmente scorretto: anzitutto perché considera lo Stato di Israele responsabile delle dichiarazioni di alcuni rabbini (il senso delle loro parole è presumibilmente che in una  guerra di difesa uno Stato deve avere come assoluta priorità la tutela della vita dei suoi cittadini) e gli ebrei iraniani come un parte del regime degli ayatollah , al punto da attribuire a quest'ultimo una risposta "teologica" alla guerra di Israele.
Sono "teologia" anche le armi generosamente fornite a Hezbollah?


 L'esperto religioso della comunità ebraica iraniana, Yunes Hammami Lalehzar, ha osservato che «la frase pronunciata dai rabbini israeliani non un è un verso della Torah ma fa riferimento al tempo delle sette nazioni che vivevano nella Terra promessa circa 3500 anni fa: praticavano l'idolatria e diventarono monoteisti solo con l'arrivo del profeta Mosé».
 


Giuseppe Zaccaria, sempre a pagina 2 denuncia il "sospetto" che Israele utilizzi "armi proibite" nella guerra libanese.
Le sue fonti sono un quotidiano libanese di estrema sinistra e un sito vicino a quella che definisce la "resistenza irachena", che hanno riunito e diffuso foto di vittime dei bombardamenti sostenendo che indicherebbero l'uso di armi non convenzionali.
Zaccaria trova un solo medico libanese disposto a rispondera alle sue domande , dichiarando di aver visto corpi dei quali non sa spiegare le condizioni.
Ma tra il personale sanitario libanese c'è chi smentisce queste spericolate supposizioni.
"Non è vero che Israele utilizza bombe al fosforo" sul sud del Libano, dichiara Ahmad Mroue , direttore del più grande ospedale della zona, a Lorenzo Cremonesi, del CORRIERE della SERA.
Ma a Giuseppe Zaccaria non interessa verificare le storie che pubblica.
Gli interessa solo che suscitino il massimo dell'orrore. E dell'odio contro Israele?
Ecco il testo:


  In ogni guerra giunge il momento dell'orrore, e per la spedizione punitiva sul Libano quel momento è adesso. In poche ore prima un giornale della capitale e poi un sito Internet diffondono fotografie dal contenuto orribile che però mostrano cosa sta accadendo ai quattro angoli del Paese, soprattutto dove le televisioni non possono arrivare.
Sono immagini di pura macelleria, persone dilaniate dalle bombe, cancellate dagli spostamenti d'aria, quarti umani sparsi nella polvere, umani bruciati vivi da una sostanza che non si capisce ancora quale sia. Anche questa è propaganda, però appartiene a quel genere di propaganda che in poche ore fa il giro del mondo.
L'altra mattina a Beirut il giornale «Al Safir» (ossia l'ambasciatore, «la voce di chi non ha voce» come recita lo slogan sotto la testata) aveva pubblicato alcune istantanee purgate per quanto era possibile farlo e perfino con quei tagli le immagini erano risultate repellenti, troppo crude per attirare l'attenzione e vincere il rifiuto istintivo del lettore. Il quotidiano poi è di quelli minori, genericamente schierato a sinistra, insomma non proprio un «New York Times» libanese. Adesso ha aperto un sito dedicato a questo orrore.
Oggi la rete internet ripropone sequenze in versione integrale e lo fa attraverso vicino alla resistenza irachena (uruknet.info) che non nasconde per nulla né il proprio antiamericanismo né l'avversione a Israele però con tutte le avvertenze del caso, credetelo, propone spettacoli difficili da reggere.
Lo scopo di chi ha diffuso istantanee di pura macelleria è chiaro, si vuole spargere nel mondo orrore, esecrazione, sdegno, rispondere con la violenza delle immagini alla violenza delle armi. Certamente anche nella Galilea chi ha soccorso i coloni uccisi dai razzi di Hezbollah avrà visto analoghe panoplie di resti umani però in questo caso l'operazione è più inquietante poichè la galleria degli orrori viene proposta sotto un titolo all'apparenza innocente: «Can you help us, please?». Per favore potete aiutarci, sapete dirci quale tipo di arma può provocare simili danni?.
Il dubbio emerge dalle dichiarazioni di alcuni medici: i jet di Israele stanno adoperando armi proibite, o in parole più povere bombe al fosforo? Il direttore del «South Medical Center» di Saida, città del Sud si chiama Bashir Saam e mostrando una macabra sfilata di corpi anneriti lancia l'allarme. «Questi sono i corpi di alcune persone uccise il 17 luglio nelle incursioni contro un ponte e sono arrivati in condizioni davvero strane. Appaiono neri per le ustioni però hanno il cuoio capelluto intatto, nessun trauma interno però sono gonfi e puzzano in un modo che non ho mai sentito prima. Posso soltanto ipotizzare che siano stati colpiti da una sostanza chimica che li ha uccisi in un tempo piuttosto breve, qualcosa che dev'essere stato assorbito attraverso la pelle».
«Non posso dire di più, abbiamo mandato copie delle fotografie all'Ordine nazionale del medici, a Xavier Solana e Kofi Annan sperando che almeno questo possa scuotere le coscienze».
A Beirut cercare conferme mediche è difficile anche perchè attraversare la città al tramonto è attività da squilibrati, e gli ospedali sono sommersi di lavoro. Soltanto in cima alle colline cristiane nell'ospedale di Jabaal Amel c'è un medico disposto a concederci qualche minuto.
Si chiama Abdallah Shaab e spiega che tutti i colleghi disponibili sono impegnati in sala operatoria. «Ho visto anch'io quelle foto - dice - ma soprattutto un paio di giorni fa ho visto i resti di due persone giunte alla "morgue" di quest'ospedale. Erano i resti di padre e figlio che arrivavano dalla parte Sud della città, un uomo dal corpo arso in maniera innaturale un piccolo di tre o quattro anni tagliato in due. Anche noi stiamo cercando di capire cosa può averli ridotti in quel modo ma non abbiamo nè il tempo nè le attrezzature per farlo».
Al giornale «Al Safir» che ha la redazione ad Hamra - il solo quartiere di Beirut rimasto vivibile, con negozi aperti e un certo traffico dalle 8 alle 14 - è sorprendente accorgersi che il vero autore di un'iniziativa che sta attraversando il mondo è una donna. Si chiama Hanadi Saalman, ha di poco passato la trentina ed è l'equivalente del capo del settore esteri.
«Le foto erano diffuse dalle agenzie locali e internazionali - spiega, come travolta dagli effetti della sua scelta - noi abbiamo solo avuto il coraggio di metterle assieme...Non ho assolutamente idea di cosa documentino ma so che adesso in tutto il mondo ci sono èquipes che le stanno studiando per capire cosa possono dimostrare».
Queste foto sul piani informativo scateneranno l'inferno. Sono mixate in modo abile però documentano un orrore senza limiti: la bambina calcinata (Sidone, 17 luglio), pezzi di una donna (Tiro, 18), quarti di umano (15 luglio, nei pressi di una base Onu), i frammenti devastati di una bambina a Wahabin (14 luglio), corpi carbonizzati sparsi. Pare che già alcuni reperti siano stati spediti in Europa. A tara sera Mario Aoun, segretario generale dell'albo dei medici, dichiara a «New Tv» che «ci sono seri indizi del fatto che sul nostro povero Paese si stanno usando armi chimiche. Che il mondo ci auti».

Completa il quadro della disinformazione operata dal quotidiano torinese un'intervista a un leader dei Fratelli Musulmani, che sostiene che l'aggressione subita per mano degli Hezbollah sarebbe soltanto un pretesto utilizzato da Israele per "sottomettere il mondo islamico".
Propaganda islamista, che non stupisce più di tanto.
Ma perché darle dignità di "informazione"?
Ecco il testo:


«Non credo che conferenze di pace come quella che si annuncia a Roma possano servire a raggiungere l'obiettivo. Ritengo, al contrario, che solo sul terreno si possa arrivare alla soluzione dei problemi. La questione decisiva è assestare colpi che fanno male a Israele, per poter poi poter arrivare a una trattativa positiva». Almeno in mille sono scesi ieri in piazza, al Cairo, dopo le preghiere del venerdì, raccogliendo l'appello dei Fratelli Musulmani a manifestare solidarietà agli Hezbollah libanesi. La manifestazione è stata dispersa dalle forze di polizia. Il professore Mohammed Habib, viceguida generale dei Fratelli Musulmani, con delega agli affari politici, spiega le ragioni della «solidarietà» del suo movimento alla «causa» di Hezbollah: «Rappresenta la resistenza e la sfida a Israele che vuole allungare i suoi tentacoli nei paesi arabi. Quella in corso è una aggressione che va contro ogni legge internazionale».
Professore Habib, dunque lei non dà credito e chances alla conferenza di pace annunciata per il 26 luglio a Roma. L'offensiva di Israele è iniziata dopo che le milizie di Hezbollah hanno sequestrato due soldati israeliani.
«La vicenda dei due soldati prigionieri potrebbe essere risolta con una trattativa, senza che Israele dia dimostrazione della sua ferocia sanguinaria. In realtà, la vicenda dei due soldati è solo un pretesto».
Come un pretesto? E a quale fine?
«Il progetto sionista-americano è quello di sottomettere e umiliare i popoli palestinese e libanese, e più in generale tutto il mondo arabo e islamico. Noi sosteniamo la resistenza a questo progetto».
Invece della forza delle armi, se fosse il tempo della diplomazia cosa occorrerebbe fare?
«La comunità internazionale dovrebbe agire con saggezza - da noi si dice essere alleati della virtù - invitando l'amministrazione americana a rivedere le sue posizioni, a premere sul nemico sionista perché sospenda l'aggressione. Israele sta facendo di tutto per creare, nella società libanese, un sentimento ostile contro Nasrallah e per imporre il disarmo delle milizie di Hezbollah».
E dunque?
«I paesi arabi devono aver fiducia in se stessi. Si deve arrivare al cessate il fuoco senza condizioni. E successivamente procedere allo scambio dei prigionieri. Vedo, positivamente, che la posizione del governo libanese come quella di diversi paesi arabi islamici non è distruttiva nei confronti di Hezbollah».
I Fratelli Musulmani condividono l'offensiva militare di Hezbollah?
«La politica di Hezbollah è nazionalista. Vuole arrivare allo scambio dei prigionieri e al controllo libanese di Sebha, la regione contesa. E pone, al primo punto della sua agenda, la questione palestinese. Israele teme questo e minaccia Damasco perché vorrebbe che la Siria convinca Hezbollah a smobilitare, a disarmare le sue milizie».
Naturalmente, il conflitto di queste ore investe anche Gaza e le posizioni oltranziste di frange di Hamas, che hanno sequestrato un soldato israeliano...
«I Fratelli Musulmani sostengono il governo di Hamas, che aiutiamo anche finanziariamente. E' uno scandalo l'assedio che subisce il legittimo governo eletto democraticamente, da parte di paesi arabi ma anche di Fatah».

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