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Il Foglio Rassegna Stampa
20.07.2006 Le forze di Hezbollah, la strategia dell'Iran, la guerra giusta di Israele
analisi militari, politiche ed etiche del conflitto

Testata: Il Foglio
Data: 20 luglio 2006
Pagina: 1
Autore: la redazione - Tatiana Boutorline - Michael Walzer
Titolo: «L'arsenale di Hezbollah - Come ve lo deve spiegare Ahmadinejad che vuole distruggere Israele? - Così Michael Walzer spiega che quella di Tsahal è una “guerra giusta”»

Dalla prima pagina del FOGLIO del 20 luglio 2006 un'analisi delle forze militari messe in campo da Hezbollah, sulla strategia iraniana,  sui risultati dell'offensiva israeliana e sulla situazione a Gaza e in Cisgiordania.
Ecco il testo: 


Se le stime effettuate dalle forze israeliane sono giuste, entro pochi giorni Hezbollah dovrebbe terminare le riserve di razzi accumulati negli ultimi anni nel Libano meridionale per poter mantenere a lungo una forte pressione sul nord d’Israele. Secondo l’Idf, il 50 per cento dei circa 12 mila razzi a disposizione di Hezbollah sono stati distrutti nei raid contro basi e depositi. Poiché in una settimana di guerra almeno duemila ordigni sono stati lanciati contro Israele, il numero di razzi a disposizione dei guerriglieri sciiti non dovrebbe essere superiore a quattromila unità, per la gran parte ordigni a più lunga gittata e con maggiore potenziale bellico come circa 500 Fajr 3 e Fajr 5, qualche centinaio di BM-27 e una sessantina di Zelzal-2 con gittata compresa tra i 45 e i 200 chilometri e testata esplosiva da 50 a 600 chili. Sono armi fornite da Iran e Siria, non molto precise, ma in grado di provocare seri danni nei centri abitati. Per questo, Tsahal ha colpito anche alcune basi dell’esercito libanese, a causa di infiltrazioni da parte di Hezbollah e dell’Iran: ci sarebbero almeno 200 pasdaran nella valle della Bekaa e tra le vittime dei raid israeliani sono stati ritrovati anche due iraniani. Hezbollah ha anche a disposizione velivoli senza pilota Mirsad, una quindicina dei quali sono gestiti in Libano dai pasdaran. Nati come ricognitori, i droni possono imbarcare una carica esplosiva da 50 chili che li rende idonei all’impiego come bomba guidata o “kamikaze senza pilota”, ma soltanto contro bersagli di un certo rilievo, poiché l’elevato costo e il numero limitato di queste macchine ne rende improbabile l’impiego su vasta scala. Calano gli entusiasmi intorno all’ipotesi di inviare una forza d’interposizione nel Libano meridionale approvata dal G8 a San Pietroburgo. Londra e Washington intendono lasciare a Israele il tempo necessario a mettere fuori gioco Hezbollah, mentre i tempi per schierare una forza del genere sarebbero lunghi e i compiti piuttosto pericolosi richiederebbero regole d’ingaggio che l’Onu difficilmente potrebbe autorizzare. In questi anni è emersa l’inefficacia dei duemila Caschi blu dell’Unifil schierati nella regione, privi di ordini per contrastare Hezbollah e sprovvisti di visori notturni per monitorare i traffici clandestini di armi diretti ai miliziani sciiti. Prosegue l’operazione “Pioggia d’estate” a Gaza. Un esponente delle Brigate Ezzedine al Qassam è stato ucciso da un missile lanciato da un velivolo senza pilota israeliano nei pressi del campo profughi di Mughazi, nel centro della Striscia di Gaza, dove sono penetrati una trentina di corazzati israeliani. Pur su scala minore rispetto al fronte libanese, le truppe israeliane stanno continuando a distruggere gli arsenali di Hamas puntando a neutralizzare soprattutto le armi controcarro e antiaeree e i centri di produzione dei razzi Qassam che bersagliano i centri del sud israeliano. Cresce la tensione anche in Cisgiordania. Lì Hamas non ha la forza militare per lanciare attacchi in grande stile come a Gaza, ma i reparti israeliani sono penetrati in forze a Nablus e Ramallah per colpire i miliziani delle Brigate Martiri di al Aqsa. In entrambi i centri gli israeliani hanno circondato il comando delle forze di sicurezza palestinesi e la sede del governatore arrestando circa 200 agenti. L’operazione sembra voler anticipare eventuali azioni offensive palestinesi tese ad alleggerire la pressioni su Gaza e il Libano. Tsahal ha richiamato tre battaglioni di truppe scelte schierate in Cisgiordania per inviarle in Libano, rimpiazzandole con altrettanti reparti di riservisti.

Tatiana Boutorline si chiede a pagina 2 dell'inserto "Come lo deve spiegare Ahmadinejad che vuole distruggere Israele ?"
Ecco il testo:

Tra poco più di due settimane Mahmoud Ahmadinejad festeggerà il suo primo anno da presidente d’Iran e avrà di che rallegrarsi. Da oscuro carneade costretto ad ammettere che “non si può essere popolari al cento per cento”, l’ex sindaco di Teheran si è guadagnato ben più di un quarto d’ora di celebrità. Mentre da un anno la comunità internazionale si arrovella tra mediazioni e sanzioni spuntate, lui i gradi li ha conquistati sul campo e lo ha fatto mirando dritto all’obiettivo: “L’Iran è sotto tiro e dovrà difendersi da un distruttivo assalto occidentale”. Per governare la tempesta, Teheran non deve cedere. Non in tema di diritti umani, perché “l’Iran non ha fatto la rivoluzione per avere una democrazia” e men che meno riguardo “all’inalienabile diritto al nucleare”. Per vincere, Teheran deve alzare la posta e rispolverare il mito della civiltà islamica esemplare: “Il messaggio della rivoluzione è globale e si rivolge all’umanità. L’era dei regimi egemonici, della tirannia e dell’ingiustizia è finita: l’onda della Repubblica islamica raggiungerà tutto il mondo”. Nessuno lo ha preso sul serio quando alla sua prima uscita pubblica ha annunciato che “una nazione che conosce l’arte del martirio non conosce sconfitta”. Nessuno si è preoccupato quando Ahmadinejad, nel pieno del ritiro da Gaza, sentenziava che “non bisogna accontentarsi di una striscia di terra” e “chiunque firmi un trattato che riconosca l’entità sionista firma la resa del mondo islamico”. Niente di nuovo nell’intransigenza iraniana verso Israele è stato detto, come se nessuno si fosse accorto che stavolta, per sopravvivere, la Repubblica islamica ha bisogno di un nemico e ha scelto Israele. Ahmadinejad si è offerto alla grande umma islamica come simbolo di riscatto.
Il 26 ottobre 2005, nel corso di una conferenza intitolata “Il mondo senza il sionismo”, il neopresidente lancia il suo primo affondo. “Come ha detto l’imam (Khomeini, ndr) l’entità sionista deve essere cancellata dalla carta”. Ahmadinejad non perde l’occasione anche per denunciare “la creazione del regime sionista, una mossa studiata dagli oppressori contro il mondo islamico”. Lo scenario dello scontro è già delineato in quella prima uscita. “Sulla terra di Palestina si deciderà l’esito di secoli di combattenti”, avverte Ahmadinejad che non trascura di lanciare un monito ai paesi islamici. “Se qualcuno di questi paesi deciderà di riconoscere il regime sionista sotto la pressione del sistema egemonico o per semplice egoismo brucerà nelle fiamme accese dalla rabbia islamica”. L’Europa è indignata, Kofi Annan costernato, ma l’Agenzia atomica preme per il dialogo e si continua a trattare. L’8 dicembre Ahmadinejad torna a tuonare. Israele è “un tumore”. Un tumore piantato nel cuore dell’islam dai paesi europei. “Ora che ammettete che gli ebrei sono stati oppressi – dice il presidente iraniano alla Mecca a margine del meeting dell’Organizzazione della conferenza islamica – perché ne devono pagare il prezzo i musulmani palestinesi? Voi li avete oppressi, quindi date un pezzo di terra europea al regime sionista perché vi stabilisca il governo che crede e noi lo sosterremo”. Si rivolge a Germania o Austria, Ahmadinejad. Ma c’è un’altra questione che lo turba: “Qualunque storico che neghi la verità dell’Olocausto in base a prove storiche è perseguitato, imprigionato e condannato”. In soccorso di tutti i negazionisti, il 14 dicembre torna a parlare di shoah: “L’Olocausto è una leggenda”, ha detto durante un discorso in diretta tv. “Loro (gli occidentali, ndr) hanno inventato la leggenda che gli ebrei furono massacrati e l’hanno posta al di sopra di Dio delle religioni e dei profeti”. Il 14 gennaio, Ahmadinejad torna alle minacce contro i vicini: “Quanti sostengono apertamente il regime occupante di Gerusalemme devono sapere che i loro nomi sono nell’elenco dei criminali di guerra e in un prossimo futuro saranno messi sotto processo nei tribunali palestinesi”. Negli stessi giorni, l’ayatollah Khamenei invita il leader di Hamas Khaled Meshaal a rifiutare qualsiasi ipotesi di dialogo con Israele: “L’esperienza degli ultimi 50 anni dimostra che piegarsi agli occupanti sionisti e tenere negoziati con loro non porta frutti, perciò la vittoria e il successo della nazione palestinese saranno raggiunte attraverso la resistenza.” Il 15 gennaio il ministero degli Esteri iraniano dice: “Per più di mezzo secolo coloro che cercano di provare l’Olocausto hanno usato ogni podio per difendere le loro posizioni – dice il portavoce Hamid Reza Asefi – Ora dovranno ascoltare gli altri”. Il 20 gennaio Ahmadinejad rinnova all’occidente l’invito ad aprire le sue porte agli ebrei, e c’è sempre Israele al centro dei suoi pensieri quando vola a Damasco per rinsaldare un’alleanza strategica con la “repubblica sorella del rais siriano Bashar el Assad. Al centro dei colloqui che sfociano in un patto di difesa c’è il coordinamento delle attività di Hamas, Hezbollah, Jihad islamico e Fronte per la liberazione della Palestina. Il 15 giugno in un incontro a Teheran tra il ministro della Difesa iraniano e il suo omologo siriano nessuno dei due nasconde le ragioni dell’intesa: “I nostri paesi – dice il siriano Hassan Turkmani – devono essere pronti ad affrontare il nemico comune”. Il 14 aprile Ahmadinejad descrive l’esistenza di Israele “una minaccia per tutto il mondo islamico”, definisce Israele “un albero rinsecchito e marcio che deve essere annientato da una tempesta. Piaccia o no, il regime sionista va verso il proprio annientamento”. Lo stesso giorno Ramadan Shaalah, segreatario del Jihad islamico, dichiara che qualsiasi attacco contro l’Iran sarà considerato anche come una minaccia contro tutti i palestinesi. L’indomani il leader di Hamas, Khaled Meshaal, a Teheran dice: “Non crediamo che Israele abbia diritto all’esistenza. E’ un corpo esterno portato nella terra dei musulmani e palestinesi. Non riconosceremo mai Israele”. Il 24 aprile Ahmadinejad ripete: “Questo regime impostore non può sopravvivere”. Subhi al Tufeili, ex segretario generale di Hezbollah, ad al Arabiya il 4 maggio 2006 dice: “Loro (Hezbollah, ndr) sono totalmente fedeli alla politica iraniana”. L’11 maggio, in un discorso a Giacarta, Ahmadinejad annuncia: “L’entità sionista, il regime di satana, un giorno scomparirà”. Il 7 luglio partecipa a una manifestazione di protesta contro le operazioni israeliane a Gaza e avverte: “L’aggressione dello stato ebraico contro i palestinesi della striscia di Gaza provocherà un’esplosione nella regione medioorientale”, dalla quale “tutti quelli che lo appoggiano nel mondo potrebbero risultare danneggiati”. L’8 luglio insiste: “Il più grande problema e la più grande minaccia per il medio oriente è Israele”. Per rimuovere il problema, “tutti i paesi della regione devono cercare di isolare il regime sionista”. L’energia e la determinazione arrivano il 12 luglio con gli attacchi di Hezbollah. Il quotidiano iraniano Jomhuri Eslami pubblica un discorso pronunciato a maggio da Hassan Nasrallah. Il leader di Hezbollah si felicita che Israele possa essere colpito dai suoi missili. “Il nostro arsenale è significativo sia in termini di qualità sia di quantità”. Valutazioni che riecheggiano il 18 luglio sulla bocca del presidente del Parlamento iraniano, Gholam Reza Haddad Adel, che loda Nasrallah: “Le città che avete costruito nella Palestina settentrionale sono nel mirino dei coraggiosi figli del Libano. Nessuna parte dell’entità sionista sarà sicura”. Più della lealtà degli Hezbollah iraniani che a Teheran aspettano “il semaforo verde della Guida suprema per entrare in azione”, Nasrallah apprezza le attività di coordinamento tra Teheran e Damasco che hanno permesso il rafforzamento del suo arsenale. Secondo i media iraniani negli ultimi mesi l’Iran ha ampliato la sua delegazione presso Hezbollah in Libano come “precauzione contro l’aggressione dell’entità sionista”. La triangolazione tra Damasco, Teheran e Hezbollah è confermata dai protagonisti. Il 13 luglio Ahmadinejad non lascia dubbi sulla portata dell’alleanza con Bashar: “Se il regime sionista fa un’altra mossa stupida come attaccare la Siria questo sarà considerato un attacco all’intero mondo islamico che risponderebbe in modo feroce”. Il 14 luglio rincara: “A dispetto della natura barbara e criminale degli occupanti di Gerusalemme, il regime e i suoi sostenitori occidentali non hanno la forza di trattare l’Iran nello stesso modo”. Il 15 luglio inveisce: “I loro metodi somigliano a quelli di Hitler. Quando il leader nazista voleva lanciare un attacco si inventava un attacco. I sionisti affermano di essere stati delle vittime di Hitler ma in realtà sono fatti della stessa pasta”. Il 16 luglio Khamenei riprende il testimone: Israele è un “tumore”, il pallido ex presidente Mohammed Khatami loda Hezbollah, “un sole che illumina e riscalda i musulmani”. Il 17 luglio il ministro degli Esteri, Manuchehr Mottaki, ventila l’ipotesi di un cessate il fuoco, l’Italia chiede all’Iran un ruolo costruttivo. L’Iran può fare e disfare. Per Ahmadinejad l’esistenza di Israele non è che un capitolo di una guerra antica tra l’islam e l’occidente. Lo ripete a ogni occasione da un anno, ma inspiegabilmente c’è chi è ancora disposto a offrirgli il beneficio del dubbio.

Michael Walzer spiega perché "quella di Tsahal è una guerra giusta".
Ecco il testo:

Israele è in guerra contro un nemico animato da un’ostilità estrema, esplicita, senza limiti e guidata da un’ideologia fondata sull’odio religioso. Ma si tratta di un nemico che non schiera in campo un esercito, che non possiede una struttura istituzionale o una visibile catena di comando, che non riconosce il principio legale e morale dell’immunità delle persone civili, e che non rispetta alcuna regola d’ingaggio. Come si fa a combattere un nemico come questo? (…) La cosa più facile è dire che cosa non si può fare. Non ci può essere nessun attacco diretto contro obiettivi civili (…): questo principio costituisce un decisivo vincolo anche per gli attacchi contro le infrastrutture economiche. Nel 1991, scrivendo a proposito della prima guerra irachena, ho sostenuto che la decisione statunitense di attaccare “i sistemi di comunicazione e trasporto, le centrali elettriche, gli edifici governativi, gli impianti di distribuzione e purificazione dell’acqua” era sbagliata (…). Questa era e rimane la mia tesi di fondo: si applica perfettamente agli attacchi israeliani contro le centrali elettriche di Gaza e del Libano. (…) Ridurre la qualità della vita a Gaza, dove è già bassissima, ha lo scopo di mettere pressione a coloro che hanno la responsabilità politica per la popolazione di Gaza; e questo, si spera, li spingerà a prendere provvedimenti contro le forze oscure che attaccano Israele. La stessa logica è stata usata in Libano, dove le forze però non sono così oscure. Ma non c’è nessuno che sia responsabile per gli abitanti di Gaza o del Libano; o meglio, chi potrebbe assumersi tale responsabilità ha già da molto tempo scelto di non farlo. I leader dello stato sovrano del Libano dicono che non hanno alcun controllo sulla parte meridionale del loro paese e, cosa ancora più stupefacente, che non hanno nessun obbligo di assumerlo (…). Hamas e Hezbollah si alimentano sulle sofferenze che la loro stessa attività provoca, e una risposta israeliana che aumenti ulteriormente queste sofferenze, non farebbe altro che fornire loro maggiore nutrimento. Dunque, che cosa può fare Israele? Un principio fondamentale della teoria sulla guerra giusta afferma che, sebbene si debbano proibire vari modi di combattere, non si può negare il diritto stesso di combattere, perché la guerra è talvolta moralmente e politicamente necessaria. Una risposta militare al rapimento di tre soldati israeliani non era strettamente necessaria; in passato, Israele, anziché combattere, ha negoziato uno scambio di prigionieri. Ma poiché definiscono questi rapimenti legittime operazioni militari – vere e proprie azioni di guerra – Hamas e Hezbollah non possono certo sostenere che le risposte militari di Israele siano illegittime. Queste risposte devono essere proporzionate, ma l’obiettivo d’Israele non è soltanto quello di liberare i suoi soldati ma anche quello di impedire futuri attacchi; di conseguenza, la proporzionalità deve essere misurata non soltanto sulla base di quanto Hamas e Hezbollah hanno già compiuto ma anche di quello che, per loro stessa ammissione, intendono fare. L’obiettivo prioritario di Israele è impedire il lancio di razzi contro la popolazione civile: in questo caso, la sua risposta è senza dubbio necessaria. Il primo compito di qualsiasi stato è difendere la vita dei propri cittadini (…). Da Gaza, dopo il ritiro israeliano di un anno fa, sono stati lanciati circa 700 razzi contro Israele (…). Israele ha atteso a lungo che l’Autorità palestinese e il governo libanese prendessero provvedimenti rispettivamente contro il lancio di razzi da Gaza e contro la loro costruzione sul confine libanese. Per quanto riguarda il Libano, Israele ha anche atteso un intervento delle Nazioni Unite, che hanno in Libano meridionale una propria unità alla quale è affidato il compito di “ripristinare la pace e la sicurezza internazionale”. (…) Ora Israele ha giustamente deciso che non ha altra scelta che eliminare da sola i razzi. Ma, ancora una volta, in che modo può farlo? Il problema principale riguardo l’uso dei civili palestinesi come scudi umani. (…) Quando lanciano razzi da un’area abitata da civili, i militanti palestinesi si rendono essi stessi responsabili per la morte di civili provocata dal fuoco di risposta israeliano. Ma (…) ai soldati israeliani viene richiesto di mirare con la massima precisione possibile esclusivamente sui militanti, anche esponendosi a maggiori rischi per poterlo fare, e di evitare contrattacchi che potrebbero uccidere un alto numero di civili. Questo significa che, talvolta, l’uso di scudi umani da parte dei palestinesi, per quanto sia un modo immorale e crudele di combattere, è comunque uno strumento efficace. Tuttavia, le perdite di civili non possono essere evitate completamente: la popolazione civile continuerà a soffrire finché le autorità palestinesi (e quelle libanesi) non prenderanno seri provvedimenti per fermare il lancio di razzi. (…) Hamas ha sferrato i propri attacchi dopo il ritiro israeliano da Gaza e dopo la formazione di un governo israeliano deciso (o almeno lo era fino a prima degli attacchi) a operare un ritiro su vasta scala dalla Cisgiordania. Allo stesso modo, gli attacchi di Hezbollah sono stati compiuti dopo il ritiro israeliano dal Libano meridionale. Lo scopo di questi militanti non è quello di creare uno Stato palestinese separato da Israele, bensì quello di distruggere Israele (…). La risposta israeliana, al contrario, ha soltanto uno scopo immediato: fermare gli attacchi che partono dai suoi confini. Fino a quando non si otterrà questo risultato, nessun governo israeliano procederà a un altro ritiro. Anzi, è molto probabile che gli attacchi di Hamas e Hezbollah abbiano reso impossibile qualsiasi futuro ritiro unilaterale. Israele ha bisogno di avere una controparte che sia innanzitutto capace di mantenere la sicurezza sul nuovo confine e che, in secondo luogo, sia davvero decisa a farlo. Non riesco certo a immaginare che le attuali operazioni militari israeliane riusciranno a creare le condizioni per avere una controparte di questo genere. Nella migliore delle ipotesi, l’esercito e l’aviazione indeboliranno la capacità offensiva di Hamas e Hezbollah, ma non riusciranno a incrinare la loro determinazione. Toccherà probabilmente alla comunità internazionale (…) portare l’esercito libanese nel sud del paese e fare un effettiva forza di controllo. E ci vorrà un’analoga coalizione per sponsorizzare e appoggiare un governo palestinese realmente impegnato per una soluzione a due stati, con confini permaenti e pacificati, e pronto a combattere contro i militanti religiosi che si oppongono a tale soluzione. Fino a quando non ci sarà un vero esercito libanese capace di controllare la situazione e un governo palestinese convinto della possibilità di una coesistenza, Israele avrà il diritto di agire, entro i limiti dialettici, per difendere se stesso.

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