Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
Informazione sulla crisi in Libano cronache , analisi ed editoriali
Testata: Corriere della Sera Data: 20 luglio 2006 Pagina: 2 Autore: Davide Frattini - Lorenzo Cremonesi - Viviana Mazza - Ennio Caretto - Davide Frattini - Bernard Henry Levy Titolo: «Beirut raid notturno, Nasrallah nel mirino - Razzi su Nazareth, città sacra dei cristiani - Il mondo ci aiuti a disarmare Hezbollah . Reazione sproporzionata ? Divisi gli esperti di diritto - Che faremmo se il Messico lanciasse missili su New York ? - E s»
Dal CORRIERE della SERA del 20 luglio 2006, la cronaca di Davide Frattini:
GERUSALEMME — Oltri venti tonnellate di bombe. Per colpire il bunker dell'Hezbollah, scavato nelle quartiere di Bourj al-Barajineh. Nel rifugio sotterraneo — dicono fonti della sicurezza israeliana — si stavano nascondendo dirigenti del Partito di Dio e l'intelligence è convinta che tra loro ci fosse lo sceicco Hassan Nasrallah. I missili sparati dai caccia — una ventina di aerei avrebbero partecipato alla missione — hanno colpito una zona dove la polizia e l'esercito libanese non possono entrare perché è sotto il controllo delle milizie sciite. Al Manar, la televisione dell'Hezbollah, ha smentito che suoi militanti siano rimasti coinvolti nell'attacco. «L'edificio è solo una moschea in costruzione. Il nemico cerca di coprire i fallimenti con false informazioni». Fin dall'inizio della campagna militare, gli israeliani avevano messo tra gli obiettivi i leader dell'Hezbollah. Vari ministri del governo guidato da Ehud Olmert avevano minacciato Nasrallah. «Non ha alcuna immunità — ha detto sabato Zeev Boim, ministro per l'Immigrazione — alla prima occasione lo elimineremo». Lo sceicco è arrivato alla guida del movimento fondamentalista nel 1992 dopo la morte di Abbas Al Muasawi, ammazzato da un raid israeliano. Venerdì scorso è sfuggito a un bombardamento che aveva distrutto la sua casa e il suo ufficio. Dopo l'attacco, è apparso in un video per dichiarare guerra totale allo Stato ebraico. INCURSIONI — A sud, le forze speciali sono entrate in territorio libanese, vicino al villaggio israeliano di Avivim, e nel Libano meridionale, nella zona di Marun El-Ras. I commando di Tsahal stanno muovendosi al di là del confine per colpire i bunker dove sono nascoste le armi e i tunnel usati dall'Hezbollah per gli attacchi. In uno scontro, due soldati sono rimasti uccisi e nove feriti. Il partito di Dio ha dichiarato di aver perso un solo uomo. I RAID AEREI — Nei bombardamenti, per la prima volta è stato bersagliato il quartiere cristiano di Ashrafieh, che si innalza su una collina nel centro di Beirut. I caccia hanno sparato tre missili su un camion che trasportava una trivella per pompare l'acqua: probabilmente è stato scambiato per un lancia-missili. Negli attacchi ieri su tutto il Paese sono morti 55 civili. Secondo la polizia libanese, il 70 per cento della popolazione nel sud ha abbandonato le proprie case. Molti si sono rifugiati a Naqura nel quartier generale dell'Unifil, le forze Onu, che ieri è stato colpito dagli obici sparati dall'artiglieria israeliana, senza fare vittime. EVACUATI GLI STRANIERI — Oltre 1.100 americani sono stati evacuati verso Cipro e gli Stati Uniti hanno fatto sapere di essere in grado di far uscire dal Libano fino a 6.000 loro cittadini entro domani. La Farnesina è pronta a realizzare oggi la terza evacuazione di italiani via mare. Circa 400 persone saranno imbarcate su un'unità della Marina Militare. CACCIA AL KAMIKAZE — I Katiuscia sparati dai miliziani sono caduti per tutto il giorno sulle città del nord, da Haifa a Safed. I razzi hanno raggiunto Nazareth e ucciso due bambini. Nel centro del Paese, a nord di Tel Aviv, la polizia è riuscita a catturare un kamikaze, che si era infiltrato dalla Cisgiordania. E' il secondo attentatore suicida che viene fermato in due giorni, prima che riesca a colpire. Amir Peretz, ministro della Difesa, ha deciso la chiusura dei territori palestinesi fino a sabato. L'APPELLO DI ASSAD — Il presidente Bashar Assad ha telefonato al primo ministro turco Recip Tayyip Erdogan per discutere della possibilità di un cessate il fuoco imposto dalla comunità internazionale. «L'intervento della diplomazia sta ritardando troppo», ha commentato il leader siriano. È la prima volta che Damasco parla di una tregua, dopo che martedì la Casa Bianca aveva accusato il regime di non fare abbastanza per fermare gli Hezbollah. L'ALTRO FRONTE — L'offensiva israeliana non si è mai fermata neppure nella Striscia di Gaza, dove ieri gli uomini della Brigata Givati sono entrati nel villaggio Muwasi e hanno ucciso otto palestinesi negli scontri. A Nablus, in Cisgiordania, le forze speciali hanno attaccato la sede della Sicurezza preventiva e tre miliziani sono morti.
Sempre di Davide Frattini è la cronaca sul bombardamento di Nazareth da , nel quale sono morti due bambin arabo-israeliani.
GERUSALEMME — Giocavano per strada, correvano dietro a un pallone invece che verso un rifugio. «Perché non avremmo mai pensato che i missili potessero colpire i palazzi arabi» dice adesso un vicino di casa. I Katiuscia sono caduti su Nazareth. Su via Paolo VI, la strada principale, quella che porta alla basilica dell'Annunciazione e tra le viuzze di un quartiere povero, affollato di case e di gente: la ressa e le stradine strette hanno impedito ai soccorritori di raggiungere subito il punto dell'esplosione. Mahmoud Abed Taluzi, 7 anni, e il fratellino Rabia (3) sono stati uccisi, quando il razzo li ha centrati. Un proiettile più potente di quelli sparati nei giorni scorsi, carico di esplosivo e biglie di ferro. Sono i primi bimbi musulmani a morire negli attacchi dell'Hezbollah contro in Israele. I primi, nella città sacra ai cristiani. Nel giorno in cui il deputato libanese Saad Hariri, figlio dell'ex primo ministro assassinato in un attentato a Beirut, è arrivato in Vaticano per chiedere una mediazione del Papa. «Qualunque fosse la loro religione — dice Ramez Jeraisi, sindaco arabo israeliano di Nazareth — Rabia e Mahmoud hanno pagato per una guerra che noi non vogliamo. I bombardamenti devono finire, Ehud Olmert deve negoziare». «Tutti li conoscevano nel quartiere» — dice Adnan Sali alla France Presse —. In questi pomeriggi d'estate erano sempre in giro, erano in vacanza. Perché restare in un appartamento a soffocare di caldo?». Indica i buchi e le schegge nel muro del palazzo vicino al punto dell'impatto, alle finestre sventola ancora della biancheria appesa ad asciugare, donne velate si affacciano tra i vetri in frantumi. Anche Adnan è convinto che i primi a fermarsi debbano essere fine a anno gli israeliani: «Se loro smettono, anche l'Hezbollah la smetterà». Nei giorni scorsi, i razzi sparati dai miliziani sulle città nel Nord del Paese avevano colpito villaggi come Majdel Krum e gli arabi israeliani — che si sentono cittadini di seconda categoria — accusano l'esercito di averli lasciati senza istruzioni su come proteggersi. Anche ieri qualcuno per le strade sosteneva di non aver sentito suonare le sirene. L'altro Katiuscia è caduto nel centro di Nazareth, distruggendo una concessionaria d'auto. «In città c'è più paura che in altre parti d'Israele — racconta don Lorenzo Saggiolo, preside della scuola salesiana Don Bosco, all'Agi — perché nessuno si aspettava un attacco. Le autorità locali non hanno preso precauzioni, non si sono rese conto del pericolo». I feriti sono stati trasportati all'ospedale Sacra Famiglia, fondato nel 1822 dai frati Fatebenefratelli e da un paio di secoli conosciuto come «l'ospedale italiano». «Il bombardamento che ha ucciso i due bambini — dice il francescano David Jaeger all'Ansa — dimostra che in Medio Oriente non ci sono zone che possono essere considerate protette, come spesso si è pensato dei luoghi sacri». La basilica, costruita dove secondo i Vangeli l'arcangelo Gabriele annunciò a Maria la prossima nascita di Gesù, domina la parte vecchia della città di 70 mila abitanti, in maggioranza musulmani. Il ministero degli Esteri israeliano — scrive il sito Ynet — ha esortato i suoi ambasciatori a spiegare nelle capitali occidentali che «l'Hezbollah ha attaccato una città sacra ai cristiani, proprio per tentare di colpirne i simboli religiosi. Hanno dimostrato di essere in grado di indirizzare e controllare i razzi, è chiaro che vogliono mandare un messaggio».
Di Lorenzo Cremonesi è l'intervista al premier libanese Fuad Siniora, ambiguo, ma chiaro almeno nell'indicare la necessità per il Libano del disarmo di Hezbollah. Ecco il testo:
BEIRUT — Lo incontriamo nel suo ufficio proprio nel mezzo di una lunga serie di telefonate con Romano Prodi. «Conosco il vostro primo ministro da molto tempo. So che è un buon amico del Libano e degli arabi. E so anche che può fare molto per noi. L'Italia è un partner privilegiato e ha forti interessi in Libano, il suo export nel nostro Paese supera il miliardo di dollari, il primo in assoluto, più alto di quelli di Francia e Cina. Non mi stupisce che faccia di tutto per porre fine alla catastrofe rappresentata dai bombardamenti israeliani», spiega accorato Fuad Siniora. Non a caso ha scelto di parlare con un reporter italiano. «Ci tengo a dire al vostro Paese quanto mi interessa la vostra mediazione. Sto anche pensando di invitare Massimo D'Alema a Beirut», aggiunge. Un leader in difficoltà per uno dei momenti più difficili nella sanguinosa storia del Libano. Qui i commentatori lo dipingono come «il numero due che sta diventando con successo numero uno». Da sempre stretto consigliere di Rafiq Hariri, suo ex ministro delle Finanze, lo ha sostituito alla guida del partito, e ora del Paese, dopo il suo assassinio nel febbraio 2005, Siniora dimostra di avere le spalle più larghe di quanto non si credesse. Ultimamente non ha esitato a sfidare la Siria, accusa l'Iran di ingerenze. Ma in questo momento ciò che gli preme di più è porre fine alla «barbara aggressione israeliana». Poco dopo il nostro incontro legge pubblicamente un annuncio: «Occorre che la comunità internazionale imponga il cessate il fuoco a Israele. In sette giorni di bombardamenti abbiamo oltre 1.000 feriti, 300 morti e mezzo milione di profughi. Il Paese è in ginocchio». Signor primo ministro, Israele sostiene che sta premendo sul vostro governo per disarmare l'Hezbollah. Se non lo farete voi, lo faranno loro. Ma a spese vostre. «Noi diciamo questa stessa cosa, ma in modo diverso. Il mondo intero deve aiutarci a disarmare l'Hezbollah. Ma prima di tutto occorre giungere al cessate il fuoco. Sino a che continueranno i bombardamenti non si potrà fare nulla, se non peggiorare la situazione. E anche Israele non ci guadagnerà niente. Vogliono annientare le infrastrutture dell'Hezbollah? Non si ricordano che ci hanno già provato manu militari contro altre forze in Libano nel passato. E non è servito». Lei sa bene che prima del blitz dell'Hezbollah contro i soldati israeliani settimana scorsa questa regione era calma. «Sì, ma c'erano sul campo tutti i presupposti per il conflitto. Perché occorre trovare una soluzione complessiva al problema. L'Hezbollah sostiene che combatte una guerra partigiana per liberare i circa 40 chilometri quadrati a Sheba, terra libanese ancora occupata da Israele. E PREMIER Il libanese Fuad Siniora anche per liberare i 3 prigionieri libanesi nelle carceri israeliane. Israele lasci la zona di Sheba, che comunque non ha alcun valore militare o economico, rilasci i prigionieri e il nostro governo potrà dire che l'Hezbollah non ha più alcun legittimo motivo per mantenere una milizia armata. Sarà inevitabilmente costretto a diventare una forza puramente politica del nostro sistema democratico». L'Onu 6 anni fa dichiarò che Israele si era definitivamente ritirato sul confine internazionale. Non è questo di Sheba un puro pretesto dell'Hezbollah per continuare la "guerra santa"? «Potrei anche essere d'accordo con lei. Ma, se così fosse, allora abbiamo un motivo in più per smascherare l'Hezbollah. A parte che esistono fior di carte diplomatiche, che sin dai primi anni Venti mostrano che la regione di Sheba è libanese, non siriana. Anche la Siria da qualche anno afferma che è nostra, sebbene non sia pronta scriverlo sulla carta. In ogni caso, l'importante ora è riportare la piena sovranità libanese nel Sud, smantellare qualsiasi milizia armata parallela all' esercito nazionale. E per farlo occorre delegittimare le ragioni dell' Hezbollah». Romano Prodi, assieme ai partner europei, le sta proponendo una forza militare multinazionale, con un mandato diverso da quello dell' Unifil. E' d'accordo? «Ho spiegato a Prodi, Chirac e agli altri leader stranieri con cui sono in contatto, che la mossa non è sufficiente. Non bastano 6.000, 8.000 o addirittura 20.000 soldati stranieri per disarmare l'Hezbollah, se prima non si giunge a una soluzione complessiva del problema che riguarda anche Sheba, come ho appena detto» E' rimasto sorpreso dall'arsenale dell'Hezbollah? Posseggono missili di fabbricazione iraniana in quantità. Come è potuto accadere che potesse nascere un esercito così forte? «L'Hezbollah è diventato uno Stato nello Stato. Lo sappiamo bene. E' un problema gravissimo. Ma precede di molto il mio mandato e anche l'era di Hariri. Non è un mistero per nessuno che l'Hezbollah risponde alle agende politiche di Teheran e Damasco. Noi non siamo un Paese in ostaggio della Siria. La nostra è una democrazia viva, con un'opinione pubblica libera, pluralista. Siamo un gioiello unico in Medio Oriente. Ma i siriani sono dentro casa nostra e noi siamo ancora troppo deboli per difenderci. Le memorie terribili della guerra civile sono ancora troppo presenti, nessuno è pronto a prendere le armi». Hariri è stato ucciso dai sicari siriani? «Questo è quello che pensa lei. Io non dico di essere in disaccordo. Ma esiste una commissione internazionale che indaga sul caso. Lasciamo a loro il verdetto». Per quando prevede il cessate il fuoco? «Non ci siamo ancora. Purtroppo vedo un gran polverone diplomatico e pochi fatti concreti. I bombardamenti criminali di Israele vanno bloccati subito, immediatamente. Ma i governi israeliani hanno sempre fatto di tutto per renderci la vita difficile: non ci hanno mai dato le mappe dei campi minati che loro avevano piantato in Libano, così la gente continua a morire. Oggi bombardano i civili e creano simpatie per l'Hezbollah anche dove altrimenti non ci sarebbero».
Viviana Mazza presenta una sintetica panorama delle valutazioni degli esperti di didritto internazionale circa la "proporzionalità" della risposta israeliana all'eggressione di Hezbollah. Ecco il testo:
È proporzionata o no la risposta di Israele al rapimento di due suoi soldati da parte di Hezbollah? L'Unione Europea e il segretario generale dell'Onu Kofi Annan accusano Israele di «uso sproporzionato della forza» e di «punizione collettiva» dei civili: 300 libanesi uccisi, la maggior parte civili, bombardati l'aeroporto principale, i ponti, le autostrade, le centrali elettriche. Il ministro degli Esteri israeliano Tzippi Livni risponde che la proporzionalità non va misurata «rispetto all'evento ma alla minaccia, più grande e più ampia della cattura dei soldati». Il diritto internazionale umanitario ( ius in bello), che regola l'uso della forza in guerra, offre qualche risposta in questa diatriba, ma anch'esso è soggetto a interpretazioni. Nato con le convenzioni dell'Aja del 1907, citato nei protocolli del '77 alle convenzioni di Ginevra, il principio di proporzionalità stabilisce che le azioni degli Stati in guerra debbano essere: proporzionali al danno subìto, non dirette intenzionalmente a obiettivi civili, e di forza necessaria e sufficiente per ristabilire lo status quo ante, spiega il Council of Foreign Relations. Il principio va rispettato da tutti gli Stati perché è una norma imperativa di diritto internazionale. Livni sostiene che Israele non stia colpendo i civili intenzionalmente: i miliziani si nascondono tra la gente. In effetti, in tempo di guerra, è difficile separare obiettivi militari e civili. Di più, «un ospedale o una chiesa, se difesi da truppe nemiche, diventano obiettivi militari», ha detto al Council of Foreign Relations Michael Glennon, professore di diritto internazionale alla Tufts University. Ma secondo Human Rights Watch (Hrw), il fatto che i miliziani si mescolino ai civili, non esime Israele dal rispetto delle norme. Per Hrw, anche se certi obiettivi civili possono essere sfruttati dalle forze armate nemiche, prima di colpirli bisogna sempre confrontare il danno alla popolazione con il vantaggio militare: colpire una centrale elettrica non è quasi mai legittimo perché il danno è troppo grave per i civili. Colpire l'aeroporto lo sarebbe se Israele avesse prove concrete che Hezbollah lo sta usando per scopi militari e, in ogni caso, considerato il danno per i civili, Israele dovrebbe colpire specifici voli, non bombardare ripetutamente l'aeroporto. Infine, la proporzionalità richiede che le rappresaglie riportino allo status quo ante, ma per Michael Newton della Vanderbilt University, «in risposta all'attacco a Pearl Harbor, gli Usa conclusero che bisognava rovesciare il governo giapponese». Proporzionati? «Forse no. Ma la proporzionalità è aperta all'interpretazione e spesso dipende dal contesto».
Ennio Caretto riferisce del sostegno della senatrice democratica Hillary Clinton a Israele. Caretto tira un ballo la "lobby ebraica". A sproposito. negli Stati Uniti un diffuso sostegno a Israele viene soprattutto dalla consapevolezza delle ragioni di una democrazia aggredita, odiata dal fronte jihadist per ciò che è e non per ciò che fa, per i suoi pregi e non per i suoi difetti, esattamente come l'America del dopo 11 settembre. Ecco il testo:
WASHINGTON — «Voglio che noi newyorchesi immaginiamo che degli estremisti, dei terroristi ci attacchino con dei missili da oltre le frontiere, dal Messico o dal Canada. Che cosa faremmo? Resteremmo a guardare, o difenderemmo il nostro Paese?». Così lunedì, a un rally davanti all'Onu, la senatrice ed ex first lady Hillary Clinton ha spiegato ai suoi elettori che l'America dovrebbe entrare in Messico o in Canada, nel caso che i governi messicano o canadese non potessero fare nulla, esattamente come Israele è entrato nel Libano. «Ogni nazione sovrana — ha proseguito la leader democratica — ha il diritto e il dovere di proteggere i suoi cittadini. Israele deve mandare a Hezbollah e alla Siria e l'Iran che lo appoggiano un messaggio molto chiaro; che non tollererà nessuna aggressione al suo territorio e alle sue truppe. E gli Stati Uniti devono sostenerlo». Questo intervento di Hillary a favore dell'alleato israeliano non è stato il primo dallo scoppio della guerra. Già domenica, parlando a Fayetsville nell'Arkansas, la senatrice si era scagliata SENATRICE Hillary Clinton contro Hamas ed Hezbollah. «Gli eventi — aveva ammonito — dimostrano che l'ascesa di Hamas in Palestina e di Hezbollah in Libano rappresentano un grave pericolo per la stabilità non solo di Israele, ma dell'intero Medio Oriente. Essi fanno parte delle nuove forze totalitarie del secolo XXI, non rispettano i diritti umani, la libertà né la democrazia». Per il presidente Bush, la presa di posizione di Hillary, peraltro condivisa dalla maggioranza dei democratici, è stata una benedizione. Il presidente ha scelto una strategia rischiosa: affiancare Israele nel tentativo di spezzare le gambe a Hezbollah e di isolare la Siria e l'Iran, ignorando gli appelli a una tregua immediata. L'obiettivo di Bush, ha indicato la Casa Bianca, non è soltanto di paralizzare i terroristi, ma anche di impedire a Damasco di tornare ad avere il controllo sul Libano e a Teheran di affacciarsi sul Mediterraneo. Il presidente sta cercando di capovolgere l'equilibrio della forze nella regione, ha aggiunto la Casa Bianca, ed è importante che Hillary gli dia man forte. Ma la senatrice non ha risparmiato le critiche a Bush. «Alla guerra — ha protestato — hanno contribuito i suoi cinque anni di non diplomazia, disimpegno, e rigidità ideologica». La strategia del doppio binario della ex first lady su Israele, appoggio al conflitto da un lato, denuncia della politica di Bush dall'altro, è la stessa dell'Iraq. Hillary si schierò col presidente per il ricorso alle armi contro Saddam Hussein, ma ne condannò poi la linea successiva. Una mossa che le costò la simpatia dei «liberal». Con Israele, tuttavia, Hillary non corre lo stesso rischio: la causa israeliana è «bipartisan», per gli americani è una delle facce della lotta al terrorismo. E in vista delle elezioni congressuali di novembre, su cui le lobbies ebraiche eserciteranno un grande peso, pochi parlamentari accusano Israele di «reazione sproporzionata». Ne è la prova il passaggio al Senato all'unanimità di una mozione che avalla i bombardamenti sul Libano e invita l'amministrazione Bush a «rendere responsabili la Siria e l'Iran della feroce aggressione» a Israele.
Un'analisi di Davide Frattini spiega gli obiettivi dell'offensiva isrealiana:
GERUSALEMME — «Non permetteremo che l'Hezbollah ritorni a distanza di sputo», ripete da giorni il ministro della Difesa Amir Peretz. O come chiarisce — con parole più diplomatiche — agli inviati delle Nazioni Unite: «Alla fine di questa guerra non accetteremo di vedere le bandiere dei fondamentalisti sventolare sulla nostra frontiera». Peretz e lo Stato maggiore vogliono i drappi giallo-verdi del Partito di Dio ad almeno venti chilometri di distanza, su a nord, oltre il fiume Litani. Che gli israeliani considerano la linea di separazione tra Hezbollah-stan e una ragionevole fascia di sicurezza. I bulldozer e le bombe di Tsahal stanno già livellando le zone a ridosso del reticolato elettrico sul confine: un chilometro verso l'interno del Libano, con pochi alberi e nascondigli, perché la zona possa essere controllata dagli occhi elettronici dei droni telecomandati. «Il governo non vuole rimandare le truppe nel sud — spiega al Guardian Uzi Arad, per venticinque anni nel Mossad e fondatore del Centro studi di Herzliya — però vuole essere certo che verrà costituita un'area cuscinetto, sorvegliata dall'esercito regolare libanese, anche con l'aiuto di una forza internazionale». Arad è convinto che ai bombardamenti debba seguire una strategia diplomatica «che porti a un processo graduale per il disarmo dell'Hezbollah». È la fase che si dovrebbe aprire domenica, con l'arrivo in Medio Oriente di Condoleezza Rice. «Il segretario di Stato — dicono fonti della Casa Bianca al New York Times — vuole aspettare ancora qualche giorno per dare a Israele la possibilità di continuare a colpire i miliziani e per essere sicura di poter ottenere qualche risultato dal viaggio». Lo Stato Maggiore confida di avere ancora una settimana per raggiungere i due obbiettivi militari che si è prefisso nella campagna: eliminare i capi dell'Hezbollah, a partire dallo sceicco Hassan Nasrallah, e demolire gli arsenali di missili. Washington sta discutendo con gli alleati tra i Paesi arabi come rafforzare il sud del Libano, perché il Partito di Dio non possa ricostruire il sistema di postazioni e torri di controllo e ricominciare la guerra psicologica con i soldati israeliani. «Il governo di Ehud Olmert — scrive il New York Times — non pone più il disarmo immediato dell'Hezbollah tra le condizioni per il cessate il fuoco». «Con il passare dei giorni — commenta l'analista Amir Rappaport su Maariv — lo Stato Maggiore sta riducendo le sue aspettative. A questo punto potremmo essere soddisfatti, se l'organizzazione sciita uscisse dal confronto battuta e ben lontana dal nostro confine. Questa debolezza di Nasrallah renderà più facile riportare a casa i soldati rapiti, purtroppo solo dopo una lunga trattativa». Giora Eiland, fino a poco tempo fa consigliere per la sicurezza nazionale del primo ministro, sostiene che una forza internazionale non può essere accettata dagli israeliani, se funziona solo da «cuscinetto». «In questo caso può essere efficace — spiega — solo se l'Hezbollah non vuole creare provocazioni e preferisce la calma. Olmert deve insistere perché la presenza multinazionale serva per permettere al governo di Beirut di fare il suo dovere, rispettando le richieste della risoluzione Onu 1559. I libanesi devono essere ritenuti i responsabili di quello che succede a sud».
Un editoriale di Bernard Henry Levy come ci comporteremmo se "i katiuscia minacciassero l'Europa" e come definiremmo la "proporzionalità" della nostra reazione. Ecco il testo:
Una parola stranamente ricorrente nei commenti, in Europa, sulla risposta israeliana alla dichiarazione di guerra dell'Hezbollah è «sproporzione». Non sono certo un grande esperto in affari militari. E anch'io penso, è evidente, che ognuna delle vittime civili, pudicamente chiamate dagli strateghi «danni collaterali», sia una tragedia. Detto questo, avrei comunque voglia di chiedere a coloro che parlano così come reagirebbero se un commando di terroristi venissero per esempio sul territorio di Francia, non tenendo assolutamente conto delle nostre frontiere, se non persino negandole, a rapire soldati francesi. Come reagirebbero se Strasburgo, Lilla o Lione si trovassero, come Sderot, Ashqelon e adesso Haifa, sotto una pioggia di katiuscia che fanno decine — su scala francese centinaia — di altre vittime civili il cui martirio, mi pare, equivale a quello dei libanesi. E se la capitale del nostro Paese si trovasse a portata di missili a medio raggio Zelsal 1, forniti da artificieri iraniani debitamente inviati in missione da Ahmadinejad e ci dicessero, come ha detto a proposito di Tel Aviv il segretario generale dell'Hezbollah, Hassan Nasrallah, che colpire Parigi non è più un'ipotesi del tutto teorica, ma un obiettivo bellico prioritario e un'impresa santa. Avrei voglia di chiedere quale fosse, secondo loro, la reazione «proporzionata», dal momento che l'autore di questo tipo di dichiarazioni e degli attacchi che le accompagnano è notoriamente ispirato, finanziato, armato da un paese il cui presidente non ha mai fatto mistero della propria determinazione a dotarsi dell'arma atomica e, con o senza tale arma, a cancellare dalla carta geografica uno Stato ebraico intrinsecamente perverso e criminale. Ancora, avrei voglia di chiedere come sarebbe stato possibile imbastire una risposta tale da risparmiare un Libano ridiventato, per sua disgrazia, l'ostaggio di ideologi e capi di guerra irresponsabili: gente che non ha smesso di costruirvi, in flagrante contraddizione con la sua cultura, la sua genialità, le sue tradizioni di tolleranza, di cosmopolitismo e di pace, uno Stato nello Stato che è, innanzitutto, uno Stato terrorista che minaccia tutta la regione e, naturalmente, i libanesi stessi. Avrei voglia di chiedere come si potesse evitare d'intervenire in Libano visto che il governo di questo paese conta molti ministri Hezbollah; che il suo presidente, Emile Lahoud, afferma, appena può, la sua solidarietà di principio con gli obiettivi e la causa di Hezbollah; che le sue strade servono al trasporto di razzi, lanciamissili e truppe verso le linee di fronte e i fortini tenuti da Hezbollah; e che a partire dalle stazioni radar dei suoi aeroporti, come da quello di Beirut, vengono localizzati i bersagli marittimi israeliani che le batterie Hezbollah colpiscono, come la settimana scorsa. E poi, «sproporzione» per «sproporzione», come schivare la vera, la sola domanda valida, che è di sapere chi ha fatto, oggi, i progressi concreti dello spirito di moderazione e di misura che ognuno auspica: gli israeliani, i quali, pur non essendo angeli, per carità, si sono ritirati dal Libano da sei anni, da Gaza da sei mesi e sono pronti, in grande maggioranza e a costo di ricevere, come in questo momento, valanghe di bombe sulle loro città e sui loro villaggi, a ritirarsi dalla Cisgiordania perché vi si installi lo Stato palestinese in formazione; o i folli di Dio che se ne infischiano altamente della formazione di un qualsiasi Stato palestinese e non hanno, in realtà, nessun'altra preoccupazione se non di veder scomparire Israele? Infatti, è proprio qui la discriminante. E tale è la posta in gioco, la sola, di una guerra quasi più radicale, in questo senso, delle precedenti guerre israelo-arabe. Da un lato, i sostenitori della coabitazione di due popoli che apprendano, con il tempo, senza illusioni né angelismo, a negoziare, a fare la pace e poi, forse, un giorno, ad andare d'accordo e a volersi bene: sono, in Palestina, gli amici di Mahmoud Abbas; sono, nel mondo arabo in generale, i dirigenti e i rappresentanti, in numero crescente, dell'opinione pubblica illuminata; ed è l'essenziale della popolazione d'Israele, sia essa di destra o di sinistra, finalmente consapevole che non esiste, a termine, altra strada se non quella della spartizione della terra. Dall'altro, gli oltranzisti di una causa che ormai ha un rapporto lontanissimo e con la causa nazionale palestinese e con la sofferenza che la sostiene: è, a Gaza, l'Hamas di Khaled Mechaal ed è, qui in Libano, l'Hezbollah. I due pilastri di un «fascislamismo» di cui non si ripeterà mai abbastanza che i burattinai si nascondono a Damasco e soprattutto a Teheran e i cui responsabili sul campo sono palesemente pronti, se la vittoria finale è a questo prezzo, a battersi fino all'ultimo libanese, palestinese e, certo, fino all'ultimo ebreo.
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