Disarmare Hezbollah: una necessità per Israele e per il Libano
Testata:Il Riformista - Il Giornale - Il Sole24 Ore - Avvenire Autore: Emanuele Ottolenghi - Massimo Introvigne - Alberto Negri - Vittorio Emanuele Parsi Titolo: «L’Occidente lasci stare la diplomazia Il problema oggi è disarmare Hezbollah - La missione Onu penalizzerebbe soltanto Israele - Crese la pressione militare su Beirut - I nodi al pettine Israele vuol decidere»
Dalla prima pagina del RIFORMISTA del 19 luglio 2006, l'analisi di Emanuele Ottolenghi:
La distanza tra la realtà dello scontro in corso tra Israele e Libano e la diplomazia che cerca di trovarvi una risoluzione si riassume nell’idea, proposta dal premier inglese Tony Blair e sottoscritta dal segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan di inviare una forza internazionale in Libano. Innanzitutto, chi ha soldati a disposizione per inviare una forza internazionale? L’Italia, con la vocazione pacifista di parte del suo nuovo governo, di certo non manderebbe truppe. Alla Nato, a parte il fatto che mancano truppe per altre missioni in corso, nessuno sembra entusiasta dell’idea, visto che una forza internazionale in Libano, oggi come oggi, significa due cose: o un esercito che combatte contro Hezbollah, o una presenza internazionale che, come le forze Onu in passato, fa da scudo a Hezbollah. Usa e Francia ricordano ancora gli attentati di Hezbollah contro i loro contingenti di pace nel 1983 e non si prestano a farsi impallinare una seconda volta. In quanto all’Onu, inviare una forza di pace a far rispettare un cessate il fuoco che non c’è ancora tra Hezbollah e Israele significa ammettere il proprio completo fallimento. È l’Onu, dopotutto, che con la risoluzione 1559 ha stabilito che non ci debbano essere milizie armate in Libano. Il fatto che per sei anni Hezbollah si sia fatta beffe dell’Onu ignorandone la volontà e che la comunità internazionale abbia fatto finta di niente significa che un’altra risoluzione Onu è rimasta lettera morta. Andare ora a negoziare con Hezbollah un cessate-il-fuoco e procedere poi a garantirlo con una missione di caschi blu significa rinnegare i propri buoni propositi, riconoscere che di fatto il sovrano in Libano non è il governo libanese ma una milizia filo-iraniana e accettarne l’ascendenza politica nella regione, con tutto quel che ne consegue. Del resto, questo divario tra diplomazia e realtà è diffuso. Si pensi al tentativo del presidente del Consiglio Romano Prodi di attivare gli iraniani quali mediatori. L’interpellato alto ufficiale iraniano, Ari Larjiani, ha già promesso “il massimo sforzo”, assicurando al premier italiano che «la diplomazia si sta già muovendo». E su questo bisogna dar credito a Larjiani. Gli iraniani, in questa crisi, non sono rimasti con le mani in mano: Hezbollah opera in Libano per conto loro. I soldati israeliani potrebbero essere prigionieri nell’ambasciata iraniana a Beirut se non già addirittura in Iran. Nell’attacco contro la nave della marina israeliana c’è lo zampino di Teheran. I missili a media e lunga gittata che colpiscono Israele sono stati forniti a Hezbollah dall’Iran. L’Iran ha addestrato Hezbollah a operarli e aveva fino a poco tempo fa una robusta presenza militare nel Sud del Libano. Questa è una crisi manufatta dall’Iran. Chiedere all’Iran di mediare sarebbe come se nel 1938 si fosse chiesto a Hitler di mediare tra i tedeschi dei Sudeti e il governo cecoslovacco. Complimenti a Prodi per la brillante idea dunque. L’Iran, sobillando Hezbollah nell’attuale crisi, mira a rafforzare la propria egemonia sul mondo sciita e a indebolire, attraverso lo scontro con Israele, l’influenza occidentale sulla regione. Cercare una soluzione dando all’Iran il ruolo di mediatore è contro gli interessi dell’Europa e del mondo occidentale perché fa soltanto il gioco degli Ayatollah, indebolisce Israele, Stati Uniti e i loro alleati nella regione, condanna il Libano a non recuperare mai la sua piena sovranità, vanifica la sostanza della risoluzione Onu 1559, minando ulteriormente la credibilità dell’organizzazione, rafforza l’asse Damasco-Teheran nel suo gioco egemonico contro i paesi arabi moderati e nella sua partita a tavolino con la comunità occidentale sul loro programma nucleare. Questa non è l’ora del dialogo con Teheran, ma degli ultimatum. La distanza di cui sopra è certamente meno incolmabile nelle dichiarazioni ufficiali dell’Unione europea e del G-8, che almeno nel suo politichese si esprime in maniera prudente. Tutti riconoscono la necessità di riportare gli ostaggi israeliani a casa e nessuno manca di rinnovare il solenne impegno a far rispettare la risoluzione Onu 1559. Tutti condividono la volontà di ristabilire la piena sovranità del governo libanese sul suo territorio - il che imporrebbe il disarmo di Hezbollah. Ma poi tutti si sbracciano a sollecitare Israele a non reagire in maniera sproporzionata, chiedendo come sempre «una guerra senza vittime». Espressi da leader come Jacques Chirac e Vladimir Putin, questi appelli lasciano un po’ il tempo che trovano. Chirac nel 2004 fece distruggere l’intera aviazione della Costa d’Avorio. In quanto a Putin, chissà se secondo lui la doppia distruzione di Grozny e le operazioni militari russe in Cecenia avrebbero meritato altrettante parole. Il che riassume il loro impegno a salvare vite innocenti nella massima «non osate fare ai miei amici quello che io ho fatto ai miei nemici». La realtà che la diplomazia deve riconoscere invece è un’altra. La presenza di Hezbollah nel sud del Libano rappresenta un pericolo permanente alla stabilità della regione. Per sei anni ci si è illusi che dopo il ritiro israeliano dal Libano, Hezbollah si sarebbe trasformato in un partito libanese e avrebbe abbandonato la sua vocazione rivoluzionaria, preferendo invece una svolta pragmatica che gli desse accesso al potere politico. La crisi di oggi è figlia di quella miopia tutta occidentale che non riconosce il fanatismo anche quando se lo trova sotto il naso. Ora il danno va riparato con decisione. Se la comunità internazionale non intende intervenire direttamente a disarmare Hezbollah, farebbe bene almeno a lasciare a Israele il tempo di farlo a modo suo. Dal GIORNALE, un editoriale di Massimo Introvigne:
Massimo D'Alema è così entusiasta dell'invio di una forza di pace, con soldati italiani, in Libano, che ne vuole mandare una anche a Gaza. L'entusiasmo è prematuro, contraddittorio rispetto al programma dell'Unione, e sospetto. L'Unione ha attirato un buon numero di elettori contrari alle missioni italiane in Irak e in Afghanistan e al rischio che soldati italiani fossero coinvolti in azioni di guerra. Una minoranza di questi elettori fa il tifo per i terroristi della cosiddetta «resistenza» irakena e per i talebani in nome dell'odio anti-americano. La maggioranza è rimasta impressionata dalla vecchia retorica secondo cui non si capisce perché dei poveri figli di mamme italiane debbano morire per Bagdad, Kabul o qualunque altro posto più o meno difficile da localizzare sulla carta geografica. A questo elettore dell'Unione è ora proposto di mandare soldati italiani in Libano e a Gaza dove le probabilità di tornare a casa in una bara sono molto più alte che in Irak o in Afghanistan. Il passato remoto libanese e quello prossimo irakeno dimostrano che il cappello dell'Onu contro i terroristi è una protezione di cartapesta. Ci dirà D'Alema che, oltre a Chirac, la cui avversione per Israele è ormai quasi patologica, l'idea della forza internazionale è sostenuta da Tony Blair: il quale, peraltro, da qualche mese sembra preoccuparsi parecchio dei buoni rapporti con l'ampia comunità islamica presente in Gran Bretagna e appare comunque assai più cauto. Le azioni di interposizione dell'Onu non funzionano quasi mai. Hanno qualche possibilità di successo quando sono gradite alle due parti in causa. In questo caso Israele ha dichiarato che per il momento il dispiegamento di forze internazionali non è di alcuna utilità Israele in questa vicenda è il Paese aggredito, non quello aggressore. Non solo suoi soldati sono stati rapiti, ma ci sono razzi puntati sulle sue principali città, che il suo esercito si è mosso per trovare e distruggere. Qualunque Paese farebbe lo stesso e neppure D'Alema tollererebbe che - poniamo - l'Albania dispiegasse missili in grado di colpire Bari, Ancona e Venezia. Se le truppe Onu vanno a fermare l'esercito israeliano prima che abbia completato l'identificazione e l'eliminazione dei razzi, non vanno a «interporsi» ma ad aiutare gli Hezbollah. Israele è anche intenzionata a eliminare fisicamente i principali capi delle fazioni più direttamente legate a Teheran degli Hezbollah e di Hamas. Le anime belle che deplorano queste esecuzioni meditino sul fatto che l'eliminazione dei leader di Hamas Yassin e Rantisi ha a suo tempo garantito parecchi mesi senza attentati suicidi da parte dell'organizzazione palestinese. Se le truppe dell'Onu bloccano l'esercito israeliano prima che completi quest'opera, di nuovo non sono neutrali, ma di fatto proteggono i terroristi. I soldati dell'Onu potrebbero essere utili: ma dopo, non prima che Israele abbia completato l'opera di smantellamento delle postazioni terroristiche più pericolose. Se il progetto è quello di Chirac - usare l'Onu per «impedire a Israele di sconfiggere gli Hezbollah» - non si tratta di una missione di pace ma di un'operazione anti-israeliana. In questo caso si espongono a rischi altissimi soldati italiani non in nome della pace ma dell'avversione a Israele che è nel Dna della sinistra e del desiderio di proteggere quegli Hezbollah, che pochi mesi fa il leader di un partito di governo, Diliberto, andava a omaggiare e sostenere a Beirut. D'Alema lo spieghi chiaramente agli italiani.
Necessaria a Israele, la sconfitta di Hezbollah lo è anche per il Libano. Lo conferma un articolo di Alberto Negri pubblicato a pagina 5 dal SOLE 24 ORE. Vi si legge:
Sopravviverà il Libano alla prova? La risposta negli ambienti vicini al primo ministro Fuad Siniora, che ha lanciato un altro appello al cessate il fuoco accusando Israele di volere riportare indietro il paese di 50 anni, è secca: "Se gli israeliani annientano la forza militare degli Hezbollah il nostro paese si riprenderà con vigore, ancora più di prima, altrimenti possiamo dire addio al Libano perché le milizie islamiche condizioneranno un paese distrutto. Frangieh (Samir Frangieh, uomo politico e intellettuale libanese) è esplicito "L'esercito libanese, anche se sulla carta conta 60mila uomini -operativi però non sono più di 25mila - non è in grado di disarmare gli Hezbollah, come chiede la risoluzione 1559 dell'Onu, e tenere sotto controllo il sud senza il pericolo di una guerra civile. Serve una forza di sicurezza multinazionale schierata al confine con Israele e forse anche a quello con la Siria, per evitare infiltrazioni di armi alle milizie che continuano a lanciare razzi su Israele.
Si noti che nell'ipotesi di Frangieh le truppe di interposizione Onu avrebbero la funzione di impedire il riarmo di Hezbollah.
Poco oltre si leggono le parole di Michel Georgiu, commentatore di L'Orient-Le Jour, che puntano il dito su Siria e Iran:
C'era da aspettarsi che Teheran, con la mistica politica del presidente Ahmadinejad, infiammasse la situazione appoggiando gli Hezbollah. Più cinico è stato il ruolo di Damasco che si sta vendicando della perdita del Libano. Damasco ha una responsabilità diretta perché si deve proprio ai decenni di occupazione se oggi lo stato libanese è ostaggio delle milizie islamiche
Di seguito, l'editoriale di Vittorio Emanuele Parsi tratto da AVVENIRE:
Che cosa significa "capire le ragioni di Israele"? Significa anzitutto comprendere perché Israele ricorra così sistematicamente all'uso della forza. A partire da una considerazione evidente. Nelle decisioni che riguardano la sua sicurezza, lo Stato ebraico è sottoposto a una duplice tensione: quella tra logica di breve e logica di lungo periodo e quella tra sistema politico regionale (il Medio Oriente) e sistema politico internazionale. In termini di lungo periodo, Israele sa benissimo che la forza militare non può garantire la sua sicurezza: una serie infinita di guerre (1948, 1956, 1967, 1973, Libano 1982, prima e seconda intifada) sono lì a dimostrarlo. Nonostante le numerose, schiaccianti vittorie militari, Israele continua a essere circondato in gran parte da nemici che ne desiderano la semplice sparizione. Probabilmente il massiccio ricorso alla forza da parte israeliana ha contribuito ad alimentare l'odio da parte dei suoi vicini, e a rendere ancora più difficile il perseguimento della sicurezza nel lungo periodo. Perché, nel lungo periodo, la sola garanzia definitiva per la sicurezza di Israele passa dal riconoscimento da parte dei vicini. Ma, nel breve periodo, la forza è stato il solo strumento che ha consentito la sopravvivenza di Israele. L'amara realtà è che, nel sottosistema mediorientale, la presenza di Israele è ritenuta "provvisoria", e la garanzia della sopravvivenza dello Stato ebraico è riposta - per quanto sia amaro dirlo - nella superiorità militare. Ben diverse sono le cose a livello di sistema internazionale, dove Israele è giustamente considerato, uno Stato pienamente legittimo, e dove l'uso della forza è fortunatamente sempre meno accettato, al punto che la frequenza con cui Israele vi ricorre finisce con l'isolarlo. È vero: la comunità internazionale sostiene in larga misura il diritto alla sicurezza di Tel Aviv. Ma che cosa fa per garantirne la sopravvivenza nel breve periodo e per ricondurre il Medio Oriente alla stessa logica del sistema internazionale? Poco o nulla. E, d'altra parte, il crescere dell'isolamento internazionale di Israele rafforza nella regione il partito dei tanti che sognano di "buttare a mare gli ebrei", per usare le eleganti parole di Ahmadinejad, il presidente di quell'Iran che alcuni vorrebbero come "mediatore" della crisi. Con la sua durissima reazione agli attacchi di Hetzbollah, Israele ha voluto provocare deliberatamente il cortocircuito tra le logiche di lungo e di breve periodo, del sistema regionale e del sistema internazionale. Olmert chiede che il Libano sia davvero uno "Stato sovrano", capace di garantire che il suo territorio non costituisca un "santuario" per i terroristi, oppure che la comunità internazionale si faccia carico del problema. Quanto siamo disposti a fare per trasformare il diritto alla sopravvivenza di Israele in un diritto alla sicurezza, uscendo irreversibilmente da una condizione di continua emergenza a favore di una di normalità? Certo è che il successo dei terroristi e dei loro padrini politici non va in tale direzione e impedisce la realizzazione del diritto dei palestinesi a un loro Stato. L'invio di un contingente militare internazionale è utile solo se esso sarà dotato degli strumenti e del mandato politico adeguati per verificare disarmo o riposizionamento delle milizie nel Libano del Sud (Risoluzione Onu 1599), senza i quali ogni tregua fornirà solo la rincorsa per nuova violenza. Si tratta, niente di meno, che di costruire anche in Medio Oriente quelle condizioni che spingono i più forti alla "moderazione strategica" in cambio della collaborazione dei più deboli a un ordine giusto, del quale partecipino nei costi e nei benefici, nei diritti e nelle responsabilità.
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