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Il Foglio Rassegna Stampa
19.07.2006 Israele, il fronte democratico e quello jihadista
la crisi in Libano nel contesto internazionale

Testata: Il Foglio
Data: 19 luglio 2006
Pagina: 1
Autore: Christian Rocca -la redazione - Ehud Olmert
Titolo: «Perché la rivoluzione democratica sembra avere leader stanchi - I soldi del jihad - Nell'ora della verità Olmert lotta per il diritto a una vita normale - D’Alema e i “soloni globali”»

Dalla prima pagina del FOGLIO del 19 luglio 2006, un articolo di Christian Rocca individua perfettamente la giusta "cura per il medio oriente".
Ecco il testo:

Il gioco dei mullah funziona
Milano. Si può ottenere una tregua stabile in medio oriente senza pensare di cambiare il regime degli ayatollah iraniani o la dittatura baathista siriana? E’ possibile pensare a un futuro di sicurezza e di relativa tranquillità per il popolo israeliano, e per l’occidente, se a Teheran continuerà a esserci un potere rivoluzionario deciso a esportare militarmente l’islamismo radicale e, quando sarà possibile, a farsi scudo dell’atomica per ottenere i suoi obiettivi? Finché l’anacronistica dittatura di Assad rimarrà il crocevia del terrorismo internazionale, sia verso l’Iraq sia verso Israele, vedremo mai la fine delle stragi e l’avvio di una seria e durevole ricostruzione pacifica e democratica nella regione?
Sono questi i punti fondamentali dell’attuale crisi israelo-libanese e vanno inquadrati negli eventi post 11 settembre e nella risposta angloamericana all’attacco jihadista a New York e Washington. La guerra che lo stato ebraico sta combattendo per la sua sopravvivenza non è l’ennesima guerra arabo-israeliana, e non solo perché Egitto, Giordania, Iraq e perfino l’Arabia Saudita a differenza delle altre volte non sono interessati a colpire Israele (l’ha notato, onorevole D’Alema?). Si tratta, piuttosto, della stessa identica guerra che gli Stati Uniti, con l’aiuto intermittente di Europa, Nato e Onu, stanno combattendo in Afghanistan e in Iraq dopo l’11 settembre e che a poco a poco hanno cominciato a condurre col freno a mano tirato, più che altro per ragioni di politica interna. Le azioni terroristiche di Hezbollah fanno parte dello stesso medesimo conflitto mondiale che ha colpito Madrid e Londra, ma non è soltanto una sfida islamista all’occidente. La furia jihadista ha colpito anche città musulmane come Istanbul, Sharm el Sheikh, Riad, Bali, ogni giorno devasta l’Iraq e l’Afghanistan e da ultimo è tornata a uccidere in India. Il dato più interessante è che c’è una paradossale corrispondenza di analisi tra gli osservatori americani che sono stati favorevoli al cambio di regime a Baghdad e chi in Europa vi si è opposto. Ieri Massimo D’Alema ha detto che “se la situazione oggi è così drammatica per Israele, per i palestinesi, per il Libano, per l’intera regione dipende anche dai fallimenti della politica di questi anni: torna alla mente l’analisi semplicistica di chi considerava la guerra in Iraq come l’avvio di una nuova straordinaria stagione, l’effetto domino che avrebbe prodotto democrazia e pace in tutta la regione, una visione ideologica illusoria, ci eravamo opposti a quella guerra anche per questa ragione”. D’Alema non ha citato l’intervento militare che a lui è piaciuto, quello in Afghanistan, ma è vero che l’offensiva di Hezbollah e di Hamas, decisa politicamente a Teheran e operativamente a Damasco, è direttamente collegata alla destituzione del tiranno iracheno e agli eventi successivi.

Prima e dopo l’11 settembre
Prima dell’11 settembre 2001, le forze jihadiste e i regimi dispotici che le hanno generate governavano indisturbati nel medio oriente allargato, grazie alla complicità americana, europea e dell’Ulivo mondiale che s’era convinto della fine della storia, dell’ineluttabilità del progresso e del fatto che il terrorismo andava combattuto nei tribunali di Manhattan o nelle corti penali internazionali. La diffusione dell’odio antioccidentale, il medioevo talebano, le falsità di Arafat, il doppio gioco dei riformisti iraniani, la corruzione Onu di Saddam, i numerosi attentati di al Qaida e, infine, l’attacco dell’11 settembre hanno fatto capire a George Bush e Tony Blair che girarsi dall’altra parte e sperare in Dio non era più una strategia percorribile. Dopo l’intervento angloamericano, due di questi regimi sono stati spazzati via. Ora colui che è stato per decenni il principale elemento di instabilità del mondo arabo è in carcere e i talebani non guidano più uno stato, anzi sono costretti a nascondersi sulle montagne con quel che resta di al Qaida.
Nella regione mediorientale si è aperta una grande battaglia militare e ideale tra due rivoluzioni, quella democratica e quella jihadista-dispotica. I guerrasantieri dispongono ancora di due stati, Iran e Siria, oltre che di milizie armate sparse nella regione e ora lavorano per dotarsi della Bomba. Il fronte democratico ha il suo centro vitale a Washington, a Londra, a Gerusalemme e comincia a compiere i primi passi a Baghdad e a Kabul: resiste, ma è indebolito dalle difficoltà, dai costi, dalle stragi, dalle polemiche, dall’incapacità occidentale di vincere una guerra e dalla prossima uscita di scena dei suoi leader Bush e Blair. Per fortuna c’è Israele.
Israele combatte per la sua sopravvivenza, non vive a distanza di migliaia di chilometri dal centro di potere jihadista e al riparo dai Qassam come gli americani e gli europei.
Washington ha avuto il merito di cacciare i talebani e Saddam, ma secondo il Wall Street Journal ha perso per due volte l’occasione di esercitare pressioni efficaci sulla Siria e di far compiere un passo decisivo verso la pacificazione dell’area. Dopo la caduta di Saddam, Damasco era terrorizzata, temeva che da un momento all’altro gli americani potessero estendere le operazioni al suo territorio, magari attaccando i campi di Hezbollah. La pressione era così forte che a un certo punto i servizi siriani hanno consegnato agli americani i due figli di Saddam, ma è finita con la Casa Bianca costretta a cedere alle critiche dell’opinione pubblica internazionale. L’allora segretario di stato, Colin Powell, è volato a Damasco per rassicurare Assad. Il ringraziamento è stato quello di aprire le frontiere e lasciare entrare in Iraq le brigate islamiste. Una mossa speculare a quella compiuta dagli iraniani a est e al sud dell’Iraq, facendolo diventare così il campo di battaglia della guerra tra democrazia e jihad.

Dopo la rivoluzione dei cedri
Quando l’anno scorso il Libano vibrava per la rivoluzione dei cedri e l’Onu aveva individuato nel regime il responsabile dell’omicidio dell’ex premier libanese Rafiq Hariri, Stati Uniti e Francia si sono accontentati del ritiro dell’esercito regolare dal Libano. Oggi la situazione in Libano è simile a quella dell’Iraq, ha scritto Mohammed Fadhil sul Wall Street Journal. Entrambi hanno governi democratici deboli e incapaci di controllare le milizie manovrate dall’Iran e impegnate nella stessa guerra regionale che non ha l’obiettivo di migliorare la situazione di quei popoli. La strategia iraniana è chiara: togliere i riflettori dalla corsa al nucleare, trasformare il Libano in un nuovo Iraq, aprire un altro fronte, accettare l’offerta di mediazione dei governi occidentali e offrire la solita mezza soluzione con cui poter mantenere la regione nel caos. Il momento è giusto, con Bush giù nei sondaggi e la gran voglia di trovare una via d’uscita per far rientrare le truppe in patria. Blair andrà via, Sharon è in ospedale e il ritiro da Gaza è stato interpretato come un segno di debolezza. Molti analisti, però, credono che gli iraniani abbiano commesso un errore strategico questa volta, perché qui Israele combatte per la propria esistenza e non si fermerà fino a quando avrà disinnescato Hezbollah. Gli Stati Uniti potrebbero svegliarsi dal torpore, anche perché – come ha scritto il New York Sun – non è un caso che il ritrovato attivismo jihadista segua la scelta americana di abbandonare la cosiddetta politica estera da cowboy. Gli analisti conservatori vorrebbero che Bush approfittasse della situazione, perché è meglio affrontare l’Iran con le armi convenzionali, piuttosto che quando avrà il nucleare. Senza la Repubblica islamica non esisterebbe Hezbollah, ha scritto Bill Kristol. Senza gli ayatollah a Teheran, la Siria non avrebbe alleati. Senza quei due regimi, Hamas sarebbe in difficoltà. Senza la rivoluzione sciita, i sauditi avrebbero meno interesse a finanziare il fondamentalismo e non esisterebbero i talebani e probabilmente nemmeno Hamas. L’unico modo per vincere questa guerra – ha scritto Michael Ledeen su National Review – è far cadere i regimi di Teheran e Damasco e non sarà sufficiente che Israele sconfigga le loro propaggini Hezbollah e Hamas. Una pace durevole raramente si ottiene tra uguali, ma tra forti e deboli, ha scritto il direttore di Middle East Quarterly, Michael Rubin. La Seconda guerra mondiale è terminata quando il liberal Harry Truman ha usato sproporzionatamente la forza sul Giappone: le guerre si combattono fino a vincerle – dice Rubin – la diplomazia che mira a conservare lo status quo, e fa concessioni ai terroristi, non fa altro che assicurare ulteriori bagni di sangue.

Di seguito, sempre dalla prima pagina, una puntuale e informata analisi della preparazione dell'attacco a Israele e del ruolo dell'Iran:

Sorrisi a Foggy Bottom quando la Cnn ha detto, nella giornata d’apertura del G8, che il premier italiano, Romano Prodi, avrebbe chiesto la mediazione dell’Iran nel conflitto fra Israele e Hezbollah. Condi Rice è rimasta incuriosita dalla singolare proposta. L’Italia ha ottimi rapporti con la Repubblica islamica, l’Eni ha grossi interessi in Iran, Roma è in cima ai paesi esportatori, la diplomazia italiana è da sempre una delle più informate, il rappresentante a Teheran, l’ambasciatore Roberto Toscano, è uno dei migliori diplomatici occidentali sulla piazza, ma l’affare libanese è un’altra cosa, una matassa troppo intricata per Prodi, che forse non sapeva alcune cose. Per esempio che l’attacco del 12 luglio di Hezbollah contro i soldati di Tsahal era stato programmato da almeno sei mesi fra Teheran, Damasco e Beirut periferia sud, roccaforte dei terroristi sciiti. Che da almeno un anno, come risulta al Pentagono e alla Cia, gli stati maggiori di Teheran avevano accumulato in Libano armi sofisticate e convenzionali. Che Teheran sta dietro anche alle ultime iniziative di Hamas, al potere a Gaza. Nello scorso giugno, Khaled Meshaal, leader del gruppo islamista a Damasco, ha avuto un incontro con gli iraniani – con Ali Akbar Mothashemi Pour – per decidere le azioni contro Israele. La cattura del caporale Shalit non è stata un caso. Gli iraniani e i loro alleati prevedevano che Israele avrebbe reagito e che sarebbe stato il momento opportuno per attaccare dal Libano, scatenando un conflitto che gli ayatollah considerano, come pensa anche la Cia, una benedizione. I piani egemonici dell’Iran nella regione sono ben noti a Foggy Bottom, dove ne hanno fatto un dossier che ha già raggiunto le cancellerie arabe. L’Iran vuole mettere le mani sul sud dell’Iraq, satellizzare la Siria, controllare (via Hezbollah) il Libano, destabilizzare paesi con forti minoranze sciite come l’Arabia Saudita, espandersi nella provincia di Herat in Afghanistan. Queste notizie hanno spaventato Egitto e Giordania e terrorizzato i sunniti iracheni e sauditi. Da qui la cautela e la condanna degli Hezbollah di importanti governi arabi. L’Iran – a Washington tutti ne sono convinti – intende veramente distruggere Israele. Le parole del presidente Ahmadinejad nel volgere di pochi mesi sono state seguite dai fatti. Le colombe e le anime belle, “in questo merdaio”, per citare George W. Bush, hanno davvero poco spazio. Nei prossimi giorni Condi andrà in medio oriente. L’ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, Daniel Ayalon, ha consigliato a John Bolton di suggerire a Condi di ritardare di qualche settimana il viaggio. Lei aspetta il momento giusto, a premere sono gli egiziani, i sauditi e i giordani, alleati dell’America. L’Iran ha stanziato sin dal 2003 un budget annuale di 150 milioni di dollari per finanziare Hezbollah. E’ un budget coperto che include anche un aiuto alla Siria ed è a carico della National Iranian Oil Company. I trasferimenti sono effettuati attraverso i pasdaran. Più di due miliardi di dollari sono transitati da Teheran a Hezbollah. Il comandante in capo delle Guardie rivoluzionarie in Libano, Mohammad Pakpour, è oggi il responsabile finanziario per l’emergenza in corso. Hezbollah ha ricevuto finanziamenti attraverso la Middle East and Africa Bank (Meab), fatti affluire a Hezbollah da organizzazioni umanitarie “caritatevoli e di assistenza” controllate direttamente dall’ufficio di Khamenei.

Da pagina 2 dell'inserto, ampi stralci del discorso tenuto alla Knesset lunedì 19 luglio dal proemier israeliano Ehud Olmert.
Ecco il testo:


Voglio esprimere le condoglianze, a titolo personale e a nome del governo, della Knesset e della nazione, alle famiglie delle vittime, sia civili sia membri delle forze di difesa israeliane. Invio i migliori auguri di guarigione ai feriti, un abbraccio alle famiglie di chi è stato rapito e ai ragazzi. Nelle ultime settimane, i nostri nemici hanno sfidato la sovranità dello stato d’Israele e attentato all’integrità di chi vi risiede, prima nella zona sud e poi al confine settentrionale, addentrandosi sempre più nel territorio del paese. Israele non ha cercato questo scontro. Al contrario. Abbiamo fatto molto per evitarlo. Siamo rientrati nei confini riconosciuti dalla comunità internazionale. C’è stato chi ha interpretato erroneamente il nostro desiderio di pace, cui aspiriamo per noi e per chi ci vive accanto, ritenendo che fosse un segno di fragilità. Anche i nostri nemici hanno interpretato, sbagliando, la nostra disponibilità a imporci restrizioni come segno di debolezza. Si sbagliavano! Lo stato d’Israele non è impegnato in un conflitto militare, né al confine meridionale né settentrionale. In queste due zone, ci posizioniamo entro i confini riconosciuti a livello internazionale, sia nei confronti dell’Anp nella Striscia di Gaza sia in Libano. Non abbiamo intenzione di interferire con le questioni interne di questi paesi. La stabilità del Libano, libero dal dominio di poteri esterni, e dell’Autorità palestinese sono nell’interesse d’Israele (…). La campagna in cui siamo impegnati in questi giorni è rivolta contro le organizzazioni terroristiche che operano in Libano e nella Striscia di Gaza. Queste organizzazioni non sono altro che “subappaltatori”; le cui azioni sono istigate e finanziate dai regimi che sponsorizzano il terrorismo e rifiutano la pace, che si collocano su quell’Asse del Male che si estende da Teheran a Damasco (…). Anche se gli attacchi criminali di mercoledì scorso contro una pattuglia dell’esercito israeliano sono stati effettuati senza l’assenso del governo libanese e senza l’assistenza degli alti gradi militari, questo non li assolve dalla responsabilità degli attacchi, partiti da territori di cui sono sovrani. Come il fatto che il presidente dell’Autorità palestinese si opponga al terrorismo contro Israele non solleva lui e l’Anp dalla responsabilità degli attacchi partiti dal loro territorio contro Kerem Shalom. Entrambi sono responsabili della sicurezza dei nostri soldati presi in ostaggio. Le forze radicali stanno sabotando la vita dell’intera regione e mettendo a repentaglio la sua stabilità. Porre fine alle loro attività è nell’interesse della regione e di tutto il mondo. Tutti noi possiamo vedere come la maggioranza della comunità internazionale ci sostenga nella battaglia contro le organizzazioni terroristiche e nei nostri sforzi per cancellare questa minaccia per il medio oriente. Continueremo a intervenire finché non ce l’avremo fatta. Sul fronte palestinese, condurremo una battaglia finché il terrorismo non avrà fine, Ghilad Shalit verrà resituito sano e salvo alla sua casa e non smetteranno di lanciare i missili Qassam. In Libano insisteremo affinché si rispettino i termini dell’accordo stipulato tempo fa dalla comunità internazionale, espressi ancora ieri nella risoluzione degli otto paesi più importanti del mondo: la restituzione degli ostaggi Ehud Goldwasser e Eldad Regev, un cessate il fuoco totale, il dispiegamento delle forze dell’esercito del Libano nel sud del paese, l’espulsione degli Hezbollah dall’area e il rispetto della risoluzione 1.559 dell’Onu. Non sospenderemo la nostra azione. Su entrambi i fronti stiamo conducendo azioni di autodifesa. L’importanza e il significato del problema vanno ben oltre le dimensioni delle unità militari coinvolte. E’ il momento della verità per la nostra nazione. Ci piegheremo a vivere sotto la minaccia di questo asse del male o faremo ricorso alle nostre forze più intime e dimostreremo determinazione e equità? (…) Perquisiremo ogni abitato, prenderemo di mira tutti i terroristi che forniscono il loro aiuto agli attacchi contro i cittadini d’Israele e distruggeremo tutte le infrastrutture dei terroristi. Insisteremo finché Hamas non si conformerà alle richieste che ogni cittadino civile avanza nei suoi confronti. Israele non accetterà di vivere sotto la minaccia dei razzi. Ci sono momenti, nella vita di una nazione, in cui è indispensabile guardare dritto in faccia la realtà e dire: basta! E io dico a tutti: basta! Israele non sarà ostaggio né di bande né di autorità terroriste, né di qualsiasi stato sovrano. Nella vita di una nazione ci sono momenti di purificazione in cui le dispute politiche e partigiane che ci separano vengono sostituite da un senso di responsabilità reciproca. Ho grande stima del comportamento dell’opposizione alla Knesset in questi giorni. L’agonismo e le rivalità personali si sono dissolte e al loro posto si sono levati il senso di responsabilità, di collaborazione e soprattutto l’eterno amore per il nostro popolo e la nostra terra. Questo è uno di quei momenti! E tutti noi, ebrei, musulmani, cristiani, drusi e circassi, ora siamo uniti, una persona, una nazione, sottoposta insieme allo stesso odio e alla stessa malvagità, contro cui ci battiamo in piena concordia. Quando lanceranno dei missili contro le nostre città, la nostra risposta sarà la guerra, con tutta la forza, la determinazione, il valore e la dedizione che caratterizzano la nostra nazione (…). La forza dello stato d’Israele sta nelle capacità delle sue forze di difesa. Questa forza è la prima garanzia a salvaguardia della nostra vita in questa terra (…). La forza di una nazione si misura nei momenti difficili, quando il fronte interno diventa il fronte, quando i cittadini del paese dimostrano forza d’animo, pazienza e vigore e gli permettono di agire contro i suoi nemici (…). Anche in questi giorni, centinaia di migliaia di israeliani si trovano come soldati sui campi di battaglia a combattere per la nostra vita e il nostro onore (…). Il governo di Israele, sotto la mia guida, trae forza dal vigore della gente israeliana. Oggi sono fiero, forse più che mai, di essere cittadino israeliano. Grazie a voi, i nostri nemici devono affrontare una nazione unita, che lotta gomito a gomito. Non ci arrendiamo. Siamo convinti che la nostra causa sia giusta, perché non c’è battaglia più giusta e morale della nostra battaglia per il diritto a una vita normale e pacifica, come tutti gli altri esseri umani, tutte le altre nazioni e tutti gli altri stati (…). Lottiamo per tutto quello che ogni cittadino del mondo dà per scontato, per cui mai si sarebbe immaginato di dover lottare: il diritto a una vita normale. E’ una prova dolorosa, e potremmo dover sopportare sofferenze ancora maggiori. Ma non abbiamo intenzione di rinunciare al nostro desiderio di una vita normale. Non ci scuseremo per questo e non abbiamo bisogno dell’approvazione di nessuno per difenderci. Lo stato di Israele ha affontato prove molto più dure, e ne è uscito vincitore. Abbiamo sempre saputo mobilitare le nostre forze interiori, la nostra equità (…). Continueremo senza capitolare e senza affliggerci, finché non avremo raggiunto i nostri obiettvi. Vorrei concludere leggendo un passaggio del profeta Geremia: “Così dice il Signore: ‘una voce si ode da Rama, lamento e pianto amaro: Rachele piange i suoi figli, rifiuta d’essere consolata perché non ci sono più’. Dice il Signore: ‘Trattieni la voce dal pianto, i tuoi occhi dal versare lacrime, perché c’è un compenso per le tue pene; essi torneranno dal paese nemico. C’è una speranza per la tua discendenza: I tuoi figli ritorneranno entro i loro confini’”. Vinceremo! (traduzione di Elia Rigolio)

Da pagina 3, un editoriale sul discorso di D'Alema alla Camera:

Il ministro degli Esteri ha tenuto ieri alla Camera un discorso di politica estera incentrato sulla crisi in medio oriente: conteneva qualche elemento di verità, uno sforzo di analisi non irrilevante, ma un errore di fondo. Massimo D’Alema pensa che l’ala radicale di Hamas e gli Hezbollah abbiano avviato la crisi con le loro provocazioni per impedire la ripresa del negoziato tra il premier israeliano Ehud Olmert e il capo dell’Autorità palestinese Abu Mazen, il che è giusto nel dettaglio; ma D’Alema pensa anche che la chiave della pacificazione mediorientale stia nella ripresa delle trattative tra gli eredi dell’Olp e il governo di Gerusalemme, il che è sbagliato sia in dettaglio sia all’ingrosso. Abu Mazen è ormai una variabile minore della scena, e il nazionalismo palestinese non è più il fulcro, se lo è mai stato, della crisi, che per questo motivo ha radicalmente cambiato natura. La crisi ha il nome di Siria e Iran, e non a caso Olmert ha rispolverato la formula dell’asse del male ovvero degli stati canaglia per definire il contesto attuale di aggressività strategica che minaccia Israele.
Per D’Alema il ruolo “indiretto” di destabilizzazione armata da parte di Iran e Siria, di cui afferma con un certo sprezzo del ridicolo di non avere prove certe, è legato ai guasti della aggressiva politica americana nella regione, a partire dalla guerra contro Saddam. E’ vero il contrario, sebbene questa verità sia spiacevole per gli interessi economici e politici del multilateralismo europeo guidato in passato da Jacques Chirac, che gioca da sempre la carta dell’appeasement, d’intesa con la Russia di Putin e in funzione antiamericana, verso Teheran e Damasco. Come ha scritto proprio ieri il Wall Street Journal, contro i “soloni globali” che chiedono compostezza e senso delle proporzioni a Israele, l’islamizzazione della causa palestinese, ormai dispiegata e originata da ragioni profonde, avrebbe dovuto essere fronteggiata con maggiore durezza e capacità di dissuasione invece che con una sproporzionata tendenza all’attendismo politico, diplomatico e militare. E il giudizio severo riguarda anche Condoleezza Rice, che si è anche lei di recente esercitata nel formalismo impotente del “restraint on both sides”, cedendo un po’ di terreno ai soloni europei. D’Alema è convinto che non si ridisegna a partire dal “modello Baghdad” la carta del medio oriente, e che l’effetto domino dopo la liberazione dell’Iraq da Saddam c’è stato sì, ma al contrario. Opinione legittima, ma errata, e figlia di una vecchia impostazione culturale e politica, precedente all’11 settembre. Per quante difficoltà abbia incontrato la ricostruzione dell’Iraq, per quanto indebolita sia oggi la leadership mondiale di George Bush, è vero piuttosto che non si ridisegna né una pace né una tregua né una mappa mediorientale accettabile sia per Israele sia per i palestinesi sia per la pace mondiale se non si risolva il problema di chi comanda a Teheran e a Damasco, muovendo i fili del terrorismo islamista alle porte di Gerusalemme. Non è il lavoro iniziato che ci ha messo nei guai più neri, ma il lavoro incompiuto.


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