Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
Minaccia all'esistenza di Israele analisi, retroscena e commenti sulla crisi orchestrata da Iran e Siria
Testata: Corriere della Sera Data: 19 luglio 2006 Pagina: 1 Autore: Benny Morris - Magdi Allam - Davide Frattini - Guido Olimpio - Antonio Ferrari Titolo: «Il terrore in subappalto - I diritti di Israele: una prova per l’Occidente - «Non sarà una guerra lampo» - La sorpresa di Nasrallah - Il mondo arabo si frantuma sul sostegno a Hezbollah»
L'analisi di Benny Morris dalla prima pagina del CORRIERE della SERA del 19 luglio 2006:
Il premier israeliano Ehud Olmert, nel primo discorso alla nazione dall’inizio dell’ultimo round di ostilità fra Hezbollah e Israele la settimana scorsa, ha definito l’Hezbollah e Hamas «subappaltatori dell’asse del male», Iran e Siria. Naturalmente ha ragione, almeno in parte: basta esaminare le settimane che hanno preceduto i recenti attacchi di Hamas e dell’Hezbollah lungo i confini dello Stato ebraico. Prima degli attacchi, nei quali tre soldati israeliani sono stati catturati e dieci uccisi scatenando le attuali ostilità, c’è stata da parte iraniana un’escalation di appelli, alla luce del sole e clandestini, sia all’Hezbollah, l’organizzazione politica e militare islamista libanese, sia ad Hamas, l’organizzazione islamista che governa i territori palestinesi, affinché intensificassero i loro attacchi contro Israele. Sicuramente il raid dell’Hezbollah, la settimana scorsa, mirava a distogliere le energie di Israele da Hamas e dalla Striscia di Gaza, dove i miliziani di Hamas tenevano il primo soldato israeliano catturato. Ma la chiave probabilmente è l’Iran. La maggior parte degli analisti qui ritiene che le incursioni, tanto quelle di Hamas quanto quelle dell’Hezbollah, siano legate alla crescente pressione occidentale su Teheran, e all’interesse che ha l’Iran a distogliere l’attenzione dall’impianto di Natnaz e dagli altri impianti nucleari che pare stiano preparando la bomba nucleare iraniana. Oltre a questo, l’Iran, come ha detto il Presidente Ahmadinejad, è interessato a cancellare Israele dalla faccia della terra - e qualsiasi danno possa venire a Israele da parte dei suoi emissari, senza che sia l’Iran a pagarne il prezzo, è benedetto. La posizione siriana appare più ambigua. Anche la Siria, naturalmente, è felice di vedere i missili che piovono su Haifa mentre se la ride, indenne, a bordo campo. La Siria è sempre stata esperta nello sguinzagliare gli altri contro i suoi nemici. L’ha fatto negli anni ’60, quando mandava i miliziani di Fatah dentro Israele, e l’ha rifatto il padre del presidente Bashar Assad, Hafiz Assad, a metà anni ’80, quando gli uomini bomba dell’Hezbollah e i soldati drusi, organizzati e finanziati da Damasco, spinsero israeliani, americani e francesi fuori da Beirut e dal Libano centrale. Diversamente dall’Iran, dall’Hezbollah e da Hamas, la Siria non è un’entità musulmana fondamentalista - infatti Hafiz Assad ha annientato i fondamentalisti islamici siriani con grande ferocia nella città di Hama nel 1982 (secondo i resoconti dell’epoca massacrò qualcosa come ventimila persone, inducendo l’editorialista del New York Times, Tom Friedman, a coniare l’espressione «metodo Hama» per descrivere il comportamento dei regimi arabi nei confronti dei propri oppositori). Tuttavia la Siria si sente sempre più isolata e accerchiata, con gli Stati Uniti che le stanno con il fiato sul collo per i suoi comportamenti in Libano (aver organizzato l’assassinio dell’ex primo ministro Hariri) e in Iraq (sostegno ai ribelli anti-americani), e non c’è dubbio che sia felice di far causa comune con i nemici dei suoi nemici. Il mese scorso, durante una visita a Teheran del ministro della Difesa siriano Hassan Turkmani, i due paesi hanno sottoscritto un patto di difesa formale che consolida un’alleanza concreta di lunga data. Tutto questo coordinamento e far quadrato di Iran, Hezbollah, Hamas - oggi finanziato direttamente da Teheran per compensare i recenti tagli degli aiuti occidentali ai palestinesi - e Siria, è forse uno dei motivi della ferocia con cui gli israeliani sono andati all’attacco dell’Hezbollah, visto che l’incursione cattura-soldati seguiva di poco un’incursione analoga da parte di Hamas al confine con la Striscia di Gaza in cui era stato catturato un solo soldato israeliano. Chiaramente Israele sta cercando di schiacciare l’Hezbollah in quanto organizzazione militare, o almeno di respingere le sue forze verso nord, lontano dal confine settentrionale dello stato ebraico, neutralizzandone la capacità futura di lanciare razzi su città e villaggi israeliani. Gli islamisti di tutto il mondo, da al Qaeda in giù, considerano lo Stato di Israele un promontorio e un avamposto dell’occidente nel Medio Oriente islamico, e le battaglie di Hezbollah e Hamas contro Israele fanno senza dubbio parte della lotta globale dei fondamentalisti contro l’occidente. È certo che cercano di riconquistare la «Palestina» all’Islam (fa parte del codice islamista che qualsiasi territorio, una volta conquistato all’Islam, rimanga in eterno, inalienabile, di diritto, territorio «islamico»). Ma nel caso di Hamas, e del suo aiutante fondamentalista minore, la Jihad islamica (palestinese), questa lotta fa anche parte della battaglia territoriale e nazionale palestinese per recuperare la Palestina, tutta la «Palestina», ai palestinesi. L’Hezbollah ha sempre dato volentieri una mano ai suoi fratelli islamisti palestinesi. Ma il prezzo che l’Hezbollah - e il Libano - potrebbe pagare per questo suo ultimo azzardo può rivelarsi molto alto. (Traduzione di Monica Levy)
Di seguito, la coraggiosa e forte presa di posizione di Magdi Allam sulla necessità di difendere il diritto all'esistenza di Israele:
Al di là delle differenti opinioni sulla nuova crisi in Medio Oriente, emerge che per gran parte del mondo il diritto di Israele all’esistenza è una variabile dipendente, non un principio inviolabile delle relazioni internazionali. Anche il nostro Occidente legittima pienamente non soltanto degli Stati che non hanno relazioni diplomatiche con Israele, ma si dicono pronti ad averle qualora sorgesse uno Stato palestinese, ma legittima anche quegli Stati e gruppi che hanno scatenato una guerra del terrore e predicano l’annientamento di Israele. È una riflessione che s’impone quando da parte dei governi, dei parlamenti nazionali e dell’Unione Europea si deplora l’uso «eccessivo» della forza o la reazione «sproporzionata» di Israele, limitandosi a mettere a confronto un certo numero di israeliani uccisi contro un numero maggiore di vittime palestinesi e libanesi, l’impiego di aerei e lanciamissili contro kamikaze e razzi. Senza contestualizzare gli eventi bellici, citando en passant la volontà di distruggere Israele quasi si trattasse di uno dei tanti elementi della crisi. Finendo per mettere sullo stesso piano l’attentato terroristico sferrato da chi disconosce il diritto di Israele all’esistenza e la rappresaglia militare di chi difende il proprio diritto alla vita. E nella condanna indistinta della violenza e nell’appello generico alla pace, si finisce di fatto per legittimare il terrorismo. Occultandone la natura aggressiva, giustificandolo come «reazione» ai bombardamenti, nobilitandolo come «resistenza» all’occupazione. In questo clima saturo di disinformazione la realtà viene mistificata, i pregiudizi religiosi e ideologici verso Israele riesplodono con modalità diverse. Ebbene, una corretta informazione fa emergere come l’inizio della crisi sia stato l’attentato terroristico compiuto il 25 giugno scorso da un commando di Hamas, partito da Gaza non più occupata, che ha ucciso due soldati israeliani e rapito un terzo. Un’iniziativa che ha voluto sabotare la speranza della ripresa del negoziato, riaffiorata dopo il vertice tra il presidente palestinese Abu Mazen e il premier israeliano Olmert a Petra il 22 giugno, sotto gli auspici del re giordano Abdallah II. Un copione già visto quando nell’ottobre del 1993 Hamas scatenò per la prima volta i suoi kamikaze sugli autobus a Gerusalemme e Tel Aviv per sabotare il nascente processo di pace siglato il 13 settembre 1993 a Camp David tra Arafat e Rabin. Successivamente alla rappresaglia militare israeliana a Gaza, è scattata la seconda fase della crisi. L’8 luglio i terroristi dell’Hezbollah sono penetrati in territorio israeliano, partendo dal Libano meridionale che non è più occupato dal 2000, uccidendo otto soldati e sequestrandone due. In questo caso si è trattato di un terrorismo su procura per scatenare un conflitto in Libano al fine di alleggerire la pressione della comunità internazionale nei confronti dell’Iran sulla questione del nucleare. Un copione simile a quello di Saddam, quando il 3 giugno 1982 commissionò a Abu Nidal l’uccisione dell’ambasciatore israeliano a Londra, Shlomo Argov, determinando la decisione israeliana di invadere il Libano il 6 giugno, al fine di distogliere l’attenzione dal massacro, con i gas chimici, di migliaia di soldati iraniani a un passo dalla presa di Bassora. La legittimazione di Hamas, Hezbollah, Assad e Ahmadinejad viene accreditata sulla base del fatto che sono stati liberamente eletti dai rispettivi popoli. Ebbene, oggi è l’Occidente per primo, dal momento che è impegnato nella diffusione della democrazia nel mondo, a dover rispondere a un quesito fondamentale: può essere considerato democratico chi nega il diritto all’esistenza di Israele e pratica il terrorismo per distruggerlo? Ed è l’Occidente per primo, a circa 60 anni dall’Olocausto degli ebrei frutto del regime nazista andato anch’esso al potere democraticamente, a doversi pronunciare in modo inequivocabile sulla legittimità delle forze islamiche «democratiche» che stanno promuovendo una guerra volta a cancellare la patria degli ebrei dalla carta geografica. Ecco perché dovrebbe essere proprio l’Occidente a prendere l’iniziativa di accreditare sul piano del diritto internazionale che il diritto di Israele all’esistenza è un principio inalienabile e un valore incontrovertibile che sostanzia la democrazia. Che, pertanto, predicare e operare per la distruzione di Israele è un crimine contro l’umanità e una negazione della democrazia, che non può prescindere dal riconoscimento del diritto alla vita e alla libertà di tutti. www.corriere.it/allam
L'analisi di Davide Frattini sugli obiettivi delle operazioni israeliani:
GERUSALEMME - «Se mi richiamano tra i riservisti, dobbiamo cominciare a preoccuparci», scherza Avi, che ha 36 anni, e dice «prima di arrivare a noi vecchietti, questa guerra deve durare ancora a lungo». Per ora il ministero della Difesa ha ordinato la mobilitazione di tre battaglioni, almeno mille uomini, che dopo un breve addestramento verranno piazzati in Cisgiordania per sostituire le truppe spedite al confine Nord. «Vogliamo rafforzare la frontiera - spiegano dallo Stato maggiore - per evitare infiltrazioni dell’Hezbollah nei nostri villaggi». Lunedì è stata superata la linea che gli analisti avevano fissato per giudicare l’andamento della guerra: quei «sei giorni» che negli ultimi quarant’anni gli israeliani hanno usato per valutare «le vittorie lampo». «Dobbiamo cominciare a chiederci - scrive Shimon Shiffer su Yedioth Ahronoth - quando il primo ministro potrà dichiarare: abbiamo vinto». E ricorda quel senatore americano che per uscire dalla palude del Vietnam aveva suggerito «proclamiamo di aver vinto e torniamocene a casa». I generali israeliani hanno fissato invece almeno due obiettivi militari: colpire i vertici dell’Hezbollah, a partire dallo sceicco Hassan Nasrallah, e demolire completamente le postazioni e gli arsenali delle milizie. «Finora l’aviazione - spiega Alex Fishman su Yedioth - ha centrato il 40 per cento delle bandierine fissate sulle mappe satellitari. I comandi dell’Hezbollah sono ancora operativi e i danni procurati alle forze sul terreno non ancora sufficienti. Se gli sforzi diplomatici proseguono, vuol dire che agli israeliani resta ancora una settimana per finire il lavoro. Quindi assisteremo a bombardamenti più intensi nei prossimi giorni». Fishman basa i suoi calcoli sul calendario della diplomazia. Condoleezza Rice è attesa in Medio Oriente per il weekend. La Casa Bianca è convinta che il segretario di Stato avrà bisogno di tre-quattro giorni per tentare di definire un accordo per il cessate il fuoco. Secondo l’analista di Yedioth , la tregua dovrebbe arrivare tra lunedì e martedì prossimi. Il generale Moshe Kaplinski, vicecapo di Stato maggiore, spiega che l’offensiva durerà ancora tre o quattro settimane (la stessa previsione fatta da Amir Rappaport su Maariv ). E confida nei sondaggi che mostrano gli israeliani pronti a sopportare i Katiuscia sulle città del Nord: l’86% sostiene le azioni delle forze armate e il 58% vuole che vadano avanti fino all’eliminazione dell’Hezbollah. Menachem Mazuz, procuratore generale dello Stato, non considera i raid di questa prima settimana neppure una «guerra»: «Da un punto di vista legale - ha risposto a un’interpellanza della deputata Zahava Gal-On di Meretz - a Gaza e in Libano stiamo svolgendo delle operazioni militari, non conducendo una guerra». Lo storico Michael Oren, che proprio sul conflitto dei Sei giorni ha scritto il suo libro più importante, crede che dal 1967 vadano ricavate le lezioni per capire come proseguire l’offensiva. E sul settimanale liberal The New Republic suggerisce di bombardare la Siria oggi per evitare problemi più grandi domani: «Fino a quando Damasco viene lasciata fuori dal gioco, Israele non può raggiungere in alcun modo un cambiamento nel labirinto politico libanese e assicurare un cessate il fuoco duraturo al Nord. Al contrario, rassicurati dal fatto che gli israeliani non vogliono attaccarli, i siriani possono continuare a far crescere le tensioni. Il risultato potrebbe essere una guerra totale con Damasco, l’Iran e gravi disordini in Giordania, Egitto, i Paesi del Golfo». L’attacco che Oren propone è un bombardamento delle forze di terra dislocate al confine con il Libano. «Eliminando cinquecento tank siriani - che servono al presidente Bashar Assad per preservare il suo regime - possiamo mandare il segnale di non voler ritornare allo status quo». O come ha detto il ministro della Difesa Amir Peretz, senza accennare a Damasco: «Non accetteremo di ritrovarci con l’Hezbollah a distanza di sputo».
I retroscena della minaccia militare e terroristica di Hezbollah in un informato articolo di Guido Olimpio:
L’esercito israeliano ha intercettato e ucciso un gruppo di guerriglieri che tentava di infiltrarsi oltre confine. Poche righe, in un comunicato sommerso dalle notizie dei bombardamenti. In realtà, è un segnale inquietante perché prefigura uno scenario da incubo. La conquista di un kibbutz di frontiera israeliano da parte dell’Hezbollah, seguito da una presa di ostaggi. A Gerusalemme, gli analisti della Difesa hanno avvertito il governo su quella che potrebbe essere una delle «sorprese» annunciate dal segretario dell’Hezbollah Hassan Nasrallah. «Quando parla di sorprese vuol dire esattamente sorprese», affermano gli ufficiali. È una tecnica già impiegata durante l’occupazione del Libano da parte di Israele. I militanti pro-iraniani assaltano una postazione, innalzano la bandiera gialla del movimento e si fanno riprendere dalla loro tv, mentre cantano vittoria. L’Hezbollah ha studiato a lungo il confine, scovando i punti ciechi, ossia quelle aree non coperte dal sofisticato sistema video-elettronico. Nel 2002, un commando è riuscito a scavalcare la recinzione in uno di questi «buchi» usando una specie di scala. Pochi giorni fa, è di nuovo in uno di questi settori ciechi che gli Hezbollah si sono infiltrati per catturare i due soldati.
IL PIANO ALTERNATIVO - Al piano A - la presa d’ostaggi - può seguire il piano B. Teheran e gli Hezbollah hanno già invitato i gruppi palestinesi in Cisgiordania e Gaza ad agire. Un atto dovuto nei confronti di chi ha aiutato in modo sostanziale con denaro e informazioni belliche. Ma è possibile - osservano ancora a Gerusalemme - che vengano attivate delle «cellule dormienti» Hezbollah presenti in Israele, magari con l’intervento di qualche terrorista «bianco», un occidentale arruolato alla causa: è avvenuto in passato con il coinvolgimento di estremisti danesi, tedeschi o anglo-pachistani.
L’USO DEI MISSILI - In attesa della sorpresa e dopo la prima settimana di guerra, Israele tira un primo bilancio. Che si apre con una valutazione delle mosse dell’Hezbollah. Hassan Nasrallah è partito con un’operazione tattica - la cattura dei due soldati - ed è finito in un conflitto regionale. Dimostrando una grande flessibilità, il movimento ha aggiustato la sua posizione alternando lanci ridotti di razzi ad attacchi massicci (come ieri) al fine di non sprecare colpi. Questo perché - sostengono gli israeliani - deve conservare i missili a lungo raggio come risorsa strategica. Teheran, che ha rifornito l’Hezbollah con migliaia di «pezzi», ne ha bisogno nel caso di un possibile scontro sul nucleare con gli Usa o lo stesso Israele. I guerriglieri provano a superare questo round senza bruciare armi che potrebbero tornare utili in futuro. Nulla impedisce però, che in caso di cambiamenti sul terreno, l’Hezbollah utilizzi il suo potenziale.
GLI AIUTI - In questi giorni Israele ha cercato di colpire depositi e strutture. Il movimento ha subìto delle perdite, però «funziona - secondo ufficiali israeliani - la catena di comando impartisce gli ordini, i consiglieri iraniani restano nei punti chiave, i miliziani sparano». Anche il blocco imposto al Libano funziona in parte. Pur a ritmo ridotto, i militanti continuano a ricevere rifornimenti attraverso la frontiera siro-libanese: solo due giorni fa, sono stati segnalati diversi passaggi e ieri sono stati colpiti alcuni camion. Piccoli convogli che seguono le piste usate nel 2002 dai siriani per far arrivare ai militanti missili con una gittata di circa 60 chilometri. Gli esperti di Damasco hanno avvertito i loro alleati della scarsa precisione degli ordigni.
I PASDARAN - Le incursioni israeliane hanno indotto i pasdaran iraniani, che assistono gli Hezbollah, a essere più cauti. Per questo hanno trasferito mogli e figli in zone sicure, probabilmente nel Nord. Ma continuano a essere presenti nei gangli vitali della formazione sciita: partecipano alle decisioni strategiche, sorvegliano i depositi più importanti, assistono i guerriglieri nell’uso dei missili, mantengono il collegamento con gruppi radicali all’estero. L’attenzione degli esperti militari è concentrata sul ruolo avuto negli ultimi sviluppi sul campo. A cominciare dall’attacco contro la corvetta israeliana, sorpresa da un ordigno anti-nave al largo delle coste beirutine. Gerusalemme ha ammesso che la sua famosa intelligence ha fallito, nessuno si era accorto dell’arrivo dei missili di concezione cinese C-802. Da giorni gli 007 cercano di capire se nell’arsenale del Partito di Dio vi siano anche sistemi anti-aerei sofisticati. Il timore è quello di una trappola per elicotteri e F16.
I QUATTRO - Teheran costituisce il lato più forte di un quadrilatero formato con Siria, Hezbollah, Hamas. La «banda dei quattro» ha per ora un interesse comune: l’incendio libanese distoglie la comunità internazionale dai loro problemi. Per l’Iran, poi, la progressiva avanzata dei militanti libanesi è un successo inestimabile. L’analisi dei mullah è semplice e ha i tempi dei movimenti islamici: «Con l’Hezbollah non conquistiamo il mondo, però segniamo un punto a favore». Un successo che, se confermato dal tempo, può costituire un esempio per le inquiete comunità sciite in Arabia Saudita e Bahrein, due Paesi importanti sotto il profilo energetico. In queste ore, gli ayatollah hanno dedicato sforzi pressanti nel mantenere unito il quadrato oltranzista. E infatti hanno concentrato la loro attenzione su Damasco, considerata il lato debole. La Siria ha un esercito antiquato, è preda di tensioni interne (curdi, islamici, qaedisti), il presidente Bashar Assad non è mai riuscito a imporsi. Anche nel rapporto con Nasrallah, il giovane raís è dominato dal carisma del segretario Hezbollah, oggi molto autonomo nelle sue scelte. Gli israeliani sostengono che Teheran tema un coinvolgimento della Siria nel conflitto, perchè Bashar potrebbe addossare la colpa all’Hezbollah: «Ecco, paghiamo per colpe non nostre». Quindi Damasco manovra con piccoli passi, garantendo rifornimenti, senza però esporsi in modo diretto. Una sottile differenza che, suggeriscono esperti americani, dovrebbe essere usata da Washington per separare la Siria dall’Iran.
La divisione del mondo arabo, una parte del quale teme l'avventurismo di Hezbollah e Hamas e l'ascesa geopolitica dell'Iran, nell'analisi di Antonio Ferrari:
L’obiettivo di Hassan Nasrallah, leader dell’Hezbollah libanese, di raccogliere simpatie, sostegno, aiuti e di scatenare la rivolta delle masse musulmane e dei loro regimi contro Israele, è fallito. I ministri degli Esteri arabi, convocati al Cairo, si sono abbandonati infatti a un furibondo litigio che ha fatto tremare i muri già cadenti della Lega e ha prostrato il suo segretario generale, Amr Moussa, ormai ridotto a un osservatore senza potere, costretto ad annotare odi, sospetti e periodici cambiamenti di campo. Sul fatto che il processo di pace sia morto, che il Quartetto (Usa, Ue, Onu e Russia) sia rimasto un’illusione operativa e che occorra tornare a investire di autorità il Consiglio di sicurezza erano d’accordo quasi tutti. Ma sulla solidarietà ad Hezbollah la rottura è stata clamorosa e accompagnata da velenose stilettate. Una su tutte: «Quelli sono al servizio dell’Iran». Ecco dunque riproporsi assai duramente, a distanza di un quarto di secolo dai tempi della guerra tra Bagdad e Teheran, costata un milione di morti, il conflitto tra sunniti e sciiti. I primi, dimenticate le ipocrisie diplomatiche che negli uffici della Lega araba sono pratiche quotidiane, accusano i secondi di aver ordito un complotto con l’obiettivo di dominarli, quantomeno di indebolirli irreparabilmente. Nei corridoi, lontano dai microfoni, qualcuno non ha esitato a definire gli sciiti «peggio dei sionisti». Il presidente egiziano Hosni Mubarak ha criticato duramente la resistenza palestinese e libanese. «Nessuno mette in dubbio i diritti dei popoli a resistere alle forze d’occupazione. Ma la resistenza deve tener conto dei guadagni e delle perdite». A questo punto non sorprende quindi che anche il grande nemico degli Usa, il deposto dittatore sunnita Saddam Hussein, prigioniero degli americani, incontrando uno dei suoi avvocati, abbia lanciato un monito alla sua ex nemica Siria, suggerendo di «non andare troppo avanti nell’alleanza con l’Iran» ritenuto l’avversario più infido, pericoloso e «complice» degli Stati Uniti nella guerra all’Iraq. Attorno a Walid Muallem, ministro degli Esteri di Damasco, diplomatico troppo sottile e astuto per non comprendere il rischio di un abbraccio troppo affettuoso tra il suo Paese e il regime degli ayatollah, quindi bisognoso dell’aiuto equilibratore dei fratelli nel sostenere la lotta contro Israele, si sono schierati senza rocciosa convinzione Sudan, Algeria, Qatar e Yemen; mentre i Paesi più influenti e insieme preoccupati del mondo sunnita, Egitto, Arabia Saudita e Giordania, con l’aggiunta del Kuwait, hanno opposto uno sprezzante rifiuto. Quando il ministro di Doha ha chiesto di tener conto dei desiderata delle «strade arabe» e, quindi, di appoggiare l’Hezbollah, è stato zittito dal principe saudita Feisal, che lo ha invitato a svegliarsi «invece di pensare alle strade e alle masse». E a comprendere - questo voleva intendere - il pericolo rappresentato dai piani tentacolari di Teheran. Una lettura superficiale potrebbe giustificare i due schieramenti, incasellandoli come antiamericani e filoamericani. La realtà è che l’allargamento dell’influenza sciita in tutto il Medio Oriente risulta essere il collante di antiche paure. Che in qualche modo coinvolgono la stessa Siria, che ha un regime alauita e la maggioranza della popolazione sunnita. Quello della Lega araba al Cairo è dunque un campanello d’allarme. E non sorprende che, nel rifiuto del sostegno all’Hezbollah sciita, sia stato incluso (anche se non vi sono stati riferimenti diretti) anche il governo palestinese di Hamas, che pure è sunnita. In tanti infatti vi è la convinzione che il sequestro del caporale israeliano a Gaza e il conseguente e quasi simmetrico rapimento di altri due militari dello Stato ebraico da parte degli estremisti libanesi siano parte della stessa premeditata trappola. Voluta da Teheran, cioè dal Paese che si era offerto di aiutare economicamente Hamas, sottoposto a un boicottaggio internazionale.
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