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La Stampa Rassegna Stampa
19.07.2006 Haifa sotto il fuoco degli Hezbollah
reportage di Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 19 luglio 2006
Pagina: 4
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Haifa, la vita sotto tiro dei razzi di Nasrallah»
Da La STAMPA del 18 luglio 2006:

Serve tempo: l’esercito seguita a chiedere ancora qualche settimana perché l’operazione raggiunga il fine di spostare gli Hezbollah dal confine. Gli obiettivi militari si moltiplicano, sono i bunker di Nasrallah e dei suoi, i depositi d’armi nascosti nei boschi e nelle città, i camion carichi di armi che l’Iran ieri ha mandato agli Hezbollah attraverso la Siria. Solo un terzo delle forze di Nasrallah, però, sembra sia stato distrutto. E Nasrallah spara da tutte le parti, più lontano possibile, così da costringere il mondo a intrevenire in tempo per salvarlo. E il tempo della gente è breve, specie quello in cui i bambini soffrono e i vecchi si sentono male nei bunker; si perdono i propri beni, e il proprio equilibrio, mentre i missili distruggono.
Ma a Haifa, ieri, quando il sole sorgeva, un’illusione aleggiava sulla costa, a Zfat, in tutta la Galilea. Per alcune ore, niente missili. La gente si lecca le ferite. Mette la testa fuori dopo una nottata passata nell’incubo delle sirene; qualcuno si avventura verso i «macolet», i piccoli supermarket dove si compra di tutto. Via via che le ore passano, fino circa all’una, è come se il golfo montuoso sul mare blu risorgesse. Le auto ricominciano a circolare, c’è chi cerca di raggiungere i luoghi di lavoro, alle fermate degli autobus due o tre passeggeri, studenti o pensionati, aspettano. La bella città di 300mila abitanti è depressa, le si arruffano le piume. E’ stato terribile seppelire gli otto operai e tecnici della ferrovia, uccisi l’altro giorno da un missile. O vedere questa casa non lontana dal mare, in un quartiere modesto, centrata in pieno: il pavimento di cemento del secondo piano è ripiegato sul primo come una lingua penzoloni, dentro le stanze sventrate si vede un tavolo con tutte le seggiole, il tappeto pende nel vuoto, e con un tocco da Almodovar un mazzo di rosse rosse appare sull’angolo.
Anche le case intorno sono colpite dalle biglie di fabbricazione siriana inventate per ammazzare più civili possibile. Ci dirigiamo verso l’hangar dove due giorni or sono un Fajr carico delle solite biglie ha ucciso otto persone e ne ha ferito una trentina. L’hangar delle ferrovie, quasi sulla riva del mare, accanto a impianti piene di materiali petrolchimici, infiammibili, esplosivi.
Bum, arriva un gran botto, un suono molto vicino di terra ferita, profondo, rauco, grosso, che sa di morte. E’ a pochi metri; subito dopo, non prima, parte la sirena. In mancanza di meglio, dicono le istruzioni, bisogna addossarsi a un muro, e l’unico a portata di mano è quello di un deposito di benzina. Meglio rimontare in macchina e buttarsi dietro alla polizia e alle ambulanze; la radio nel frattempo dice che non è caduto nessun missile sulla città; capiamo che è una maniera per depistare Nasrallah, di non fargli sapere che cosa ha colpito. Ma dove è caduto in realtà il missile? Stupefacente e anche orribile: esattamente nello stesso punto, lo stesso hangar, la stessa ferrovia. E’ come se gli Hezbollah ti guardassero: evidentemente hanno aggiustato bene il tiro sull’obiettivo proficuo di due giorni prima. «Via di qui», gridano i pochi che erano andati a lavorare, e che per fortuna sono tutti salvi, «adesso gli Hezbollah ne tirano un altro».
Arriva un minuto dopo il sindaco Yonah Yahav, tutto rosso, scompigliato,la sua gente è di nuovo nei rifugi, la città va in rovina. Perché, sindaco, il missile è di nuovo caduto qui? «E me lo chiede?», il sindaco indica gli operatori della tv che arrivano di corsa: «Perché voi, disgraziati giornalisti, ve ne fregate, mostrate il luogo della caduta, e gli Hezbollah mirano». La verità è che un Paese come Israele non fermerà mai i giornalisti ma la prima katiusha degli Hezbollah è stata lanciata alle otto e cinque di giovedì scorso, mentre viaggiavamo verso il nord, in tempo perché subito, all’apertura, i giornali radio e i tg del mattino dessero la notizia e indicassero il luogo. Non c’è niente da fare. «Mandali via», dice il sindaco a Nir Meriesh, il capo della polizia appena saltato giù dall’auto. Nir è sollevato: «Non si può, è proibito dalla legge. Allontanatevi un po’ perché è pericoloso».
Non ci sono morti e feriti, neppure dopo altri due missili caduti subito dopo. La gente è brava, paziente, segue gli ordini. Ma qualche ora dopo, sul Nord è piovuta la fine del mondo, a Kiriat Shmone, Zfat, di nuovo Haifa, ovunque. Decine di missili sono piovuti su tutte le città e i villaggi; a Naharia dopo un ennesimo allarme un uomo esce dal rifugio numero 302. Passeggia nel giardino, un missile lo colpisce in pieno, l’infermiere della Stella di David Rossa che ne raccoglie i pezzi piange: «Ne ho viste tante, ma così... che sfortuna, a un metro dalla salvezza». Tempo, questo chiede l’esercito. Il tempo di Israele è come quello di ogni Paese democratico, nervoso, sottoposto alle rapide variazioni dell’opinione pubblica. Ma stavolta, dice Moris Cahan di Naharia, «siamo pronti a soffrire pur di farla finita una volta per tutti con gli Hezbollah assettati del nostro sangue». E tuttavia, la ministra degli Esteri Tzipi Livni parla già di trattative.

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