L'errore di Nasrallah: sottovalutare la capacità di resistenza di Israele l'analisi di Fiamma Nirenstein
Testata: La Stampa Data: 18 luglio 2006 Pagina: 7 Autore: Fiamma Nirenstein Titolo: «I ragazzi di Gerusalemme dalla spiaggia alla guerra»
Dalla STAMPA di martedì 18 luglio 2006, un reportage di Fiamma Nirenstein da Israele, paese unito deciso a resistere all'aggressione di Hezbollah. Ecco il testo:
Dicono i servizi segreti israeliani che Hassan Nasrallah, mentre aspetta il permesso degli iraniani di lanciare i missili Zel Zal su Tel Aviv, sia rinchiuso in un bunker dove segue anche attraverso la tv israeliana le immagini della rovina che si abbatte sul Libano, e vede gli israeliani che affrontano la guerra determinati a resistere al terrore e a proseguire la vita normale per quanto possibile. Dicono che non si aspettava la dura risposta di Israele al suo attacco di mercoledì scorso. Al sesto giorno di guerra, la popolazione israeliana non ha pianto, non si è formato nessun movimento di madri che vogliono i soldati a casa, la sinistra chiede solo che non si invada il Libano per terra come nel 1982, e persino Yossi Beilin stringe la mano a Olmert dopo il suo messaggio di ieri e dice che anche la Siria dovrebbe essere ritenuta responsabile, e non soltanto il Libano. «Spero che finisca il prima possibile», dice Jonathan, un wind surfer che incontriamo sulla spiaggia di Tel Aviv, i lunghi capelli biondi bagnati sulle spalle, «ma la mia unità nel miluim, le riserve, mi ha messo in preallarme. Ogni minuto mi possono chiamare. La borsa è pronta. Certo, è estate, mi godevo la vacanza dall’università e dal lavoro in uno studio legale, ma vado volentieri a combattere contro gli Hezbollah, che con l’Iran, con la Siria, con Hamas, minacciano tutti i giorni la vita dei miei amici, della mia famiglia, della mia ragazza. Sono in marina, i marinai morti due giorni fa erano miei fratelli. Potevo essere al posto loro». Jonathan è un patriota naturale, i suoi valori, la famiglia, gli amici, gli amori,non sono in contrasto con il fatto che gli piace vivere nella massima libertà, nella Tel Aviv che resta swinging, piena di caffè e discoteche anche in guerra. Altri suoi amici sono religiosi, ieri Olmert nel suo discorso ha stabilito chiamando in causa Dio tre volte il singolare rapporto fra religione e democrazia, fra tradizione e odierna determinazione alla sopravvivenza. Da due giorni è stato annunciato che gli Zel Zal iraniani in mano a Nasrallah possono raggiungere la «città che non dorme mai»: ma l’uomo postmoderno e combattente di Israele non ha paura, prende gli ordini del comando centrale molto sul serio. Se suona la sirena, addossarsi al primo muro, meglio cercare un rifugio; se non c’è, meglio nascondersi dentro mura che non confinino con l’esterno; se non ci sono neanche quelle, sdraiarsi per terra con la faccia in giù. Se sei in auto, fermati, entra in un portone: hai un minuto di tempo. Parla ai bambini, legittima la loro paura, e anche la tua. Bevi acqua appena puoi. Bere acqua: era il consiglio della radio quando Saddam Hussein nel ’91 irrorò Israele con 40 missili che potevano contenere materiali chimici. Tutti si ricordano come il pubblico della Filarmonica di Tel Aviv indossò la maschera e restò seduto senza alzare le sopracciglia quando la sirena suonò nel mezzo di un concerto diretto da Zubin Metha. Il gioranale Maariv ieri aveva un fondo del direttore Amnon Dankner (di sinistra) intitolato «Israele è forte». «Nasrallah ha fatto un errore fatale quando ha creduto che la società israeliana si sarebbe sbriciolata moralmente», dice Ephraim Levy, ex capo del Mossad. Nasrallah a forza di raccontarsi che l’Occidente è una tigre di carta e che gli ebrei sono esseri abbietti, ha finito per crederci. «Non si è accorto», dice l’ufficiale che tenne calma Israele nel ‘91 parlando incessantemente alla radio, «di quale forza di coesione abbiamo messo insieme in 60 anni di attacchi, quanta capacità di vincere la paura». Di certo, gli Hezbollah hanno ritenuto le lacrime dei soldati ai funerali dei commilitoni, senza odio e spari in aria, solo con la disperazione della madri, manifestazioni di mancanza di spina dorsale. E’ vero l’opposto: i sentimenti nutrono un tipo antropologico diverso da quello europeo, che sa soffrire e godere ma ha visto da sempre la morte in faccia; che serve nell’esercito dai 18 anni fino alla maturità (in riserva), è cresciuto nella temperie di quel terrorismo jihadista che l’Occidente riconosce solo dall’11 settembre. E’ così che Lea, uscendo dalla sua casa di Haifa completamente distrutta, dice: «Ero là con i miei figli, grazie a Dio siamo tutti salvi, no, non so dove andremo a dormire. Andarcene? Ma pitòm? Che vi passa per la mente? Mai». Mentre da noi si soffre la caduta di valori collettivi, in Israele la realtà li ha promossi. Al sesto giorno di guerra si contano 24 morti e circa 410 feriti, sono caduti un migliaio missili. «Per noi tutti, la vita qui è anche questo», spiega Nahman Shai. Solo qui un cameriere o un guidatore d’autobus sente come dovere assolutamente naturale fermare col proprio corpo un terrorista suicida; è successo decine di volte. Shlomi, nel caffè Cafit di Gerusalemme spiega che è chiaro: meglio che muoia uno solo piuttosto che molti. La sua mamma, a casa, dopo il suo gesto di eroismo, gli ha tirato un schiaffo: era un pò nervosa, racconta Shlomi ridendo. Come mai Nasrallah non sapeva tutto questo? Almeno 70 persone, in maggioranza sciiti, sono rimaste uccise ieri in un attacco a Mahmoudiya, scatenando la dura reazione dei parlamentari sciiti di Muqtada al Sadr che hanno deciso di abbadonare l’Assemblea nazionale. Non sono ancora chiari il bilancio e la dinamica dell’attentato compiuto ieri mattina in un mercato all’aperto di Mahmoudiya, 30 chilometri a sud di Baghdad. La televisione sciita al Forat ha fatto sapere che l’attacco sarebbe costato la vita ad almeno 70 persone, mentre fonti ospedaliere hanno riferito di 41 morti e 42 feriti. Fonti della polizia locale hanno parlato di un attacco messo a segno da decine di uomini armati di mortaio, lanciagranate e armi automatiche, mentre fonti di Baghdad parlano di un’autobomba seguita dall’attacco di un commando. Si ritiene che la maggioranza delle vittime dell’attacco siano sciiti. Mahmoudiya si trova nel cosiddetto «triangolo della morte» ed è teatro di feroci scontri tra le comunità sciita e sunnita. Il centro della città è abitato soprattutto da sciiti, mentre i sunniti vivono nei quartieri periferici e nei villaggi vicini.
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