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Il Foglio Rassegna Stampa
14.07.2006 Israele si ritira e ottiene nuove aggressioni
il dibattito sulla strategia del disimpegno

Testata: Il Foglio
Data: 14 luglio 2006
Pagina: 2
Autore: la redazione -Bret Stephens
Titolo: «QUANDO ISRAELE SI RITIRA PAGA UN PREZZO. QUELLO GIUSTO? -Abbiamo sperimentato ogni via, non resta che il disimpegno»

Sinai, Libano, Gaza, Cisgiordania. I ritiri di Israele, passati e, chissà, futuri. Una strategia nata lentamente, incrociata con dialogo e guerre, guerre e dialogo, “no”, tanti “no”, e poi incamminatasi sulla strada dell’unilateralismo, l’unico modo – sofferto, soffertissimo, il viso di Ariel Sharon all’inizio del ritiro da Gaza è ancora lì, nella memoria, maestoso e dolente – per rinascere su confini nuovi. Il ritiro dal Sinai, nell’aprile del 1982, fu il risultato degli accordi di Camp David del 1979, e dopo l’Egitto riconobbe Israele. Il disimpegno dal Libano è stato fatto in ottemperanza alla risoluzione 425 dell’Onu, ma è stato unilaterale, visto che le Nazioni Unite avevano posto come condizione il disarmo di Hezbollah, mai avvenuto. Il ritiro da Gaza e quello prospettato dal governo di Ehud Olmert entro il 2010 – il cosiddetto “piano di convergenza” – sono disimpegni unilaterali, fatti per stabilire frontiere ben precise e riconosciute a livello internazionale. Le concessioni territoriali hanno spaccato e spaccano gli israeliani, perché toccano le radici dello stato d’Israele, l’appartenenza, il diritto a esistere e di esistere proprio lì, su quelle colline, su quelle coste, in quelle terre. “Abitanti di Gaza, il vostro dolore e le vostre lacrime sono parte inestricabile della storia del nostro paese”, disse Sharon alla vigilia del disimpegno da Gaza, che l’ex premier considerava “essenziale per il futuro di Israele”. Ehud Barak, dopo aver portato a termine il suo criticato ritiro dal sud del Libano, esplicitò il perché di una definizione di frontiere riconosciute: “Uno sparo, uno soltanto, contro soldati o civili dentro i nostri confini sarà considerato un atto di guerra che porterà inevitabilmente a una reazione di forza”. Ora che l’atto di guerra è stato fatto, ora che – come è sempre accaduto, tranne che nel primo conflitto, all’indomani della costituzione d’Israele, quando i vicini arabi invasero il neostato – è arrivata la solita provocazione per compattare i palestinesi contro il nemico occupante e suscitare la compassione della comunità internazionale, ora che si è realizzato il coordinamento perfetto tra Hamas e Hezbollah con il rapimento di tre soldati di Tsahal, ora che Israele deve reagire all’aggressione per ottenere la liberazione dei suoi uomini, la strategia del ritiro è rimessa in discussione. “A che cosa sono serviti i disimpegni se hanno finito per lasciare campo ai gruppi che vogliono la nostra distruzione, lasciando terra che è stata trasformata in base per un terrorismo sempre più feroce?”, si chiedono analisti e politici di Israele. Ci sono motivazioni ideologiche a dividere chi è contro e chi è a favore delle concessioni territoriali, ma ci sono anche considerazioni contingenti legate alla sicurezza, cioè a quanto la strategia del ritiro debba essere accompagnata da una politica della deterrenza. Yossi Klein Halevi, a favore del ritiro, ieri ha scritto su New Republic tutta la sua rabbia: “Chi sosteneva il disimpegno non si aspettava certo di ritrovarsi con un confine calmo, ma voleva semplicemente la creazione di una frontiera dalla quale avremmo potuto difendere meglio noi stessi, con un maggiore consenso sia all’interno sia a livello internazionale (…). Se gli unilateralisti hanno fatto un errore è stato quello di credere ai nostri leader, inclusi Ariel Sharon ed Ehud Olmert, quando ci promisero una politica di tolleranza zero contro qualsiasi attacco che fosse arrivato da Gaza dopo il ritiro”. Disimpegno sì, insomma, ma in cambio di deterrenza: è per questo che il dibattito sulle concessioni territoriali è strettamente legato a quello della bonifica delle terre che si lasciano, per evitare che si trasformino in pura e semplice base di terrorismo. Storicamente, la destra israeliana ha sempre temuto che i ritiri, lungi dal ridurre le ostilità, non facciano altro che premiare e incentivare la violenza. Sia nel 2000, durante il disimpegno dal Libano, sia nel 2005, durante quello dalla Striscia di Gaza, l’atto fu presentato da Hezbollah e da Hamas come una vittoria sull’“entità sionista”, ormai in ritirata. Per la destra, i sentimenti antiisraeliani non sono parole, sono dichirazioni di intenti, si trasformano in atti di guerra. Benjamin Netanyahu, a pochi giorni dall’inizio delle prime evacuazioni dalla Striscia, abbandonò il governo di Sharon dicendo: “Non posso associarmi a questa scelta irresponsabile che mette in pericolo l’esistenza di Israele. Non posso essere coinvolto in una mossa irresponsabile che divide il nostro popolo, che danneggia la nostra sicurezza e che in futuro porrà in pericolo la stessa integrità di Gerusalemme”. Uzi Arad, presidente dell’Istituto per la politica e la strategia del Centro interdisciplinare di Herzliya ed ex consigliere per la Politica estera di Netanyahu quando era premier, spiega al Foglio oggi, dopo il doppio rapimento dei soldati israeliani a Gaza e in Libano, che “il piano di convergenza è un errore e lo è sempre stato. E’ costoso per Israele, dà l’impressione ai palestinesi che noi ci stiamo ritirando e fa crescere il terrore. E’ una politica che esce dal contesto, è controproducente, e oggi il pubblico israeliano si rende conto che non è la giusta politica per il momento”. Quando cominciò la battaglia di Sharon per il ritiro, si moltiplicarono i report in cui si definivano i pericoli cui Israele andava incontro lasciando una terra come la Striscia. Yaakov Amidror, dell’Università di Tel Aviv, scrisse: “La fuoriuscita delle forze israeliane da Gaza potrebbe essere un disastro dal punto di vista tattico. Può portare i razzi a colpire Ashkelon; indebolisce la capacità di Tsahal di agire localmente nel caso continuino i lanci di Qassam; ostacola il lavoro dell’intelligence e quindi rende meno efficace la strategia delle uccisioni mirate dei terroristi palestinesi”. Molte di queste ipotesi si sono avverate in queste ultime settimane. Mark Regev, portavoce dell’ex ministro degli Esteri, il likudiano Silvan Shalom, dice: “La situazione del Libano e di Gaza mostra che, laddove Israele è stato flessibile sulla questione territoriale, non è arrivata la pace. La risoluzione dell’Onu 425 (che stabiliva il ritiro dal sud del Libano, ndr) definiva determinati impegni, il segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, ha presentato parecchi report al Consiglio di sicurezza nei quali si stabilisce che il ritiro di Israele è stato pieno e completo, ma non è abbastanza. La mia unica speranza è che la comunità internazionale capisca quel che sta realmente succedendo e dia il suo sostegno a uno stato sovrano, com’è Israele, nel momento in cui è attaccato apertamente e ingiustificatamente all’interno delle sue frontiere stabilite a livello internazionale”. La comunità internazionale, come si sa, non è dotata di tale sensibilità. Eppure, nonostante la crisi attuale, per molti il ritiro resta l’unica soluzione per la pace. La sinistra israeliana ha da sempre appoggiato la strategia delle concessioni territoriali, presupposto indispensabile per la creazione di due stati democratici e due popoli vicini. Le derive più dialoganti riguardano il ritiro da tutti gli insediamenti, comprese le alture del Golan. L’importante però è che il tutto arrivi attraverso negoziati e dialogo. La linea unilaterale ha quindi finito per spaccare anche la sinistra, perché per parte di essa i ritiri vanno bene se c’è dialogo e accordo con gli interlocutori palestinesi. Come ha spiegato Gershom Gorenberg, editorialista e scrittore, nelle librerie con il suo ultimo libro sugli insediamenti (“The Accidental Empire: Israel and the Birth of the Settlements”), il ritiro è stato positivo perché ha rappresentato una svolta nella storia israeliana: “Dopo oltre trent’anni, a partire dalla guerra del 1967, oggi, la maggior parte degli israeliani ritiene che almeno una parte dei Territori debba essere restituita e almeno una parte degli insediamenti debba essere smantellata. Discutiamo di quanto e non di se. Ma è stato un gravissimo errore ostinarsi a fare il ritiro unilateralmente, a non cogliere l’opportunità di negoziare con Abu Mazen e a far sì che ciò facesse parte di un processo diplomatico più a lungo termine. Se anche ci fosse stata la benché minima possibilità di creare a Gaza un governo stabile dopo il ritiro, il carattere unilaterale di quest’ultimo, senza negoziazione alcuna, ha fatto svanire quella possibilità. Il ritiro è stato interpretato dai palestinesi come una resa a Hamas, a Gaza non esiste alcun governo, la violenza continua. Il disimpegno ha sollevato delicati interrogativi in merito agli inconvenienti dell’approccio unilaterale”. Non è un caso che, da questo approccio – ancor più valido nel momento in cui il popolo palestinese ha dato il mandato di governo a Hamas, che non riconosce Israele e che non vuole disarmarsi e che quindi non può essere parte di alcun dialogo – è nato uno sconquasso politico interno che ha portato alla creazione di un nuovo partito, Kadima, considerato banalmente di centro, ma in realtà espressione della volontà unilaterale di ritiro dai territori. Alle elezioni, Kadima ha preso meno voti del previsto, ma la destra antidisimpegno di Netanyahu è stata relegata a 12 seggi alla Knesset, una sconfitta disastrosa. Se il concetto di concessioni territoriali ha cominciato a diffondersi nella società israeliana con sempre maggiori consensi, allo stesso modo è diventato importante definire il livello di sicurezza che si poteva (e si potrà) garantire con i nuovi confini. Yossi Klein Halevi – e molti con lui – sostengono che ci sia stata troppa tolleranza nei confronti delle continue provocazioni che arrivavano dai territori abbandonati. Michael Oren, storico e saggista, sottolinea: “Il punto cruciale del ritiro è quello di creare confini sicuri una volta che è stato messo a punto. Non ci può essere disimpegno senza deterrenza”. Uri Dromi, chief editor dell’Israel Democracy Institute, un centro di ricerca indipendente con base a Gerusalemme, la pensa allo stesso modo: “E’ arrivato il momento che Israele restauri la deterrenza. Abbiamo tollerato il lancio dei Qassam da Gaza in Israele, abbiamo accolto la risoluzione dell’Onu sul ritiro dal Libano per poi diventare testimoni del continuo attacco di Hezbollah nei nostri confronti. Ne abbiamo abbastanza, e anche se Israele è piccolo deve mandare un messaggio forte ai terroristi: siamo qui per restare e useremo la forza per proteggere la nostra sovranità, se sarà necessario. Detto questo – aggiunge Dromi – Olmert non deve desistere dal suo progetto di convergenza entro il 2010: l’opzione di non ritirarsi dalla Cisgiordania è peggiore di quella di ritirarsi perché favorirebbe l’obiettivo a lungo termine dei palestinesi, che è quello di uno stato e due popoli”, che con l’esplosione demografica dei palestinesi significherebbe una dominanza ineluttabile. Proprio sulla base di questo realismo, lo stesso Sharon cambiò idea sul disimpegno, lui che vinse le elezioni al grido “non ci ritireremo mai”. La laburista Yuli Tamir, ministro dell’Educazione e molto vicina al ministro della Difesa, Amir Peretz, spiega che, nonostante non abbia mai sostenuto il ritiro unilaterale, quello che Israele sta vivendo adesso “ha molto più a che fare con le forze islamiste che con l’unilateralismo. L’attacco a Israele da parte di Hezbollah è stato fatto sul territorio israeliano e rappresenta una violazione della sovranità di Israele. Che non ha altra alternativa se non reagire con la forza”. Il jihad regionale – capitanato dall’Iran di Mahmoud Ahmadinejad, e coordinato dalla base logistica di Damasco, da cui opera indisturbato il leader di Hamas, Khaled Meshaal, grazie alla protezione del regme di Bashar el Assad – ha messo a punto l’attacco finale sui due fronti di Gaza e del Libano. Il primo è fuori controllo da tempo, eppure l’azione militare che ha portato al sequestro del caporale Ghilad Shalid, il 25 giugno, è stata di un’efficienza disarmante. Il secondo non è mai stato pacificato, nonostante il ritiro sia stato fatto sei anni fa, e la richiesta dell’Onu di disarmare Hezbollah è naturalmente caduta nel nulla. Il generale Yitzhak Harel, capo del dipartimento della pianficazione dell’IDF, l’esercito israeliano, dice: “Oggi il Libano è nella stessa situazione in cui era negli anni Ottanta, quando l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) costituì uno stato dentro lo stato del Libano. Oggi questo stato è rappresentato da Hezbollah”. Ma il governo israeliano ribadisce le responsabilità di Beirut, che nonostante il ritiro – a differenza di quello che fece l’Egitto – non ha mai riconosciuto Israele. Il piano di convergenza di Olmert sembra arenato a tempo indeterminato, anche se, poco prima dell’attacco di Hezbollah, il premier aveva ribadito la sua volontà di andare avanti con il progetto di ritiro. Ma i confini appaiono sempre più fragili. Kenneth Stein, professore di Storia e politica del medio oriente presso l’Università Emory di Atlanta, chiede: “Israele deve essere il poliziotto degli arabi sui suoi confini? Se sì, allora deve rimanere. Se invece sono i palestinesi, l’Anp, il governo libanese a garantire la sicurezza, allora deve ritrarsi”. Proprio la deterrenza sulle frontiere è quella che gli israeliani chiedono a gran voce, ben più di quella del ritiro. Ma secondo Stein “la strategia che Israele deve seguire è quella di ritirarsi dalla terra araba e proteggere il suo territorio. La realtà non cambia con gli eventi attuali. L’obiettivo rimane il disimpegno dalla Cisgiordania, in modo da lasciare ai palestinesi la possibilità di governarsi da soli. Questo può essere posticipato ma non cambiato, perché non sembra che Israele avrà un partner con cui negoziare nell’immediato”. La via del disimpegno sembrava ormai radicata, Olmert aveva fatto il giro del mondo per trovare appoggio e consenso alla sua strategia, ascoltando i consigli di Tony Blair e di George W. Bush, che gli dicevano di cercare comunque un dialogo e un contatto con i palestinesi. A Petra, Olmert ha incontrato e abbracciato Abu Mazen. Poi sono entrati in azione Hamas e Hezbollah.

Un articolo tratto dal WSJ che ribaisce la necessità dei disimpegni, pubblicato sempre dal FOGLIO:

L’ultima crisi israelo-palestinese ha suscitato un rovente dibattito sulla validità del “disimpegno” da Gaza effettuato nell’agosto dello scorso anno. Allora questa scelta era appoggiata dalla maggior parte degli israeliani. Oggi, invece, viene vista come un inquietante preludio di ciò che Israele può aspettarsi se decide di ritirarsi unilateralmente dalla Cisgiordania, come il primo ministro Ehud Olmert ha promesso di fare. Il disimpegno, sostiene l’ex ministro della Difesa Moshe Arens, è stata “una ferita autoinflitta”, alla quale si può porre rimedio soltanto riprendendo il controllo delle aree che Israele ha abbandonato. Si può facilmente comprendere la rabbia israeliana nei confronti dei palestinesi: non appena è stata data loro la possibilità di avere uno stato autonomo, hanno trasformato Gaza in un’enclave terrorista. Tuttavia, è altrettanto difficile immaginarsi un consiglio peggiore di quello dato da Arens. Supponiamo che Israele rioccupi una parte di Gaza o anche tutta: e poi? Coloro che si oppongono alla politica del disimpegno non hanno finora saputo offrire una risposta plausibile a questa fondamentale domanda. Sostengono semplicemente che Israele deve rioccupare Gaza, quali che siano le conseguenze, perché nessun paese al mondo può permettersi di avere “Hamastan” a distanza di tiro dai propri centri abitati, impianti chimici e depositi di carburante. Questa tesi può sembrare piuttosto sensata, ma soltanto se non si esaminano a fondo i fatti. Tra il settembre 2000 (quando è iniziata l’Intifada palestinese) e l’agosto del 2005 (quando Israele si è ritirato da Gaza), nella Striscia di Gaza sono stati uccisi 102 israeliani: 31 civili e 71 soldati. Inoltre, circa una ventina di altri israeliani sono stati uccisi da attacchi sferrati da Gaza, cinque dei quali con razzi Qassam. Dopo il ritiro israeliano, sono stati uccisi in tutto tre israeliani (tutti soldati) in attacchi effettuati a Gaza o nell’area circostante.
Chi sostiene che la sicurezza israeliana è diminuita dopo il ritiro da Gaza si sbaglia di grosso. In Israele la violenza terroristica è al livello più basso degli ultimi sei anni, con 22 persone uccise nei primi sei mesi del 2006 (in confronto alle 318 dei primi sei mesi del 2002). E questo non si deve certo a una moderazione palestinese: la tregua che Hamas ha fatto finta di rispettare l’anno scorso si è avuta soltanto perché Hamas stessa ha delegato le operazioni terroristiche al Jihad islamico e alle Brigate dei martiri di al Aqsa. Ciò che ha funzionato è stata invece la combinazione fra una risoluta attività antiterroristica israeliana e una folgorante consapevolezza strategica: per quanto possa essere brutto avere un regime terroristico ai confini del proprio paese, è molto peggio averlo dentro i propri confini. Ma questo è precisamente ciò che vorrebbero coloro che si oppongono al disimpegno. Si spiega così un curioso punto che accomuna gli attivisti palestinesi e gli israeliani sostenitori della linea dura: entrambi si oppongono alla costruzione di una barriera di sicurezza in Cisgiordania perché entrambi vogliono dominare un unico stato a ovest del Giordano. Per i palestinesi più moderati e laici, questo significa “uno stato per tutti i suoi cittadini”, palestinesi e israeliani. Per Hamas, significa invece l’espulsione e l’assassinio di tutti gli ebrei che vivono in Terra santa. Quanto agli israeliani che sostengono la soluzione a un solo stato, non si è mai capito bene cosa intendano veramente. C’è una scuola di pensiero che immagina un complicato scambio di popolazione e territori tra Israele, Egitto, Autorità palestinese e possibilimente Giordania. Ma non si capisce per quale motivo i regimi di questi paesi dovrebbero essere disposti ad aiutare Israele. Arens propone una parziale rioccupazione di Gaza, ossia la peggiore di tutte le possibili soluzioni, perché imporrebbe a Israele il peso diplomatico, militare e umanitario di un’occupazione senza garantire una maggiore sicurezza a tutto il territorio israeliano. Il progetto più ambizioso sarebbe quello di un ritorno allo status quo ante gli accordi di Oslo del 1993, quando Israele controllava i Territori. Ma sappiamo già come finisce questa favola: giovani militari di leva che devono imporre il coprifuoco e vigilare dalle torrette di guardia in luoghi ostili, andare casa per casa in cerca di armi e fuggitivi, facendo aumentare l’odio verso gli arabi e anche il disgusto per le azioni che essi stessi devono compiere. Un’intera generazione di israeliani ha reagito a questa esperienza costituendo l’ossatura del movimento pacifista israeliano, il che, presumibilmente, non è ciò che Arens si augura. Questo lascia a Israele due sole opzioni: la prima è una separazione negoziata in cui si stabiliscono concordemente i confini dei due stati e si procede a un reciproco riconoscimento diplomatico. Ma quest’opzione è stata buttata al vento ai colloqui di Camp David del 2000, quando Yasser Arafat ha rifiutato la proposta più vantaggiosa che Israele gli avrebbe mai potuto fare. L’elezione, lo scorso gennaio, di Hamas non ha messo fine alla possibilità di una soluzione negoziata ma ne ha soltanto riconfermato l’irrealizzabilità. La seconda opzione è quella di una separazione unilaterale, da non confondere con una soluzione definitiva del conflitto. Si tratta di estrusione, di un modo per trasformare un nemico interno in un nemico esterno, e facendolo nei termini scelti da Israele. Tiene conto del fatto che, da quando Israele si è ritirata dal corridoio di sicurezza in Libano meridionale, la sua frontiera settentrionale è stata caratterizzata da una situazione relativamente tranquilla, malgrado Hezbollah e tutte le sue migliaia di missili. Così come tiene conto del fatto che, da quando Israele si è ritirata da Gaza, il numero dei palestinesi morti a causa di scontri interni è stato superiore a quello dei morti combattendo contro gli israeliani. Se i tuoi nemici cominciano a uccidersi fra loro, prima ancora di cercare di uccidere te, significa che stai vincendo. Un’eventuale emergenza militare potrebbe costringere Israele a rioccupare i territori, come già avvenuto in passato. Ma se si tiene conto dei fatti concreti degli ultimi mesi, il disimpegno si è dimostrato un successo. In un conflitto senza fine, questo è motivo di soddisfazione. Bret Stephens © Wall Street Journal per gentile concessione di MF (traduzione di Aldo Piccato)


Di seguito, un link a un'articolo di Haaretz, tradotto da israele.net, che sostiene una tesi "intermedia": si all'evacuazione degli insediamenti, mantenendo una presenza militare

http://www.israele.net/articles.php?id=1295


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