Iran e Siria tirano le fila della jihad contro Israele analisi dell'internazionalizzazione del conflitto con il terrorismo palestinese
Testata: Il Foglio Data: 13 luglio 2006 Pagina: 1 Autore: la redazione Titolo: «Il grande jihad contro Israele»
Di seguito l'analisi pubblicata dal FOGLIO del 13 luglio 2006 in prima pagina "Le opzioni militari":
Il fronte con Hamas e con Hezbollah. I raid su vasta scala portati avanti dagli israeliani nel Libano meridionale costituiscono, al pari di quelli a Gaza, l’unica risposta militare possibile alle incursioni di Hamas e Hezbollah, movimenti che si assomigliano sempre di più. Dopo l’alleanza ufficializzata sei anni fa, con la benedizione dell’Iran, i miliziani dei gruppi hanno operato in modo coordinato con l’obiettivo di impegnare Israele su due fronti. Dopo l’abbandono della fascia di sicurezza nel Libano meridionale, deciso nel 2000 dal premier Ehud Barak, e dopo il ritiro unilaterale da Gaza, voluto da Ariel Sharon l’anno scorso, Tsahal non dispone della profondità territoriale necessaria a garantire la protezione delle città meridionali e dei villaggi della Galilea dalle armi a sempre maggiore gittata degli avversari. La realizzazione di versioni a più lungo raggio dei razzi Qassam e la presenza tra i miliziani di Hezbollah del Libano meridionale di migliaia di razzi Katiuscia prodotti in Siria e Iran consentono di tenere sotto tiro numerosi centri abitati e obiettivi civili del territorio israeliano, fino a Haifa e Hadera. Sostenitori di Hezbollah con denaro, armi e consiglieri militari del corpo dei pasdaran, gli iraniani sono di casa anche nei territori palestinesi. Dopo la vittoria di Hamas alle elezioni, Teheran è il principale finanziatore dell’Anp, ma già tre anni fa gli iraniani avevano rimpiazzato il regime di Saddam Hussein negli “indennizzi” alle famiglie degli attentatori suicidi che si facevano esplodere in Israele. L’attuale situazione sul terreno crea notevoli vantaggi alle due formazioni estremiste islamiche, anche di tipo propagandistico grazie alla dimostrazione di poter colpire lo stato ebraico di più e con maggiore efficacia di quanto siano riusciti a fare gli eserciti degli stati arabi nelle guerre del secolo scorso. Vantaggi ingigantiti nelle ultime operazioni dalla tattica terroristica rappresentata dal sequestro di militari, che mortifica l’esercito e la società israeliani, galvanizzando le masse jihadiste. Sequestri e insufficiente profondità territoriale obbligano Israele all’incursione a Gaza e in Libano con divisioni meccanizzate e un ampio uso di aerei, elicotteri, forze speciali e mezzi navali con i quali tentare di liberare i prigionieri, distruggere le basi di Hamas e Hezbollah, cercando di decapitarne i vertici con azioni chirurgiche.
Il fronte libanese. Le operazioni in corso in queste ore in Libano puntano a individuare e distruggere i depositi dei razzi katiuscia che, secondo l’intelligence di Tsahal, sono stati ammassati in numero superiore alle 12 mila unità nelle aree di confine che Hezbollah domina incontrastato, poiché i caschi blu dell’Unifil ben si guardano dall’ostacolare i miliziani di Nasrallah e le forze regolari libanesi non hanno alcun controllo del territorio. Le operazioni per l’uccisione mirata dei leader dei gruppi terroristici in atto a Gaza e in Cisgiordania può essere estesa ai dirigenti di Hezbollah a Tiro e a Beirut, dove – secondo indiscrezioni – ci sarebbero forze speciali israeliane che avrebbero invano tentato di intercettare i rapitori diretti con gli ostaggi nel quartiere sciita. Ieri i raid israeliani sono arrivati a pochi chilometri dalla capitale libanese. Nonostante l’intensità delle operazioni aeree, navali e terrestri in corso e il richiamo di seimila riservisti, Tsahal non sembra intenzionato a occupare ampie porzioni di territorio libanese; un’opzione che, come a Gaza, il premier Ehud Olmert potrebbe attuare nei prossimi giorni in caso di mancata liberazione dei due militari sequestrati.
Il fronte siriano. Benché sul Golan le forze israeliane siano in stato d’allerta, è difficile ipotizzare una risposta militare siriana all’offensiva israeliana. Il Libano si è recentemente legato a Londra e Washington sul piano militare, mentre, dopo il ritiro siriano, le tensioni con Damasco si sono acutizzate a causa del flusso di armi siriane che raggiungono i campi palestinesi e di Hezbollah. Ogni movimento di forze aeree o terrestri siriane comporterebbe la loro rapida e totale distruzione da parte degli israeliani, che hanno già dimostrato di poter penetrare lo spazio aereo siriano senza neppure essere individuati dai radar.
Il fronte iraniano. Teheran, che sta già conseguendo il successo di impegnare Israele, usando le milizie di Hamas e Hezbollah, non sembra avere altre carte militari, escludendo per ora l’ipotesi di un allargamento delle operazioni sul piano strategico. E’ difficile immaginare un’escalation della crisi che induca Mahmoud Ahmadinejad ad attaccare Israele con i missili balistici Shahab 3, dotati di carica chimica. I missili Arrow dello “scudo antimissile” israeliano sono sempre mantenuti pronti all’impiego sulle rampe di lancio. Dalla prima pagina del FOGLIO del 13 luglio 2006, l'analisi "Come fece Nasser"
Roma. E’ evidente a tutti, tranne che alle cancellerie europee e alla Farnesina, il legame profondo che unisce l’incombente fallimento della mediazione sull’atomica iraniana, l’attacco militare di Hamas contro Israele al passo Kerem Shalom di una ventina di giorni fa e l’aggressione di ieri dal Libano e la nuova presa di ostaggi israeliani da parte di Hezbollah. Lo sheikh Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, che si autodefinisce “rappresentante dell’ayatollah Khamenei in Libano”, ha rivendicato in pieno, a nome di Teheran, suo dichiarato referente politico, il parallelismo dell’azione di ieri con l’aggressione a Israele da Gaza e ha parlato di un’“operazione congiunta palestinolibanese”. Secondo il governo di Gerusalemme, del resto, il rapimento del caporale israeliano Ghilad Shalit è avvenuto nel corso di “un’aggressione militare di una entità statuale”, l’Anp governata da Hamas: non è un atto terroristico fuori controllo. Il premier israeliano, Ehud Olmert, ha accusato il Libano, quale stato sovrano, che considera le milizie di Hezbollah parte integrante delle proprie forze armate, di aggressione militare. Gli Stati Uniti hanno detto che considerano Siria e Iran responsabili dell’attacco e delle violenze che sono seguite. Questi episodi s’inseriscono nella strategia aggressiva prospettata da Mahmoud Ahmadinejad. Il presidente iraniano ribadisce senza sosta che è urgente e indispensabile “eliminare l’entità sionista”: oggi l’attacco a freddo di Hezbollah è funzionale a questa strategia. Ricalcando le orme di Gamal Abdel Nasser negli anni Cinquanta e Sessanta, l’Iran di Ahmadinejad ha saputo diventare, nel giro di pochi mesi, un riferimento nella umma islamica per un rinnovato jihad: la quinta guerra islamica per distruggere Israele. L’effetto annuncio dell’atomica iraniana galvanizza non soltanto larghi settori popolari, ma fornisce anche alle opinioni pubbliche musulmane oltranziste l’illusione di un rapido raggiungimento di una parità militare con Israele. L’incubo di quattro guerre arabe contro Gerusalemme malamente perse pare oggi superato, grazie all’imminente raggiungimento di un’uguale potenza distruttiva nelle mani del più forte stato fondamentalista del mondo islamico. Su questo miraggio di potenza Ahmadinejad e i suoi pasdaran hanno saputo innestare l’elemento di consenso fondamentale, lanciando un messaggio ideologico capace di eccitare le coscienze: la negazione dell’Olocausto, con la rinnovata accusa di un “complotto ebraico” che corrisponde ai dogmi fondanti la visione del mondo dell’islam, da Maometto in poi. Forte di questi elementi nella umma, corroborato dalla forza economica del petrolio a 70-80 dollari il barile, Ahmadinejad ha costituito un’asse del negazionismo e del jihad su piano regionale che unisce oggi Iran, Siria (rafforzata in extremis da Teheran, quando era sull’orlo del collasso di regime), Hezbollah, Hamas e le Brigate del Mahdi di Moqtada Sadr, che nei giorni scorsi ha ripreso gli eccidi di sunniti iracheni. L’obiettivo strategico è quello indicato da Ahmadinejad, ma la tattica militare per raggiungerlo non passa più per le guerre tradizionali che hanno dissanguato l’Egitto di Nasser e l’Iraq di Saddam. Oggi Hamas, Hezbollah e i loro padrini iraniani puntano a una guerra asimmetrica, a un conflitto di usura. Una prospettiva in cui è per loro fondamentale puntare su una separazione di Israele dai suoi possibili alleati. L’Unione europea, con le sue condanne al governo di Gerusalemme, asseconda i loro disegni.
Da pagina 3: "L'Iran dissimula e a Damasco si stanzaiano milioni per Hamas:
Condoleezza Rice, il segretario di stato americano, è partita da Foggy Bottom per il vertice del G8 che si terrà a Mosca nel weekend prossimo. Ieri a Parigi Rice ha incontrato i ministri degli Esteri di Francia, Gran Bretagna e Germania. I quattro hanno parlato di Iran e di medio oriente e alla fine hanno deciso di rinviare al Consiglio di sicurezza dell’Onu il dossier sul nucleare di Teheran. Condi è partita furiosa da Foggy Bottom ed è arrivata arrabbiata a Parigi. L’Iran, le sue attività nucleari e l’attività di destabilizzazione in tutta la regione in funzione anti Israele rappresentano l’issue sulla quale Condi si sente più impegnata. Gli Stati Uniti, che volevano agire in fretta contro l’Iran, hanno accettato da gennaio la linea paziente di Londra, Parigi, Berlino e Ue: trattare con Teheran da una parte e con Pechino e Mosca dall’altra. Con l’Iran per convincere gli ayatollah a sospendere la produzione di uranio arricchito e la costruzione dell’atomica. Con Russia e Cina per indurle a premere sul governo di Mahmoud Ahmadinejad e per persuaderle ad accettare, ove le trattative fallissero, un duro responso del Consiglio di sicurezza dell’Onu su pesanti sanzioni economiche non soltanto contro Teheran. Anche la diplomazia europea lavora, sotto l’occhio vigile di Condi. Il ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, ha incontrato il suo omologo iraniano e il caponegoziatore Ali Larijani e ha detto di essere molto deluso dagli iraniani poche ore prima che Javier Solana, il ministro degli Esteri dell’Ue, confessasse il flop dei negoziati. L’Iran non ha né respinto né rifiutato la richiesta europea concordata con Foggy Bottom di incentivi economici e politici e di un effettivo aiuto nel nucleare pacifico in cambio di una sospensione dell’arricchimento dell’uranio. “E pensare che gli europei speravano che tutto si concludesse per il G8”, ha detto Condi martedì pomeriggio ai suoi collaboratori. A Foggy Bottom circola da mesi un’analisi di intelligence sulla “strategia del bazaar”, ovvero del ciurlare nel manico e della dissimulazione, messa in atto da Teheran per tenere l’occidente in indefinita attesa. Le carte fanno riferimento a una riunione del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale iraniano del marzo 2006 (presieduta dalla guida religiosa, Ali Khamenei) nella quale si è decisa l’azione strategica per impedire alle iniziative europee e russe – arricchire l’uranio necessario per l’industria nucleare civile in Russia – di bloccare “la legittima esigenza nazionale di controllare l’intero ciclo di produzione del nucleare”. Al Consiglio supremo per la sicurezza di Teheran comandano in due: Khamenei e il suo fedelissimo Larijani, che è anche segretario del Consiglio. Nella riunione di marzo gli esperti nucleari iraniani, il team di politici e il gruppo di legali hanno elaborato quella strategia della trattativa infinita con l’occidente che permette di costruirsi un’industria nucleare, sino ad arrivare al ciclo completo dell’arricchimento. Una volta ottenuto, l’occidente avrà di fronte il fatto compiuto e dovrà, secondo gli iraniani, “abbozzare” così come in passato con il Brasile. E’ questo “Brazilian model” studiato dalla diplomazia iraniana a preoccupare Washington. Ieri è stata decisa una linea comune da discutere al G8 di Mosca con Putin. Ma Foggy Bottom ha l’impressione che soltanto America e Israele vogliano la linea dura sull’Iran. L’ambasciata americana a Damasco segue con interesse le attività di Khaled Meshaal, leader di Hamas ospitato dalla Siria. Si è saputo che a giugno Meshaal ha ricevuto una delegazione iraniana guidata da Akbar Mohtashemi Pour, leader e direttore generale del Comitato internazionale di aiuto alla Palestina, un’emanazione dell’intelligence iraniano e dei pasdaran. Erano presenti all’incontro dove si è parlato di finanziamenti al terrorismo di Hamas (227 milioni di dollari) altri tre leader del gruppo palestinese: Muhammad Nazal, membro dell’ufficio politico, Imad al Alami e il rappresentante di Hamas in Libano, Osama Hamdan.
Ancora dalla prima pagina "La strategia del terrore oltre la Palestina":
Il grande Jihad contro Israele nasce dall’odio verso gli ebrei e dal desiderio di distruzione del loro stato, sentimenti diffusi e rinfocolati dai regimi nel mondo arabo-musulmano. Nella regione ci sono infatti nazioni, la quasi totalità, che non riconoscono Israele e gruppi politico-terroristici, come Hamas e Hezbollah, al governo in Palestina e in Libano, che hanno come scopo esistenziale la cancellazione dello stato ebraico. Il grande Jihad ha una regia chiara, l’Iran. Il presidente pasdaran, Mahmoud Ahmadinejad, lo ha ripetuto più volte: l’obiettivo è eliminare “l’entità sionista” dalla mappa. Il grande Jihad sfrutta le debolezze create dal lavoro non compiuto della comunità internazionale. Provoca e cavalca l’instabilità irachena e afghana. Combatte “i demoni” di quei barlumi di democrazia, libertà e diritti che tentano di farsi strada scortati dalle baionette anglo-americane o si mettono in coda in lunghe file ai seggi iracheni o afghani. Israele, solitaria democrazia stretta in pochi chilometri di terra dura, è dunque “un oltraggio” intollerabile. Il grande Jihad si rafforza nel tran tran perditempo della diplomazia senza fondo e fine, che tenta di fermare, spostando soltanto in là un ultimatum, l’irrefrenabile corsa al nucleare di Teheran o il sostegno che il feroce ma fragile regime baathista di Damasco, quello sospettato di aver ordito la trama dell’uccisione dell’ex premier libanese Rafiq Hariri, garantisce a gruppi terroristi come Hamas, di cui ospita il leader Khaled Meshaal, e Hezbollah. Il grande Jihad contro Israele nasce da un assunto semplice: non deve esistere uno stato degli ebrei in quella terra, non ci devono essere arabi democraticamente eletti in un Parlamento, la Knesset. Perché Israele non fu accettato nel 1948, quando fu l’Onu, unico caso nella storia, a decretarne la nascita legittima, ed è stato combattuto sempre con le bombe e con gli uomini e le donne e i ragazzi e le ragazze bomba. Israele ha tentato di farsi accettare con le cattive, vincendo guerre iniziate dai suoi nemici, colpendo le reti del terrore ed erigendo barriere di difesa, e con le buone, dando chance alle vie diplomatiche ogni volta che se ne è presentata un’occasione anche flebile. Poi contro la trattativa sono state dichiarate due Intifada, sono stati urlati due no, a Camp David e a Taba, da un Arafat felice di ostentare con la mano un’incredibile “v” di vittoria. In mancanza di interlocutori credibili e forti, in assenza di una reale volontà di risoluzione del conflitto sul fronte avverso, Israele è stato costretto a far da sé, con una strategia di ritiri unilaterali tesa a definire confini certi per il proprio e per l’altrui stato, senza mai chiudere del tutto la porta alla possibilità di soluzioni concordate. Ma dovunque Israele si ritiri, prima con Barak dal Libano del sud, poi con Sharon da Gaza, ora con Olmert dalla Cisgiordania, scatta il piano del grande Jihad per far pagare un prezzo atroce per gesti di buona volontà, seppur unilaterali. Segno che non c’è nessuna voglia di composizione della crisi. Così Hamas vince le elezioni, Abu Mazen è intrappolato con finte tregue dai gruppi terroristici che ricompattano dietro di loro il fronte palestinese provocando con un interminabile escalation di lanci di razzi, di shahid e infine di sequestri l’inevitabile iniziativa militare di Israele che, come ogni stato, ha il diritto di difendersi. Così i regimi arabi tentano impossibili mediazioni sperando sotto sotto che sia ancora una volta Israele a risolvere da sé il problema. Così Hezbollah, il Partito di Dio libanese, allarga il fronte, con i lanci di razzi, mai interrotti, con i blitz contro i militari di Gerusalemme, le uccisioni, i sequestri e infine la promessa di guerra contro Israele e di quasi colpo di stato a Beirut del suo leader Nasrallah, che parlando pone la firma iraniana in calce all’opera di destabilizzazione dell’area a un passo dal conflitto regionale. La creazione di confini certi rappresenta per Israele un consolidamento, una seconda nascita. Come non accettarono la prima, così non vogliono accettare la seconda. E condannano Israele a vivere in guerra, i palestinesi a non avere uno stato, il medio oriente a essere la polveriera di un mondo che fatica a capire il cuore del problema: il grande Jihad contro Israele è una battaglia, un fronte, di una guerra contro la civiltà.
L'editoriale a pagina 3, "Con Israele, contro il jihad":
Questo è un appunto per il nostro ministro degli Esteri, in base agli ultimi fatti mediorientali. Intorno a Israele, sul cui diritto di esistere fino a prova contraria la classe dirigente italiana non dovrebbe nutrire dubbi, non c’è più da tempo, con le sue sciagurate contraddizioni, le sue malizie, i suoi slittamenti dal nazionalismo irredentista al terrorismo più feroce, un movimento nazionale di popolo o il suo simulacro spinto ed eterodiretto da un sistema di nazioni chiamato “mondo arabo”. La sola ipotesi che Abu Mazen, l’erede moderato di Arafat, si dimetta e sciolga l’Autorità nazionale palestinese, per evidente impotenza nel controllo del territorio e dell’autorità, è un segnale non metaforico di questo fenomeno drammatico, che s’intreccia con gli sviluppi dell’islamismo politico prima e dopo l’11 settembre. La questione dirimente, onorevole D’Alema, non è più lo status dei territori occupati, la possibilità di arrivare via trattative o via scelte unilaterali alla soluzione “due popoli-due stati” o anche “due democrazie-due popoli”. E’ sempre più evidente che la definizione dei confini e il problema dei profughi, dopo la nascita di Israele e la sua orgogliosa sopravvivenza attraverso le semisecolari guerre arabe, il cosiddetto rifiuto arabo, è ormai il capitolo minore di un dossier molto più grande e terribile. Né i negoziati di Oslo né i ritiri unilaterali sono stati in grado di avviare la spirale virtuosa di un protocollo di pace, anche temporanea, in quella regione strategica del confronto tra mondo occidentale, con la sua ipotesi di libertà e di democrazia, e mondo arabo-islamico, con la sua ipotesi contraria di dispotismo e di fanatismo fondamentalista antioccidentale. Se Israele tratta oppure si ritira, Israele deve comunque morire, vuoi travolta dalle ondate terroristiche degli shahid che colpiscono uomini donne vecchi e bambini nelle città vuoi dai razzi Qassam e dalle strategie militari di destabilizzazione del paese ai suoi confini con Gaza e con il Libano. Se Tsahal va via, ecco le sinagoghe bruciate, ecco la vittoria di Hamas, ecco il rafforzamento di Hezbollah. Il tutto sotto la regia perversa di un modello rivoluzionario, quello khomeinista, che da ventisette anni infetta la regione e il mondo con le sue strategie, rafforzate da ultimo dalla convergenza nel jihad con il wahabismo saudita e il binladenismo. Si sgozzano anche tra loro, ma intorno al probleema di come sgozzare meglio, e a vantaggio di chi, l’unica democrazia del medio oriente e l’avamposto dell’occidente in terra islamica. Israele non è più il testimone dello scontro tra sionismo e nazionalismo palestinese, è il pegno che i rivoluzionari islamisti vogliono far pagare alle democrazie occidentali, è le due torri di New York, è la metropolitana di Londra e di Madrid, Israele siamo noi. Essere egualmente vicini a due soggetti tanto asimmetrici, onorevole ministro, è impossibile. Ci pensi su.
Infine l'analisi di Kenneth Stein, professore di Storia e politica del medio oriente presso l’Università Emory di Atlanta, in Georgia, "Gli stati falliti e la forza dei clan":
Secondo i commentatori arabi, la loro regione versa in condizioni tetre. Dagli attentati dell’11 settembre 2001 contro l’America, gli arabi hanno sperimentato in modo ineluttabile i limiti dei loro sistemi politici. I fronti si compattano. Quello di sostegno alla destabilizzazione regionale da un parte e quello che non ha né il coraggio né la forza per stare da una o dall’altra parte. L’autocritica sostiene che la maggior parte dei cittadini arabi del medio oriente non ha né fede né fiducia nello stato. Teme i dittatori che la dominano; nutre diffidenza nei confronti di governi storicamente inetti, burocraticamente inefficienti ed estremamente invadenti. In assenza di un senso di cittadinanza con diritti, doveri e responsabilità chiaramente definiti, è inconcepibile un senso d’appartenenza allo stato. L’individuo va con i gruppi che sente più affini a sé – setta, etnia, identità religiosa, famiglia, clan o tribù – da cui ha tratto la sicurezza, il posto di lavoro e la tutela.
Non c’è il concetto di stato Nel 2003, lo storico palestinese Hisham Sharabi faceva presente che “non esiste un modo semplice per superare i regimi patriarcali o neopatriarcali che hanno governato la vita politica araba nell’arco degli ultimi 50 anni”. E il prolifico storico tedesco di origine siriana Basam Tibi gli faceva eco: “I cittadini di etnia araba non condividono un’identità comune, alla luce del loro coinvolgimento nelle comunità subetniche, settarie e tribali. Le società arabe sono ancora di stampo tradizionale, contraddistinte da attriti etnici e da identità tribali”. Secondo il noto osservatore del medio oriente e studioso americano Fouad Ajami, lo stato arabo rimane “remoto e ostile, privo di legami con la cittadinanza, lo stato regna ma non governa. Non è allo stato che giurano fedeltà gli arabi, ma alle loro famiglie e ai clan”. Un anno fa re Abdallah, sovrano di Giordania, affermava che la “wasta” (il nepotismo), aveva violato i diritti dei cittadini, consentito l’abuso dei fondi pubblici e privato alcuni cittadini delle opportunità spettanti di diritto. Che cos’è successo da quando Saddam Hussein e Yasser Arafat non sono più al potere? Le loro rispettive società si disgregano in conflitti familiari, settari e civili. Nella loro veste di dittatori rappresentavano il cemento che teneva insieme le loro società, dispensavano favori e paure. Oltre al terrore, tra gli strumenti degli autocrati più efficienti figuravano favoritismi, clientelismo e l’assegnazione di monopoli a parenti e colleghi. In alcuni periodi storici, la difesa di una causa comune si è tradotta in una paralisi temporanea delle società. Tra le cause comuni si annoverano l’antimperialismo, il panarabismo e il nasserismo: i cementi ideali delle società. Il rifiuto di Hamas di creare un governo d’unità nazionale e di discutere le condizioni poste a livello internazionale non è altro che un regime con la legittimazione delle urne. Said Abderrahman al Rashed ha scritto su Asharq al Awsat, il 4 luglio: “Sfortunatamente, Hamas ha dimostrato che non gli importa nulla delle altre opinioni se non della sua: perché gli arabi dovrebbero distruggere le loro nazioni per difendere il rapimento di un soldato israeliano?”. Meglio lasciare che Israele, nella sua solitudine, faccia da sé, e accodarsi a chi un obiettivo ce l’ha, come per esempio l’Iran. Secondo Sharabi, l’islam come sistema di confessione religiosa non ha indebolito le affinità tribali e locali, anzi, i due fattori sono convissuti fianco a fianco per più di 1.400 anni. La fedeltà a un codice di condotta civile non ha attecchito. In un articolo pubblicato dal quotidiano giordano al Dustour lo scorso aprile, Urayb Rintawi ha precisato che i governi e regimi arabi “non sono riusciti a consolidare il concetto di cittadinanza e di rispetto per i principi del pluralismo e dei diritti umani”. Inoltre, Ali Ibrahim ha scritto, sul quotidiano arabo londinese al Sharq al Awsat, che “va al di là della semplice lealtà: ha a che vedere con l’erosione del ruolo dello stato a vantaggio dei leader di sette o milizie asservite o affiliate a istituzioni religiose e sceicchi – e in alcuni casi persino dei leader di clan. E’ come se lo stato moderno avesse fallito e la regione rischiasse di essere riportata nell’era delle tribù, dei clan e dei gruppi settari”. Alla domanda su quale fosse la sua opinione in merito alla situazione araba, il commentatore politico egiziano Mohamad Heikal ha dichiarato ad al Jazeera nel marzo 2005: “Siamo in presenza di un vuoto, di immobilità, di assenza di un pensiero e di azioni dinamiche. Di conseguenza, gli altri fanno quello che vogliono. Il massimo che possiamo fare è fornire il nostro sostegno oppure stare fermi a guardare”. Nel settembre 2005, in un articolo apparso sul quotidiano libanese al Anwar, Ra’uf Shehouri si chiedeva: “Gli stati arabi continueranno ad adottare una posizione passiva, a stare in disparte a guardare uno stato arabo di rilievo come l’Iraq che rischia di essere cancellato dalla faccia della terra e a non prendere l’iniziativa, tentando di domare l’incendio prima che si propaghi anche nelle loro terre?”.
Il sogno di un Ataturk Quando nel marzo 2006 è stato organizzato il vertice arabo a Khartoum, vi ha partecipato meno della metà dei capi di stato arabi e non è stata adottata alcuna iniziativa su tutta una serie di questioni interstatali. Un servizio pubblicato sul settimanale egiziano al Ahram dell’aprile 2006 rilevava: “La vera tragedia dell’assetto statale arabo non risiede tanto nella sua debolezza, quanto nella sua incapacità di creare i meccanismi in grado di porre freno al suo degrado rapido e costante. Significa che potremmo assistere a un peggioramento della situazione nei punti caldi della regione, Palestina, Iraq, Sudan, Libano e Siria. Significa inoltre che in un futuro non troppo lontano, diventerà difficile anche convocare un normalissimo vertice arabo”. La preoccupazione principale dei governi arabi consiste nel rimanere al potere. Sono paralizzati e non intervengono per porre fine agli omicidi, alle stragi e ai rapimenti che avvengono in un altro paese. Rami Khouri, che invoca da anni l’introduzione di cambiamenti strutturali nel mondo arabo, ha scritto sul Daily Star libanese, nel marzo e aprile 2006: “Non sorprende che la maggioranza dei giovani arabi, che si trovano a vivere in una realtà del genere, voglia emigrare all’estero, trovare rifugio nella religione invece che in una cittadinanza più impegnata, aderire a gruppi politici estremisti o a cellule terroristiche, adeguarsi alla corruzione e al nepotismo istituzionalizzato, sperimentare stupefacenti e stili di vita estranei e diversivi, o arruolarsi nelle milizie. Come possiamo controllare il potere militare e delle forze dell’ordine statali? Come possiamo spezzare il potere esercitato da poche famiglie su interi paesi? Il vero potere continua a essere nelle mani di piccole élite dominanti che sono rimaste pressoché immuni dall’impatto di tali tendenze alla liberalizzazione. Abbiamo cambiato le forme politiche, ma non la sostanza del modo in cui è esercitato il potere”. Nessun tipo di liberalismo imposto dall’esterno o di assistenza fornita da aiuti esteri riuscirà a cambiare le strutture politiche della regione. E’ un’impresa impossibile tentare di accomodare la situazione nell’autocratico medio oriente con l’intervento di ingegneri politici che studiano, professano o seguono Voltaire o Jefferson. Finché nella regione ci saranno leader che sono istituzioni e ben poca leadership istituzionale, finché ci saranno centri di potere separati e non una separazione dei poteri, e finché gli abitanti si sentiranno residenti invece che cittadini, la regione non potrà subire alcuna trasformazione politica, e non potrà competere sul palcoscenico di un mondo sempre più globalizzato. Una soluzione ci sarebbe: la comparsa di un Ataturk arabo con lungimiranza strategica e competenze tattiche, e dotato del coraggio e della volontà di distruggere il tessuto della politica basato sull’appartenenza a gruppi. La fiducia nei governi non è creata dalle armi né dalle elezioni, ma dalla convinzione di un’unione tra chi comanda e chi è comandato.
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