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Blumenstrasse 22 - Ruvik Rosenthal Casa Editrice: Giuntina Ritratto di famiglia con rancore. La forza narrativa di questa storia non deriva da armonia espressiva o da fini intagli psicologici ma da un persistente risentimento, che pervade tanto i personaggi quanto il ritmo stesso delle frasi. In “Blumenstrasse 22”, Ruvik Rosenthal ha voluto raccogliere l’epos amaro che ancora oggi, a più di settant’anni di distanza, pervade l’immaginario degli yekkes, gli ebrei di origini tedesca, cacciati verso Israele dalle persecuzioni naziste. Blumenstrasse – ironicamente la strada dei fiori – è una via della Berlino Est, inizio e fine del racconto. Nella prima scena, le camicie brune entrano ed escono dal palazzo borghese, buttando all’aria gli scaffali della casa editrice ebraica e distruggendo i libri con metodo. E’ il 10 maggio 1933, il giorno del grande rogo voluto dai nazisti, che mette fine per sempre a una buona parte della cultura tedesca. Con questa morte delle parole comincia anche la lenta agonia dei protagonisti, che scivolerà lungo un piano inclinato di trecento pagine. Per Erik, editore raffinato ed epilettico, si apre la via dell’esilio a Parigi, poi ad Amsterdam e infine in Palestina. Ma se è relativamente semplice emigrare da un luogo fisico, quasi impossibile si rivelerà per lui, così come per altre figure, uscire dai confini immateriali della propria anima. Certo, il romanzo è disarmonico, né altrimenti potrebbe essere, poiché dà voce a un’ansia irrisolta tra il fulmineo affiorare della nostalgia e lunghi assolo di tristezza. Si può dire che Rosenthal provi e riprovi a liberare i propri eroi dall’umanesimo tedesco di cui sono prigionieri. Ce li mostra atterriti di fronte alle SA, che colano per le strade della capitale tedesca come un torrente di fango, o li riporta agli anni d’infanzia nella Germania del Kaiser, in cui già cova il fuoco distruttore dell’antisemitismo. Eppure loro – Erik e gli altri membri della grande famiglia Freyer – si sottraggono alla guida della voce narrante e tornano ineluttabilmente a immaginare i paesaggi di una terra che li ha rifiutati. Ne emergono alcuni convincenti cammei del giudaismo tedesco, prima e dopo il naufragio, dal medico miscredente fanatico di Wagner, allo storico dell’arte che vuole spiegare il rinascimento italiano secondo il credo di Marx. La prosa di Rosenthal si concede spesso intermezzi in versi, che vogliono restituire al lettore un poco dell’estetismo borghese primi Novecento, compagno degli esuli come un amato anacronismo. Il libro passa, quasi senza soluzione di continuità, dall’emigrazione degli anni Trenta, alla seconda guerra mondiale e alla divisione della Germania dopo la caduta di Hitler. E’ nell’est comunista che la figlia di Erik cercherà infatti di ricostruirsi una vita, ma solo per incappare in un nuovo paradossale senso di non-essere. Controparte speculare del fato europeo è l’ultimo ritaglio del racconto, che si snoda in un Israele tormentato da sempre nuove guerre. Nemmeno qui, in quella che potrebbe e dovrebbe essere una patria ritrovata, la storia trova veramente pace. Nonostante qualche scena un po’ manierata, l’energia negativa che ha cominciato a liberarsi nelle strade di Berlino scuote ancora la terza generazione dei Freyer, che patisce i conflitti israelo-arabi con un senso di fatale inappartenenza, come se a Gerusalemme esistesse ancora un’immateriale Blumenstrasse. Giulio Busi Il Sole 24 Ore |
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