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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Ruvik Rosenthal - Blumenstrasse 22 10/07/2006
Blumenstrasse 22 - Ruvik Rosenthal
Casa Editrice: Giuntina


Ritratto di famiglia con rancore. La forza narrativa di questa storia non
deriva da armonia espressiva o da fini intagli psicologici ma da un
persistente risentimento, che pervade tanto i personaggi quanto il ritmo
stesso delle frasi.
In “Blumenstrasse 22”, Ruvik Rosenthal ha voluto raccogliere l’epos amaro
che ancora oggi, a più di settant’anni di distanza, pervade l’immaginario
degli yekkes, gli ebrei di origini tedesca, cacciati verso Israele dalle
persecuzioni naziste. Blumenstrasse – ironicamente la strada dei fiori – è
una via della Berlino Est, inizio e fine del racconto. Nella prima scena,
le camicie brune entrano ed escono dal palazzo borghese, buttando all’aria
gli scaffali della casa editrice ebraica e distruggendo i libri con metodo.
E’ il 10 maggio 1933, il giorno del grande rogo voluto dai nazisti, che
mette fine per sempre a una buona parte della cultura tedesca.
Con questa morte delle parole comincia anche la lenta agonia dei
protagonisti, che scivolerà lungo un piano inclinato di trecento pagine.
Per Erik, editore raffinato ed epilettico, si apre la via dell’esilio a
Parigi, poi ad Amsterdam e infine in Palestina. Ma se è relativamente
semplice emigrare da un luogo fisico, quasi impossibile si rivelerà per
lui, così come per altre figure, uscire dai confini immateriali della
propria anima. Certo, il romanzo è disarmonico, né altrimenti potrebbe
essere, poiché dà voce a un’ansia irrisolta tra il fulmineo affiorare della
nostalgia e lunghi assolo di tristezza.
Si può dire che Rosenthal provi e riprovi a liberare i propri eroi
dall’umanesimo tedesco di cui sono prigionieri. Ce li mostra atterriti di
fronte alle SA, che colano per le strade della capitale tedesca come un
torrente di fango, o li riporta agli anni d’infanzia nella Germania del
Kaiser, in cui già cova il fuoco distruttore dell’antisemitismo. Eppure
loro – Erik e gli altri membri della grande famiglia Freyer – si
sottraggono alla guida della voce narrante e tornano ineluttabilmente a
immaginare i paesaggi di una terra che li ha rifiutati. Ne emergono alcuni
convincenti cammei del giudaismo tedesco, prima e dopo il naufragio, dal
medico miscredente fanatico di Wagner, allo storico dell’arte che vuole
spiegare il rinascimento italiano secondo il credo di Marx.
La prosa di Rosenthal si concede spesso intermezzi in versi, che vogliono
restituire al lettore un poco dell’estetismo borghese primi Novecento,
compagno degli esuli come un amato anacronismo. Il libro passa, quasi senza
soluzione di continuità, dall’emigrazione degli anni Trenta, alla seconda
guerra mondiale e alla divisione della Germania dopo la caduta di Hitler.
E’ nell’est comunista che la figlia di Erik cercherà infatti di
ricostruirsi una vita, ma solo per incappare in un nuovo paradossale senso
di non-essere.
Controparte speculare del fato europeo è l’ultimo ritaglio del racconto,
che si snoda in un Israele tormentato da sempre nuove guerre. Nemmeno qui,
in quella che potrebbe e dovrebbe essere una patria ritrovata, la storia
trova veramente pace.
Nonostante qualche scena un po’ manierata, l’energia negativa che ha
cominciato a liberarsi nelle strade di Berlino scuote ancora la terza
generazione dei Freyer, che patisce i conflitti israelo-arabi con un senso
di fatale inappartenenza, come se a Gerusalemme esistesse ancora
un’immateriale Blumenstrasse.


Giulio Busi
Il Sole 24 Ore

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