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Il Manifesto Rassegna Stampa
11.07.2006 Testimonianze da verificare, nessun cenno al contesto, e un problema che non si vuole affrontare
i difetti di una cronaca di Michele Giorgio

Testata: Il Manifesto
Data: 11 luglio 2006
Pagina: 12
Autore: Michele Giorgio
Titolo: ««Oltre ogni limite»»

"Oltre ogni limite" è il titolo dell'articolo di Michele Giorgio che, sul MANIFESTO dell'11 luglio 2006 raccoglie testimonianze di palestinesi su presunte prepotenze subite da soldati israeliani che hanno occupato temporaneamente le loro case durante le operazioni militari a Gaza.
Le storie, deprecabili, sarebbero naturalmente da verificare. Va precisato subito che nessuno è morto, è stato ferito, torturato  o malmenato, come lascerebbe intendere il titolo. 
Le circostanze nelle quali gli episodi hanno avuto luogo sono simili a quelle del famigerato "Private" di Saverio Costanzo. E, come in quel film, nulla viene detto del contesto che porta i soldati israeliani a occupare case di palestinesi: ovvero il fatto che Israele deve difendersi dall'aggressione di terroristi che operano nascosti tra la popolazione civile.
Il che, tra l'altro, potrebbe pure contribuire spiegare la durezza usata dai soldati israeliani verso le famiglie palestinese. Potrebbe essere stata la paura di essere aggrediti a tradimento a spingere i soldati a rifiutare ogni dialogo e a  preoccuparsi soltanto di tenere i palestinesi a distanza.
Ecco il testo (nel quale abbiamo inserito ancora un nostro commento):

 
Respinge ogni accusa Ehud Olmert. Le forze armate israeliane, ha spiegato ieri il premier incontrando la stampa estera a Gerusalemme, non hanno fatto un «uso eccessivo» della forza a Gaza, così come denunciano i palestinesi, la presidenza finlandese dell'Ue e il Segretario generale dell'Onu Kofi Annan. E neppure ha preso di mira di proposito la popolazione civile. Gli al-Attar però, come molte altre famiglie di Atatra, alla periferia di Beit Lahiya, non hanno avuto modo di apprezzare i modi gentili di quello che per il primo ministro israeliano è «l'esercito più morale del mondo». Giovedì scorso erano le 9.30 del mattino quando i soldati sono andati a far visita alla famiglia al-Attar, entrando in casa senza bussare alla porta. «All'improvviso ho visto un carro armato avanzare verso la nostra abitazione - ci ha raccontato Mohammad al-Attar, capofamiglia con un passato di manovale in Israele -, è arrivato a pochi metri da casa distruggendo tutto: muretto di cinta, orticello e due alberi. Poi ha fatto un giro su se stesso e s'è schiantato contro l'edificio distruggendo l'ingresso e due stanze».
A casa degli Attar non c'erano combattenti palestinesi e neppure ricercati, ma quell'abitazione situata nel punto più elevato di Atatra, rappresentava un punto strategico di osservazione e di fuoco per i comandi israeliani, responsabili dell'operazione «Pioggia d'estate» in corso a Gaza da quando, lo scorso 25 giugno, un militare, Ghilad Shalit, è stato sequestrato da un commando palestinese a Kerem Shalom. Anche ieri almeno tre civili uccisi in diversi raid aerei nella Striscia. E Khaled Meshaal, la guida suprema di Hamas in esilio, da Damasco ha chiesto apertamente a Israele il rilascio di prigionieri palestinesi in cambio della liberazione del soldato. «Il nostro popolo - ha detto - è unito nella richiesta di uno scambio tra il militare catturato e i detenuti nelle carceri del nemico sionista». Israele si oppone ad uno scambio di prigionieri.
«Ho preso uno straccio bianco, l'ho sventolato e in ebraico ho urlato che eravamo soltanto una coppia con 10 figli e che non avevamo fatto nulla di male. Sono arrivati tre soldati e un ufficiale che mi hanno gridato in faccia di entrare subito con tutta la famiglia in una stanza e di non muoverci da lì, altrimenti non avrebbero esitato a sparare», ha detto Mohammed al-Attar. In quella stanza l'uomo, sua moglie e i figli ci sono rimasti, senza mangiare e potendo solo bere acqua dal rubinetto del bagno, fino alle 23 del giorno successivo, quando i soldati hanno abbandonato la «postazione». Nel frattempo i soldati hanno trasformato in trincea l'intero piano superiore della casa. Sono ben visibili i fori nelle pareti, fatti al livello del pavimento, per creare postazioni per i tiratori scelti. Le piastrelle sono state rimosse nelle stanze che si affacciano sul lato più esposto della casa, per permettere ai cecchini di posizionarsi più in basso rispetto alle postazioni di tiro. «Hanno preso piatti e bicchieri e li hanno fracassati sulle scale in modo che cocci e pezzi di vetri facessero da allarme sonoro in caso di arrivo di persone indesiderate - ha spiegato al-Attar - giovedì sera ho urlato che almeno i miei bambini avevano diritto di mangiare e che in nome di Dio dovevano permettermi di sfamarli. Loro hanno risposto sparando un paio di raffiche di mitra per spaventarmi e farmi stare zitto». L'incubo è finito soltanto il giorno dopo alle 23.
Il racconto di Mohammed al-Attar è simile a quello di non poche famiglie che la scorsa settimana hanno visto i soldati trasformare in avamposti militari le loro case ad Atatra, Salaten e Beit Hanun. «Speciale» è però il caso di Mohammed Zayed, di Salaten. «Sono entrati in casa sfondando la porta - ci ha riferito - hanno puntato le armi e ci hanno intimato di andare via subito. Ho provato a calmarli ma un soldato mi ha dato uno spintone e mi ha detto «stai lontano ben zonah (figlio di puttana, in ebraico) altrimenti ti faccio saltare la testa». Al ritorno a casa gli Zayed hanno trovato una «sorpresa». «Hanno spaccato i mobili della cucina, piatti e bicchieri ma soprattutto hanno lasciato nel frigorifero escrementi ed urina in bottiglie di plastica. Sono disgustato, ma dove sono finiti gli israeliani che ho conosciuto quando lavoravo in Israele? Erano gentili e alcuni mi telefonano ancora per salutarmi. Qui a casa mia hanno fatto cose orribili. Perché?».

Mohammed Zayad dimentica che, nel frattempo, le organizzazioni terroristiche che hanno preso il controllo dei territori hanno scatenato una guerra contro i civili israeliani.
Questo, naturalmente, non giustifica minacce contro civili palestinesi disarmati e atti di vandalismo (posto che il suo racconto sia vero e che Giorgio lo riferisca fedelmente), ma pone un serio problema, che Giorgio e i sostenitori a oltranza dei gruppi terroristici palestinesi evitano sempre di affrontare.
A far precipitare drammaticamente i rapporti tra israeliani e  palestinesi non sono state, in realtà, né l'"occupazione", né la "colonizzazione" di Cisgiordania e Gaza. 
Sono stati invece i governi di Al Fatah prima e di Hamas poi e la guerra terroristica che tali organizzazioni hanno scatenato contro Israele, costringendola a una risposta che non poteva non coinvolgere, indirettamente o per errore o  per singoli abusi (per altro perseguiti dalla giustizia militare israeliana), la popolazione civile palestinese.
La guerra dei terroristi non ha per obiettivo l'indipendenza nazionale palestinese, ma la distruzione di Israele. E' questa la tragedia dei palestinesi, ed'è dal dominio di questi gruppi totalitari, e violenti, la cui scelta politica è sempre il suicidio nazionale (con l'eccezione di pochi,fin qui impotenti, realisti come Abu Mazen), che essi dovrebbero essere aiutati a liberarsi da chi si professa loro amico.
   

Mohammed Zayed e altri abitanti di Salaten, dopo l'uscita dei reparti israeliani, sono stati impegnati ad eliminare, dai campi intorno alle loro abitazioni, i pannoloni per adulti che indossano gli equipaggi dei carri armati i quali, durante le operazioni, non possono allontanarsi dai mezzi blindati. Un portavoce militare, al quale abbiamo chiesto un commento sulle denunce palestinesi, ha risposto che «l'esercito israeliano in ogni circostanza agisce rispettando la popolazione civile».
Distruzioni e umiliazioni non hanno impedito al Beit Lahiya di avviare subito la riparazione delle infrastrutture - rete idrica, elettrica e telefonica - danneggiate dai mezzi corazzati israeliani nella zona ovest della città, la più colpita, dove abitano 12 mila persone. Ci vorranno un milione e 250 mila dollari, ha calcolato la Ong italiana Cric, che dal 2003 collabora con il comune alla realizzazione di progetti di sviluppo. Danni che secondo le convenzioni internazionali dovrebbe pagare Israele e che, con ogni probabilità, pagheranno i donatori europei.

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