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Corriere della Sera Rassegna Stampa
11.07.2006 Janiki Cingoli rivendica il copyright dell'equivcinanza
e dà a Sergio Romano l'occasione di un ennesimo attacco a Israele

Testata: Corriere della Sera
Data: 11 luglio 2006
Pagina: 51
Autore: Sergio Romano
Titolo: «La questione palestinese e il concetto di equivicinanza»

Persino D'Alema considera ormai la parola "equivicinanza" un'espressione infelice.
Janiki Cingoli ne rivendica invece con orgoglio il copyright in una lettera amichevolissima a Sergio Romano.
Dando al responsabile della rubrica delle lettere del CORRIERE della SERA l'occasione per una difesa dell'equivicinanza e per  una delle sue tirate antisraeliane.
Ecco i testi della lettera e della risposta:


I quotidiani in questi giorni sono inflazionati dal termine «equivicinanza». Siamo stai noi del Centro italiano per la Pace in Medio Oriente — Cipmo — a inventarlo, alla fine del 2001. La cosa nacque da una discussione al nostro interno, all'inizio della seconda intifada. Alcuni fra noi sostenevano che non si doveva essere equidistanti tra occupanti e occupati.
Concludemmo che noi non eravamo equidistanti rispetto al fatto che l'occupazione dovesse finire, anche se naturalmente si doveva tener conto anche degli errori commessi dal mondo arabo e dagli stessi palestinesi, prima e dopo la guerra del '67, e che sono all'origine per tanti versi della persistenza di quella occupazione. Ma insieme affermammo che si doveva perseguire uno sforzo di «equivicinanza» rispetto ai due popoli in conflitto, tendente a comprendere le ragioni, le idee, le proposte e gli stessi sentimenti, a farsi carico dei loro problemi, delle loro sofferenze, dei loro stessi limiti. Tutto ciò allo scopo di facilitare la comprensione reciproca e aiutarli a uscire dal tunnel della violenza e della disumanizzazione del nemico, creando le condizioni migliori per la costruzione di materiali, idee, proposte, contatti utili alla difficile ripresa del processo negoziale. Mi capitò di esprimere queste idee a un seminario tra israeliani e palestinesi, nel dicembre 2001, cui partecipò il senatore Andreotti, e a una riunione con Fassino.
Entrambi apprezzarono il termine e lo fecero proprio, come più recentemente ha fatto il ministro D'Alema.
Mi pare però che esso, strada facendo, abbia un po' perso il suo significato originario, acquisendo una connotazione «buonista» o al contrario di equidistanza diplomatica tra i governi che non è quella originaria.
Pensa che dovremmo chiedere il copyright?
Janiki Cingoli
Direttore Cipmo
www.cipmo.org

Caro Cingoli, anch'io, durante un convegno a Venezia il 22 giugno, ho constatato che Massimo D'Alema usava con piacere, parlando della questione palestinese, la parola «equivicinanza». Ma dopo avere letto l'intervista che ha dato al Corriere del 6 luglio, ho l'impressione che il ministro degli Esteri le concederebbe il copyright senza esitare. A una osservazione di Antonio Macaluso sulla crisi in Palestina e «la posizione cosiddetta di equivicinanza», D'Alema ha risposto: «Equivicinanza è una brutta parola, che viene usata in senso spregiativo. Il concetto è più alto: essere egualmente amici del popolo palestinese e di quello israeliano. Si dice così». Si è accorto, probabilmente, che la parola stava subendo parecchie critiche, soprattutto nelle comunità ebraiche, e ha preferito prenderne le distanze. In realtà la parola non è né bella né brutta. Nell'uso che ne è stato fatto è una felice espressione diplomatica, particolarmente utile in alcune circostanze. La persona che se ne serve dimostra di non avere pregiudizi e partiti presi,
 
tra l'aggressore e l'aggredito

 di essere disposta ad ascoltare serenamente le ragioni degli uni e degli altri,

le ragioni di Hamas che vuole distruggere Israele e quelle di Israele che vuole difendersi:  si ascolti pure, ma si ammetterà che sarà poi inevitabile prendere partito, dato che non può esserci alcun punto di mediazione

di avere un atteggiamento che in altri tempi si sarebbe definito equanime.

e in altri di doppiezza

Ma presenta un inconveniente. Può essere usata con successo soltanto quando si aprono spiragli di dialogo e sembra essere giunta finalmente l'ora delle trattative. Questo è accaduto quando gli «equivicini» hanno sperato che la linea politica del presidente palestinese Abu Mazen, successore di Arafat, avrebbe reso possibile un negoziato e un compromesso. In quel momento sarebbe stato del tutto inutile e controproducente rivangare le responsabilità degli uni e degli altri. Era meglio dimenticare il passato e pensare al futuro. Un buon esempio di «equivicinanza» è quello del primo ministro britannico Blair prima degli accordi anglo-irlandesi del Venerdì Santo o, più recentememente, quello del primo ministro spagnolo Zapatero nella fase che ha preceduto l'inizio dei negoziati con l'organizzazione basca Eta. Ma oggi la situazione in Palestina è alquanto diversa. Dopo l'elezione di Hamas, il suo rifiuto di riconoscere Israele, il rifiuto israeliano di dialogare con il nuovo governo palestinese, la cattura di un soldato israeliano e l'uccisione di un colono, il quadro è bruscamente peggiorato. Le confesso, caro Cingoli, che mi è molto difficile essere equivicino nel momento in cui Israele assedia la striscia di Gaza con operazioni di rappresaglia che coinvolgono direttamente la popolazione civile

Israele non assedia Gaza (ha proposto l'apertura del valico di Keren Shalom, eil governo palestiense ha risposto di no, ha aperto il valico di Karni e fatto passare i generi di prima necessità, fino a quando un allarme attentato ne ha imposto nuovamente la chiusura, ha continuato a fornire energia elettrica) e cerca di colpire terroristi e postazioni dei lanciatori di kassam, non la popolazione civile

 e tratta i membri del governo o dell'Assemblea legislativa palestinese, eletti dai loro connazionali, come esponenti di una organizzazione terroristica.

Perché sono membri di un'organizzazione che persino l'Ue riconosce essere terrorista

 Il governo di Gerusalemme spera che le sue pressioni inducano Abu Mazen e il governo palestinese a colpire e dissolvere i gruppi dei militanti armati. Ma tratta la società palestinese, di fatto, come un nemico collettivo. E non si accorge di trasformare il terrorismo in resistenza.

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