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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
08.07.2006 Antonio Ferrari, la prima vittima dell'equivicinanza di D'Alema
Hamas e Israele, terrorismo e sto democratico, stesse colpe stesse responsabilità

Testata: Corriere della Sera
Data: 08 luglio 2006
Pagina: 19
Autore: Antonio Ferrari
Titolo: «L'ostaggio Gilad e la "prigione"»

L'equivicinanza di Massimo D'Alema ha fatto la prima vittima (non nuova però a queste posizioni), è Antonio Ferrari, che sul CORRIERE della SERA di oggi, 08/07/2006 a pag.19, dopo una analisi della situazione tutto sommato corretta, ingabbia tutti i protagonisti in una unica prigione, equiparandone quindi colpe e reponsabilità. Inaccettabile, come l'invito a Israele di accettare lo scambio di prigionieri. Che poi lo sostenga anche Avi Dichter (anche se in una modalità diversa) è un altro conto. Ferrari avrebbe dovuto sottolineare semmai le difficoltà nelle quali si trova uno stato democratico che deve difendersi dal terrorismo. Non l'ha fatto.

Ecco l'articolo:

La prigione del giovane caporale israeliano Gilad Shalit, catturato a Gaza dagli estremisti palestinesi, sembra la metafora di una prigione assai più grande, nella quale sono rinchiusi tutti: Hamas, il presidente dell'Anp Mahmoud Abbas (Abu Mazen), il governo di Ehud Olmert e la comunità internazionale.
Uniti da un coatto e umiliante denominatore comune: l'impotenza.
Forse mai l'incapacità di trovare una soluzione ad una delle periodiche crisi del conflitto israeliano-palestinese era stata così profonda. Tutti i soggetti di questa tragedia collettiva (già costata oltre 40 morti in pochi giorni) vagano infatti in un buio labirinto senza uscita.
Se non quella di piegarsi all'ineluttabile: ad un'altra guerra devastante, combattuta con le armi spuntate della forza e della disperazione.
Ciascuno, ben oltre le sofferenze del soldato prigioniero, non sa che cosa fare. Abu Mazen, che nelle ultime settimane, con uno scatto d'orgoglio, aveva
annunciato un referendum per chiedere in sostanza ai palestinesi di scegliere fra lui e Hamas, ed era poi riuscito a convincere la parte dialogante degli integralisti a riconoscere implicitamente Israele, è un leader stanco e afflitto dall'isolamento e dalla delusione. Il referendum non si farà più, anche perché quel che sta accadendo a Gaza produrrebbe un risultato politico opposto a quello desiderato. E poi il presidente avverte d'essere sempre più fragile e delegittimato. Tanto da subire l'umiliazione del ministro dell'interno di Hamas, che ha dichiarato lo stato di emergenza, sottraendogli uno dei suoi poteri.
Dietro le sbarre delle proprie contraddizioni è rinchiuso ovviamente Hamas. Incapace di mostrarsi credibile forza di governo, di parlare con una voce sola, di controllare le frange più estreme che la stanno trascinando nel caos più totale. Da una parte propone scambi di prigionieri, senza avere il carisma e la convinzione dell'Hezbollah libanese; dall'altra suggerisce (o tollera) i continui lanci da Gaza di missili Qassam, che colpiscono le confinanti città israeliane: senza causare gravissimi danni, ma provocando nefaste conseguenze politiche, psicologiche e militari.
Anche il premier israeliano Olmert pare prigioniero di una situazione che non sa come gestire. L'assalto graduale e «limitato» (almeno nelle intenzioni iniziali) alle roccaforti degli estremisti palestinesi produce danni assai più gravi di un attacco a tutto campo, e raccoglie accuse di cinismo e di utilizzo sproporzionato della forza, quando il governo prometteva l'esatto contrario.
Inevitabile, come scrive Maariv, che solo il 47 per cento degli israeliani sia d'accordo con il premier. Il quale, non essendo un militare, contava su una soluzione politica anche per non irritare la comunità internazionale; però ora deve tener conto degli umori dell'opinione pubblica interna, se è vero che l'82 per cento gli chiede l'eliminazione dei capi di Hamas. Infine, Olmert non ha la forza né il carisma di Ariel Sharon, che era capace, nel momento delle più dure rappresaglie militari, di trattare arditi scambi di prigionieri, facendoli accettare ai suoi elettori.
Nell'impotenza si ritrovano gli Stati Uniti, l'Unione europea, l'Onu, la Russia, un Quartetto che non soltanto non ha più voce per rilanciare il dialogo, ma pare avervi rinunciato. Sarebbe ora invece di mostrare coraggio e realismo, come quello del ministro israeliano della sicurezza Avi Dichter che non esclude di ricorrere ad uno scambio di prigionieri.
Per ottenere una tregua, fermare le armi, e alleviare le sofferenze di un popolo che vive sulla soglia di una tragedia umanitaria.

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lettere@corriere.it

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