Superficialità, omissioni, falsità in un editoriale scorretto di Igor Man
Testata: La Stampa Data: 07 luglio 2006 Pagina: 0 Autore: Igor Man Titolo: «Piove sangue»
La STAMPA del 7 luglio 2006 pubblica un commento di Igor Man sulla crisi di Gaza. Man accumula falsi luoghi comuni (il "riconoscimento implicito" di Israele nel documento Hamas- Fatah, i dubbi della "grande stampa israeliana", quando non sipotrebbe citare che alcuni dei commenti pubblicati da Haaretz), descrizioni della "briutalità" delle azioni israeliane , omissioni (i razzi contro Askhelon) per giustificare un giudizio di sostanziale equiparazione tra Israele e Hamas, i due capi della "corda pazza" del conflitto mediorientale. In conclusione, un 'analisi superficiale e fuorviante. Ecco il testo:
Gaza piove. Sangue. «Pioggia d’estate», così dannunzianamente, Israele ha battezzato l’offensiva contro i «miliziani di Hamas» per punirli delle continue «provocazioni mortali». Piove sangue a Gaza ma si ha l’impressione che questo sia soltanto il prologo d’una più vasta tragedia, più volte annunciata. La corda pazza» è uno dei libri più lucidi di Leonardo Sciascia: il rimpianto scrittore siciliano vuol dirci che quando ogni equilibrio si spezza è perché chi dovrebbe mantenerlo, coltivarlo siccome delicata pianta, se ne astiene ovvero tira troppo la corda e questa giustappunto impazzisce. La crisi esplosa nell’area di crisi per eccellenza, il Medio Oriente, con la cattura del caporale Gilad Shalit dell’esercito israeliano da parte di «miliziani vicini ad Hamas», è l’ennesima corda pazza che secondo una turpe logica rovinosa s’avvita su se stessa. Proprio quando un «documento» palestinese partorito non senza fatica dalla cosiddetta «ala moderata» lasciava intendere l’intenzione di Hamas di riconoscere «implicitamente» Israele. Quel «documento» non poteva ovviamente soddisfare Israele ma in politica, si sa, ogni segnale anche il più ambiguo, appunto, va raccolto se non altro per essere vagliato con cura mediante una particolare decriptazione. Codesto principio, tuttavia, sembra valere, e da sempre, in tutto il mondo - con una eccezione: la Palestina, dove lo Stato di Israele e la cosiddetta Autorità palestinese malamente convivono. Di più: ogni volta che in quella cruciale area di crisi compare una briciola non di veleno bensì di speranza, puntualmente irrompe la corda pazza. Alla quale, secondo un tragico copione, finisce impiccata qualsiasi «schiarita». Una volta ancora così è stato: il 24 di maggio un commando palestinese, dopo aver percorso un tunnel di 800 metri, scavato a una profondità di 6 metri all’incirca, un vero e proprio reticolo sotterraneo, opera di talpe umane sul modulo dei vietcong, in Vietnam, è emerso all’altezza di Kerem Shalom (vigneto della pace), una comunità di israeliani pacifisti. Fra le talpe palestinesi in versione vietnamita e i soldati a guardia del kibbutz è stato subito scontro. Due degli incursori vengono freddati e due sono i soldati uccisi, sei «miliziani» sono tornati a Gaza. Con un bottino prezioso: il caporale Gilat Shalit, diciannove anni, una spiccata rassomiglianza con Harry Potter. Colto in contropiede, il primo ministro Ehud Olmert reagisce. Con «Pioggia d’Estate». Respinge la pretesa dei rapitori di scambiare il caporale con le 95 donne palestinesi e i 313 prigionieri sotto i 18 anni, in mano israeliana. Attacca obiettivi strategici nella Striscia di Gaza, ammonisce, minaccia chiunque (da parte palestinese) osi mettersi di traverso, sorvola il palazzo del raìss siriano. Sbatte in galera mezzo governo palestinese. La consegna è «salvate il caporale Shalit». Truppe scelte, carri armati, arresti eccellenti (leggi Hamas), centrali elettriche colpite, case passate a setaccio - tutto questo tremendo ambaradan per salvare il caporale? Secondo fonti israeliane l’azione era stata pianificata da tempo e mirava giustappunto a decapitare il governo espressione di Hamas (vincitore però di regolari elezioni che han visto la disfatta della «Autorità» di Al Fatah presieduta da Abu Mazen, già compagno di strada di Arafat). Tanta mobilitazione di forze, minacce di castighi «estremi», pressioni manu militari in tutta Gaza per salvare soltanto un caporale, solo per questa nobile ragione? La grande stampa israeliana, con in testa Ha’aretz, avanza seri dubbi in proposito ma è anche vero come in Israele ogni soldatino abbia nome cognome e indirizzo. Potenza atomica sin dal 1969, con una aviazione superiore del 40%, almeno, a quella della Nato, all’avanguardia nella tecnologia più avanzata e nella ricerca tecnoscientifica, Israele che vanta nella sola Tel Aviv più gallerie d’arte di Torino, è pur sempre rimasta una «piccola città» dove tutti in qualche modo si conoscono, dove come accade in certe nostre province del Sud tutti si spartiscono gioie e dolori, sacrifici e speranze. In fondo, a ben guardare, è per queste sue caratteristiche che Israele riesce a coniugare il sacrificio con la speranza, nello sforzo perenne di essere e sentirsi un paese come gli altri. Raccontano che quando Israele era da poco Stato, il capo della polizia di Tel Aviv piangendo dicesse a Ben Gurion che avevano arrestato, in Ben Yehuda, una prostituta. Sorridendo, quel mezzo Cavour e mezzo Garibaldi che fu il padre della Patria di tutti gli ebrei, così confortò il poliziotto in lacrime: «E’ segno che Israele è un paese come gli altri». Dopo gli accordi di Oslo (abborracciati finché si vuole ma effettualmente creativi) che portarono alla storica stretta di mano fra Peres, Rabin e Arafat (sollecitato da una eloquente gomitata di Clinton), si pensò e si credette in Israele che esisteva se non una avenida certamente un sentiero che «prima o poi» avrebbe portato alla sospirata pace. Che comportava un alto prezzo da pagare come lealmente Rabin disse ai suoi compatrioti. Rabin aveva capito che in consonanza con il negoziato era imperativo dissodare l’arida terra del sospetto, era soprattutto indispensabile educare israeliani e palestinesi alla difficile convivenza. «Per voi cristiani la pace è amore, fratellanza e tant’altri luoghi comuni, per noi israeliani la pace è il contrario della guerra. Le pare poco?», mi disse Rabin, ospite di D’Alema a Villa Madama. Ma per spianare il possibile viottolo verso la pace, aggiunse, Israele doveva rassegnarsi a un «grosso sacrificio». Se vuole spuntare il fanatismo calcolato dei terroristi truccati da ascetici ulema, Israele dovrà riflettere su quanto ha scritto Dan Segre, un israeliano-doc, un patriota pragmatico e per di più credente-praticante, nel suo poderoso libro «Le metamorfosi di Israele», pubblicato in Italia dalla Utet. E cioè: «I nodi da sciogliere non sono gli stessi di prima della comparsa del terrorismo internazionale e del ruolo ch’esso svolge nel più complesso e generale conflitto tra l’integralismo islamico e l’Occidente giudaicocristiano. Israele, suo malgrado, è diventato il crocevia di tale conflitto (...) ma è diventato altresì il paese che ha più necessità di riformare le sue strutture politiche e militari per adeguarsi alle nuove sfide». Rabin lo aveva capito ma l’hanno ammazzato e oggi Israele è, in fatto, conteso da generali che si piccano di far politica e politici che altro non sognano se non di indossare la divisa militare, ignorando che politici si diventa ma soldati si nasce. Israele è «il solo Stato menscevico riuscito della Storia», diceva Golda Meir. In disparte, aggiungeva che «bisogna uccidere il passato per liberare il presente dalla benda che impedisce una visione chiara del futuro». Ma a Gaza la benda, zuppa di sangue, non cade. E il presente brancola nel buio dell’incertezza.
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