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Carteggio 1946 – 1951 a cura di Roberto Rizzo – Hannah Arendt , Hermann Broch Casa Editrice: Marietti Un appartamento dai mobili tristi e scuri, quasi un frammento della vecchia Vienna proiettato al di là dell’oceano. E’ il maggio 1946, e in quella casa di immigrati ebrei i due finalmente si incontrano. Lui, oltre a essere uno scrittore affermato, è celebre come tombeur de femmes, irresistibile per un gioco d’occhi, che – come scrisse Canetti – “inglobava l’interlocutore che gli stava vicino”. Lei ha vent’anni di meno, e alle spalle una tormentata relazione con Heidegger nonché due matrimoni. Tuttavia l’incontro non produce l’effetto che ci si sarebbe potuti attendere. La passione non s’accende e nasce invece un colloquio intellettuale, seppur sempre in bilico tra “un non più e non ancora”, tra un “non ancora e un ma certo”. Hermann Broch e Hannah Arendt sono due icone del Novecento di lingua tedesca, e l’epistolario nato dal loro legame nell’esilio statunitense è un documento eloquente della febbrile ricerca di un senso della storia, al di là della catastrofe del nazismo. Broch amava definire se stesso “cavaliere dell’epoca di Francesco Giuseppe”. In effetti, la sua scrittura impastata di estetismo e passione raccoglie ancora bagliori della vecchia Austria ebraica e imperiale. Figlio di un industriale tessile, e imprenditore egli stesso negli anni giovanili, aveva vissuto la stagione dei caffè letterari e delle avanguardie artistiche in un turbine di avventure amorose. Eppure, sebbene avesse preso le distanze dai riti soffocanti della borghesia austriaca, definendo tra l’altro Vienna “metropoli del kitsch e del vuoto etico assoluto”, l’ideale della Bildung – cioè la cultura ebraico tedesca come misura di umanesimo – continuava a impregnare la sua vita, e quel suo modo moralistico di concepire la vocazione dell’intellettuale. Negli Stati Uniti era approdato dopo essere stato arrestato nel 1938, e rinchiuso in un carcere nazista. La Arendt aveva dovuto lasciare la Germania già nel 1933. Dopo un soggiorno a Parigi e l’internamento in un campo francese, si era rifugiata sulla East coast, divenendo ben presto animatrice intellettuale del microcosmo degli esuli di lingua tedesca. Per questa cerchia di transfughi di febbrile creatività è stata coniata l’espressione “argonauti a Long Island”, che ben esprime la complicità e lo spaesamento che li univa. Il carteggio tra Broch e la Arendt, che giunge fino alla morte dello scrittore nel 1951, è un’immagine fedele di questo senso di fluttuante non appartenenza. Al di là delle schermaglie galanti, soprattutto da parte di Broch, che non rinuncia mai del tutto al proprio ruolo di seduttore, le lettere denunciano uno scarto irrimediabile tra essere e dover essere. E’ come se entrambi cercassero nella letteratura un antidoto contro la nostalgia per l’Europa, divenuta immenso contenitore di errori. Più crepuscolare il tono di Broch, che si sente invecchiare e combatte contro gli affanni economici, intransigente la Arendt, che sa dare alcuni giudizi fulminanti sull’opera dell’amico e innanzitutto sulla “Morte di Virgilio”, il grande romanzo di Broch,uscito nel 1945. Non mancano frecciate dell’uno e dell’altra contro gli altri protagonisti dell’intellighenzia ebraica, come Einstein che, secondo Broch, “si sente come Mosè”, o Arthur Koestler, che la Arendt gratifica con un velenoso “ripugnante”. Nell’ultima lettera, poco prima della morte, giunge anche una confessione del vecchio dongiovanni, ormai abbandonato dall’”energia spirituale di resistenza”, e turbato dal proprio “ondeggiare psicosomatico”. Hannah potrà rispondere solo con un messaggio mai spedito, in cui prenderà commiato dall’amico, come da un uomo “disperato nelle reti di una vita massimamente ingarbugliata”. Giulio Busi Il Sole 24 Ore |
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