Israele rimanda al mittente l'ultimatum di Hamas. "E quindi, avanti con i raid", commenta ostile Barbara Uglietti su AVVENIRE del 4 luglio 2006. Passa poi ad elencarli. Si preoccupa di qualificare, d'accordo con Kofi Annan, il bombardamento dell'ufficio del primo ministro palestinese Haniye come un "gesto sconsiderato" e di descrivere un Israele pronto a far precipitare la situazione e una popolazione palestinese timorosa del peggio.
Ecco il testo:
L'ultimatum è fissato per le sei di questa mattina (le cinque in Italia): se Israele non libererà i detenuti palestinesi nelle carceri delle Stato ebraico, «ne pagherà le conseguenze». La minaccia è contenuta in un fax inviato alle agenzie di stampa dai tre gruppi che il 25 giugno hanno rapito il soldato israeliano Ghilad Shalit: le Brigate Ezzedin al-Qassam (il braccio armato di Hamas), i Comitati di resistenza popolare e l'Esercito dell'islam.
I miliziani si dicono certi di avere l'appoggio della popolazione palestinese e avvertono che «la fase numero uno» si concluderà alla scadenza dell'ultimatum. Qualunque cosa significhi esattamente, promette niente di buono. Anche perché ieri, per la prima volta dall'inizio della crisi, il Parlamento palestinese si schierato a fianco dei miliziani, rivolgendo un appello alle autorità israeliane affinché accettino le richieste dei rapitori. «Se i nostri prigionieri saranno liberati, anche il soldato tornerà libero. Occhio per occhio, dente per dente», ha detto il presidente del Consiglio legislativo, Abdel Aziz Dweik. Che ha anche definito «stupida» la politica israeliana e annunciato che il Parlamento denuncerà lo Stato ebraico alla Corte internazionale di Giustizia dell'Aja per l'arresto di 64 tra ministri e deputati del governo Hamas: una misura «senza precedenti nella storia dell'umanità», ha detto.
Il governo del premier Ismail Haniyeh, che pure aveva definito legittime le richieste dei sequestratori, ha invece rivolto un appello ai rapitori affinché rispettino la vita del giovane. «Il governo si appella ai movimenti di resistenza affinché il soldato sia tenuto in vita e sia trattato bene - ha detto il ministro dell'Informazione palestinese Yusef Rizka - anche perché ciò sarebbe nell'interesse del popolo palestinese».
Israele ha immediatamente respinto l'ultimatum dei rapitori. Il premier Ehud Olmert ha fatto sapere che non intende aprire alcun negoziato e che considera l'Autorità nazionale palestinese «piena mente responsabile», tanto quanto il governo Hamas. «Non cederemo alle estorsioni dell'Anp e del governo Hamas, che sono guidati da organizzazioni di terroristi assassini», si legge nel comunicato dell'ufficio di Olmert. L'ultimatum è stato rispedito al mittente anche dal capo di stato maggiore, Dan Halutz.
E quindi, avanti con i raid. Dopo l'attacco di domenica all'ufficio del premier Haniyeh, distrutto da un missile israeliano (un «gesto sconsiderato» secondo il segretario generale dell'Onu, Kofi Annan) e dopo l'uccisione, vicino a Rafah (Sud della Striscia) di tre palestinesi che stavano preparando un attacco, all'alba di ieri una piccola unità di forze israeliane è entrata nel Nord della Striscia. Fonti dell'esercito hanno parlato di un'«operazione di bonifica delle mine e delle gallerie». Ma i palestinesi temono siano le prime avvisaglie dell'intervento su larga scala annunciato dal premier Olmert, che domenica ha dato il via libera ai suoi soldati di agire «con tutta la potenza necessaria» e che ieri sera ha autorizzato la continuazione dell'offensiva nella Striscia.
Di fatto, proprio a Nord, nell'area di Beit Hanun, reparti militari hanno aperto il fuoco su due miliziani e uno dei due è morto. Mentre un altro miliziano è stato ucciso, sempre in quella zona, dall'aviazione. La Jihad islamica e le Brigate dei martiri di al-Aqsa (braccio armato di al-Fatah) hanno annunciato di aver lanciato come rappresaglia alcuni razzi artigianali nella regione sud-occidentale di Israele.
Quanto al soldato rapito, un quotidiano arabo aveva scritto che una delegazione egiziana era riuscita a incontrarlo nel covo, ma il Cairo ha smentito. E a poche ore dalla scadenza dell'ultimatum, i mediatori fanno di tutto per cercare una soluzione negoziale. Il presidente egiziano Hosni Mubarak è partito per un vertice d'urgenza a Gedda con il re saudita Abdallah per discutere della crisi. Mentre si è fatta avanti la Russia. Ieri il ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni era in vi sita a Mosca: ha incontrato il suo omologo Serghei Lavron, che le ha assicurato tutto l'appoggio per il rilascio dell'ostaggio, e ha incontrato il presidente Vladimir Putin. Al termine, Putin «su iniziativa dell'Anp», ha avuto un colloqui telefonico con Abu Mazen.
SOLDATO RAPITO, ISRAELE RIFIUTA IL «RICATTO» RAFFORZATO L’ASSEDIO era il titolo della cronaca della Uglietti scelto da AVVENIRE il 2 luglio 2006.
Le ragioni per il quale la parola "ricatto" era scritta tra virgolette ci sfuggono.
L'articolo descriveva un'imminente catastrofica crisi umanitaria a Gaza, un'Israele aggressivo e un Hamas sostanzialemente disposto a trattare (quando invece l'organizzazione terroristica non ha mai garantito la liberazione di Shalit).
Le righe finali descrivono sarcasticamente le operazioni dell' esercito israeliano come un "addestramento" , nonostante il fatto che siano invece una risposta a ripetute aggressioni.
Ecco il testo:
Tutto fermo, tranne i raid. Israele mantiene l'assedio sulla Striscia di Gaza: bombardamenti di notte e incursioni di giorno. Nella piccola enclave palestinese i miliziani guardano i tank schierati al confine e sembrano incapaci di qualunque decisione.
Il soldato israeliano Ghilad Shalit, 19 anni, rapito ormai una settimana fa alla frontiera, resta nello loro mani. L'unica cosa chiara è che l'esercito israeliano non se ne andrà da lì senza il ragazzo, e i sequestratori devono pensare bene a quello che fanno. La popolazione è allo stremo: poca elettricità (l'aviazione ha bombardato le centrali a Nord e Sud della Striscia), poca acqua (la mancanza di corrente ha bloccato le pompe delle abitazioni) e poco cibo. L'Unrwa (l'agenzia dell'Onu per i rifugiati palestinesi) ha denunciato il richio che finiscano le scorte alimentari e anche di carburante, che fa funzionare i generatori. In più, quattromila palestinesi sono bloccati da giorni sotto il sole al valico di Rafah (tra Gaza e l'Egitto), rimasto quasi sempre chiuso questa settimana.
La situazione si fa ogni giorno più pesante. E nella Striscia, sulla sorte del soldato, continua il braccio di ferro tra i gruppi estremisti e i dirigenti più moderati. Così, ieri, mentre gli uomini delle Brigate dei martiri di al-Aqsa (braccio armato di Fatah) gettavano benzina sul fuoco annunciando il sequestro di altro militare: un bluff presto scoperto dalla polizia israeliana; mentre i tre gruppi che hanno rivendicato il rapimento del caporale Shalit (le Brigate Ezzedin al-Qassam, i Comitati di resistenza popolare e l'Esercito islamico) alzavano la posta per il rilascio, chiedendo li liberazione si «mille prigionieri» dalle carceri israeliane; in mezzo a tutto questo, per l'intera giornata si sono rincorse voci "tranquillizzanti" sullo stato di salute del ragazzo rapito. Il vice-ministro per gli Affari dei prigionieri del governo Hamas, Ziad Abu Aen, parlando in conferenza stampa a Ramallah, ha confermato che il giovane ha tre ferite lievi «di schegge di proiettile» (alla spalla e all'addome), che è stato curato da un medico palestinese e che è in condizioni buone e stabili. Il vice-ministro ha detto di aver ricevuto queste informazioni da non meglio precisati «mediatori». Per contro, altri dirigenti di Hamas non hanno saputo rinunciare ai consueti toni minacciosi: questa volta, a parlare, è stato Mushir al-Masri, uno dei leader di Hamas, che, da Gaza, ha detto che il movimento «non si farà intimidire» dalle minacce di Israele, che tiene nel mirino anche il premier palestinese Ismail Haniyeh.
Per parte sua, il presidente dell'Anp Abu Mazen, sottolineando con rammarico che la mediazione guidata soprattutto dall'Egitto non ha portato frutti, ha chiesto ad Haniyeh di decidersi a intervenire: «Sembra non aver niente da dire su quanto sta succedendo». Il presidente degli Stati Uniti George W. Bush ha detto che la liberazione del soldato rapito è «la chiave» per risolvere la crisi nella Striscia. Mentre il commissario per le Relazioni esterne dell'Unione europea, Benita Ferrero-Waldner, chiedendo la liberazione «immediata» del militare, ha lanciato un appello a Israele perché mantenga la «massima moderazione».
Israele ha respinto la richiesta dei tre gruppi per il rilascio di mille prigionieri: «Il premier Ehud Olmert ha ribadito che non ci saranno contropartite: o sarà rilasciato, o agiremo per il suo rilascio», ha detto il portavoce del ministero degli Esteri Mark Regev. E le truppe di Tsahal (l'esercito israeliano, che presto potrebbe avere gli automezzi blindati "Dingo II", di fabbricazione tedesca, visto che proprio ieri la Germania ne ha sbloccato la vendita alle autorità di Tel Aviv) si sono addestrate un po' di più nel Sud della Striscia.
Intervistata da Camile Eid la scrittrice israeliana Susan Nathan descrive falsamente il suo paese come impregnato di disprezzo e diffidenza nei confronti dei palestinesi e degli arabi, cause, speculari a quella dell'odio arabo per gli ebrei, dell'isolubilità del conflitto.
Ma la Nathan dimentica che Israele è una democrazia (che tra l'altro garantisce ai cittadini arabi parità di diritti).
Tutte le opinioni vi trovano espressione, anche quelle di chi crede che con gli arabi non siano possibili la pace e la convivenza.
Ma anche quelle di chi, all'estremo opposto, sostiene utopie pacifiste spesso del tutto irrealistiche.
Nel campo arabo e palestinese, invece, domina incontrastata la propaganda dell'odio.
Allo stesso modo, è semplicistico credere che sia "l'onore ferito" degli arabi a spingerli alla guerra contro Israele.
Vi sono i potenti fattori ideologici che ispirano i gruppi terroristici e che li guidano a sabotare sistematicamente ogni sforzo di pace spingendo con i loro attentati Israele a reazioni che, certo, provocano umiliazioni e sofferenze ai palestinesi, ma che sono un effetto di un problema diverso.
Appunto quello del rifiuto dell'esistenza di Israele e del terrorismo.
Ecco il testo:
Susan Nathan è una scrittrice israeliana scomoda. E lo diventa di più quando ribadisce la sua tesi mentre la cronaca riporta fatti di inaudita violenza. Il suo libro, L'altra parte di Israele, è tradotto in italiano per Sperling & Kupfer sotto il titolo di Shalom, fratello arabo. Perché Susan ha scelto, lei ebrea, di andare ad abitare a Tamra, una cittadina di 25mila abitanti, tutti arabi, sita alle porte di San Giovanni d'Acri. «Ricevo molte lettere e telefonate di appoggio», dice ad Avvenire. «Dicono di non apprezzare il mio coraggio, ma non se la sentono di seguirmi».
Altri, ovviamente, la accusano di aver tradito la sua gente…
Esattamente. Il governo scoraggia la pacifica integrazione fra i due popoli inculcando nei giovani ebrei l'idea che gli arabi siano primitivi e pericolosi. Invece, arabi ed ebrei, figli della stessa terra, possono e devono imparare a convivere in armonia, ed è possibile che questa accada se ciascuno riconosce se stesso nell'altro. Questo si riflette in posizioni disumane, da una parte e dall'altra. Gli ebrei gridano: "A morte gli arabi!", mentre gli arabi celebrano gli attacchi kamikaze.
E lei come è riuscita a superare questa barriera di odio?
Mi sono sforzata di capirne le dinamiche. C'è chi, nei due campi, incoraggia tali posizioni per motivi ideologici. Nella destra ebraica c'è chi vorrebbe espellere tutti gli arabi; tra i palestinesi c'è chi giustifica gli attentati suicidi contro Israele. Molta gente sposa questi tesi più per reazione difensiva che per convinzione.
Cosa chiede ai palestinesi in mezzo ai quali vive?
I palestinesi non colgono che il sostegno ebraico all'occupazione deriva da una sincera e autentica ansia di sopravvivenza. Il rombo dei caccia militari sopra le loro città copre l'eco della volontà sincera ebraica di vivere in pace in Israele. È nell'interesse dei palestinesi garantire questo anelito alzando la voce in maniera inequivocabile a favore della pace e denunciando gli attacchi terroristici. L'ambiguità viene colta dalla destra israeliana per convincere molti che le intenzioni non sono buone.
E agli ebrei israeliani?
L'ansia degli ebrei li porta a una percezione errata della realtà. Ogni critica nei confronti di Israele viene percepita come un rigurgito di antisemitismo. E questo fa sì che l'occupazione israeliana dei Territori venga ignorata anziché condannata e vista come il fattore principale della perpetuazione del conflitto nella regione.
Lei insiste nel suo libro sul valore dell'onore nella cultura araba. Perché?
È vero. Ai bambini arabi viene insegnato: "la morte piuttosto che l'umiliazione". L'onore dell'arabo è poi legato alla terra. Quando la terra viene tolta, l'onore è calpestato e uno preferisce morire. La chiusura ermetica dei Territori e le punizioni collettive toccano nel profondo l'onore del palestinese e spiega, senza giustificarlo, perché mai tanti desiderano immolarsi senza preoccuparsi di chi andrà a morire con loro.
E la soluzione?
Considerare nell'interesse di Israele preservare l'onore dei palestinesi. Non si tratta di restituzione di territori né di ritorno di profughi, bensì di un'attitudine. Israele deve cessare la disumanizzazione della lotta dei palestinesi riconoscendo la loro sofferenza ed essere pronti a cercare una soluzione al loro bisogno di libertà cui aspira ogni popolo.
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