Il veto dell'Iran alla liberazione di Ghilad l'analisi di Fiamma Nirenstein
Testata: La Stampa Data: 03 luglio 2006 Pagina: 9 Autore: Fiamma Nirenstein Titolo: «Il veto di Teheran: non liberate il soldato»
Dalla STAMPA del 3 luglio 2006, i retroscena delle trattative per la liberazione di Ghilad Shalit ( e del loro stallo) nell'analisi di Fiamma Nirenstein:
Nessuno in Israele si è dimenticato, quest’anno, che oggi ricorre il trentesimo anniversario della «mission impossible» di Entebbe: cento ostaggi rapiti da terroristi palestinesi e da membri della «Baader Meinhof» furono liberati nell'aeroporto della capitale ugandese da 28 soldati israeliani dell’unità speciale «Saieret Mathal» arrivata sul posto su un Hercules 130. Israele, dopo una settimana dal rapimento del soldato Gilad Shalit, sogna che la Saieret, tuttora attiva, compia un’azione miracolosa. E ponga fine all'incubo della famiglia di Gilad, insieme al continuo bombardamento di Kassam su Gaza, e alla crisi che rischia a ogni minuto di trasformarsi in un’esplosione mediorientale a reazione. Ma per ora ci si limita a gridare, a fare botti, a minacciare mentre nell’ombra la diplomazia, negata da ambedue le parti, si agita. Da parte israeliana, nonostante l’attacco all’ufficio di Ismail Haniyeh alle prime luci di ieri, quando si poteva essere certi che l’ufficio fosse vuoto, l’azione militare temporeggia: i motori dei carri armati restano accesi sul confine Nord di Gaza. Non si entra, ma si apre il passaggio di Karni per cibo, medicine, benzina. Se la sorte del soldato fosse già segnata, le truppe si sarebbero mosse, oppure Haniyeh avrebbe subito un attacco più sostanzioso di quello alle sue mura. Per ora l’attacco a Haniyeh ha avuto come risultato il primo pubblico riavvicinamento fra il primo ministro e il presidente Abu Mazen. La visita dei due che guardavano sconcertati e poi condannavano quella che hanno chiamato insieme la follia israeliana, è stata intesa a fornire ai palestinesi l’idea di situazione d’emergenza di fronte a cui tacciono le rivalità e i risentimenti. Ma non è così fino in fondo: Abu Mazen seguita dietro le quinte a spingere perché Haniyeh si contrapponga decisamente alla leadership dall’estero, seguendo in questo anche l’indicazione degli egiziani, che però sembrano, per ora, fallire nei loro tentativi di mediazione. La triangolazione si arena a Teheran: gli egiziani hanno premuto su Assad perché prema su Mashaal perché consenta a Haniyeh di dire ai carcerieri del prigioniero, di cui però si sa che sono molto eccitati e decisi, di negoziare. Ma gli iraniani, che parlano con Mashaal tutti i giorni, sono oggi più influenti per Hamas degli egiziani, più vicini alle loro idee religiose anche se sono sciiti, più protesi verso il comune scopo islamista. L’Egitto insiste di abbandonare la richiesta di «notizie» sul prigioniero in cambio di mille prigionieri di sicurezza. Mubarak ha provato a suggerire che il terreno di trattativa sia il ritiro delle truppe in cambio del prigioniero, e il suo rilascio immediato in cambio di quello posticipato di prigionieri palestinesi: ma non funziona. Tutta la leadership di Hamas vuole qualcosa di concreto in mano, perché il popolo, che ha i propri parenti in prigione, preme: e Mubarak ha scoperto che la sua garanzia non era sufficiente. Un’altra possibilità che si valuta in queste ore è quella del rilascio dei ministri palestinesi catturati con l’accusa di terrorismo tre giorni or sono. Ma Israele, che pure nel passato non si è peritata di lasciare prigionieri a migliaia persino in cambio di corpi o di pezzi di corpi di rapiti, stavolta ha un problema molto maggiore per avventurarsi nella trattativa. Perché dall’altra parte siede non una qualunque organizzazione terrorista, ma Hamas, che, quale che sia il gruppo che oggi compie le operazioni per interposta persona, è al governo, dispone di fondi e di territorio e di armi, e, dicono anche nell’ufficio di Haniyeh stesso, ha un potente leader all’estero, Mashaal, che parla prima con Teheran, e poi decide. «Noi abbiamo un ruolo», ha detto il portavoce dell’ala siriana di Hamas Osama Hamndam, «solo perché le parti internazionali si rivolgono a noi, ma noi non abbiamo contatto con i rapitori». Naturalmente Haniyeh dice lo stesso. Il primo ministro palestinese ha spostato la famiglia dalla sua casa del campo profughi di Shati e sta alla macchia come tutti i rappresentanti di Hamas. Anche a Damasco, Mashaal pare che faccia dell’umorismo sulla possibilità che l’esercito venga a cercarlo. Israele per ora sembra non aver escluso nessuna ipotesi. Il rischio è troppo grande: Hamas può lanciare un’ondata di rapimenti che molto facilmente possono essere attuati in tutte le strade, in ogni luogo se solo questo risulta il tallone d’Achille d’Israele. Il ministro della Difesa Peretz ha chiesto a Condoleezza Rice di premere su Damasco, dopo che per due giorni gli ha mandato gli aerei da guerra a volare sopra la sua residenza estiva. Una cosa sola è chiara: se il soldato, di cui si dice con certezza che sia in vita, verrà restituito, Israele darà ancora una chance a Hamas di dimostrarsi una forza ragionevole. Altrimenti, tempi bui si preparano. Ieri Ahmadinejad ha sentito il bisogno di mandare un suo messaggio di condanna a Israele. Viene da pensare che, più che aiutare il popolo palestinese, Ahmadinejad voglia aiutare Mashaal ad affermare la linea dura. La soluzione, è lontana.
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